Edouard Deluc
Gauguin di
Edouard Deluc, con Vincent Cassel, ha un vantaggio: può usare
autentici panorami polinesiani nella sua biografia (un po'
“ripulita”) del grande pittore, limitata in pratica al suo primo
soggiorno in Polinesia. Uscito in Francia nel 2017, da noi è
arrivato in ritardo finendo vittima del Covid, e si vede solo online.
Tuttavia, anche se è pensato per il grande schermo, questo modesto
film tiene qualcosa della fiction televisiva.
Come introduzione
all'arte di Gauguin tocca affidarsi a due parole di Theo, il mercante
d'arte che all'inizio spiega qualcosa a una signora (e al pubblico).
Non viene esplicitato ma è Theo Van Gogh, il fratello e mecenate di
Vincent. Ci sono degli accenni
didattici buttati qua e là per lo spettatore; per esempio, mostrare
una riproduzione de La
grande onda di Kanagawa
di Hokusai appesa nella capanna di Gauguin serve a significare
l'influsso dell'arte giapponese (lo japonisme)
su tutta la cultura artistica del tardo Ottocento; ma
fondamentalmente è poca roba. In realtà Gauguin si
concentra sulla vita e non sull'arte. Ci sono la povertà di Gauguin,
la cattiva salute, il suo odio per i missionari, per ovvie ragioni un
po' meno la sessualità; ma paradossalmente la pittura è la grande
assente del film (certo, vediamo Gauguin comprare colori e dipingere,
e con questo? Potrebbe anche essere un pittore della domenica).
Questo perché il film si sofferma sulla suggestione psicologica che
detta i dipinti piuttosto che sul processo creativo vero e proprio.
La scena migliore è quella che dà origine al quadro Manao
tupapao – Lo spirito dei morti veglia, con l'amante tahitiana
Tehura distesa bocconi sul letto, nuda e spaventata (“Erano finite
le candele... Sono venuti gli spiriti”): solo qui sentiamo un
brivido di riconoscimento che congiunge l'occasione e l'opera.
Bisogna aggiungere che
il film tiene da parte “i Gauguin”, i dipinti finiti e oggi
famosi, per i titoli di coda,
dove li vediamo enunciati uno dopo l'altro, e così lo spettatore
“ricostruisce” mentalmente l'unione della narrazione con il
risultato. Però quest'esilio nei credits li
sminuisce: perché lo spazio dei titoli di coda implica una
separazione rispetto al racconto. Semmai, un regista più dotato
avrebbe fatto sfilare questa progressione di capolavori prima dei
titoli, come climax alla fine del film.
Invero,
la chiave per penetrare la verità di Gauguin e la sua esperienza
umana è proprio la sua pittura. Per questo il film rimane piuttosto
vuoto; e la profondità della tensione di Gauguin verso l'innocenza
tahitiana rimane circoscritta a qualche enunciazione verbale.
Mostrare in modo convincente la pittura nel suo farsi è difficile,
se uno non è, per esempio, Martin Scorsese (Lezioni
di vero, in New
York Stories). Ma si può
sempre ottenere della buona divulgazione, da Moulin
Rouge di John Huston a
Brama di vivere
di Vincente Minnelli – che accanto a Van Gogh presentava un Gauguin
(Anthony Quinn) che certo ricorderemo più di Vincent Cassel.
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