Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman
Il
cinema di Alessandro
Cassigoli e Casey Kauffman (Butterfly, Californie) cammina su una
lama di coltello, si basa sul
discrimine impalpabile fra documentario e fiction; i personaggi
ripropongono nel racconto se stessi e la loro vita. Vittoria,
parlato in napoletano con sottotitoli italiani, ritorna
a Torre Annunziata; ora
Jasmine, già
apparsa in Californie, è
sulla quarantina, sposata con
tre figli, di cui uno già
grande. Lei
ha un sogno ricorrente: il
padre morto
(la
storia tocca lateralmente
l’ILVA e l'amianto) le
consegna una bambina; e una
figlia femmina è il suo desiderio di sempre. Jasmine, che
ha avuto tre parti cesarei,
non vuole un’altra gravidanza; decide di adottare una bambina in
Bielorussia. Questo causa
un litigio immediato e poi un
tiramolla di frizioni col
marito Rino. In alcuni
momenti sembra che Jasmine si comprenda meglio col figlio maggiore
Vincenzo; ma il rapporto è forte con l’intera famiglia (“Voi
siete la vita mia”).
Marilena
“Jasmine” Amato “recita” se stessa come gli altri,
ripercorrendo –
“liberamente
ispirato”, dice una didascalia – il
racconto vero
della sua adozione nel
2016; e i
suoi primissimi piani
ricevono un'indubitabile potenza dalla particolare natura del film.
Jasmine è
incrollabile («‘na
capa tosta»
come
suo padre,
sentiamo nel film).
I problemi familiari, la
macchina burocratica, i costi spropositati necessari per adottare, niente la
ferma. Il montaggio di Alessandro
Cassigoli è legato
ai sentimenti, tanto elegante quanto significativo.
Una
bella ellissi, non l’unica
del film, ci
porta alfine da Torre
Annunziata in Bielorussia, dove Jasmine e Rino incontrano la piccola
Vittoria; ed è una splendida
scena dove l'enunciazione
visiva della bambina è ritardata (prima un dettaglio, il braccio,
poi la piccola è tenuta fuori fuoco) fino al “Le posso andare
vicino?” di Jasmine. Ma i
problemi non sono finiti. Vittoria,
che non reagisce nel primo
incontro, ha un disturbo
cognitivo, non si sa quanto grave. La
crisi, anche personale di Jasmine, raggiunge il suo apice in una
tesa sequenza
in cui la bambina dovrebbe
disegnare un cerchio (è un test per capire la gravità del disturbo)
e non vuole. La scandiscono in modo drammatico le frasi in bielorusso
non tradotte (fra cui si capisce davaj, “avanti!”). E questo
dramma è risolto, imprevedibilmente, dal marito, con
un autentico coup de théâtre,
però
radicato nella realtà, che realizza un alto momento commovente.
Nella scena seguente coi
palloncini per la prima volta vediamo la bambina ridere. La serie di foto con didascalie che
appare alla fine (ove,
naturalmente, la bambina è un’altra: quella vera) ci
conferma che il titolo Vittoria ha un doppio significato.
Nessun commento:
Posta un commento