lunedì 12 novembre 2018

Menocchio

Alberto Fasulo


Il cinema sull'Inquisizione e le sue vittime, che già aveva un esempio italiano alto in Gostanza da Libbiano di Paolo Benvenuti, si arricchisce di un apporto notevole con Menocchio di Alberto Fasulo. E' quel Menocchio mugnaio eretico del Cinquecento la cui storia è narrata ne Il formaggio e i vermi di Carlo Ginzburg; anche se il film non si riferisce direttamente al libro, supportandosi piuttosto sugli studi di Andrea Del Col.
Nella prima immagine Menocchio (l'eccellente non professionista Alberto Martini) entra dal buio avanzando quasi teatralmente fino al primissimo piano. Non è solo l'affacciarsi alla ribalta del racconto; di più, è l'emergere dal grumo di oscurità che avvolge il personaggio nella sua essenza – un rappresentante delle classi inferiori in un mondo agricolo, storicamente mute (i senzastoria, per dirla con Tito Maniacco), che si prende il diritto non solo di parlare ma di ragionare di quelle cose che l'egemonia della Chiesa arroga a sé. Infatti – e questo è un tratto perfettamente centrato nel film – gli inquisitori ancor più che di sanzionare l'eresia di Menocchio si preoccupano di individuare la fonte del “contagio” (“Chi ti ha detto queste cose?”) quasi ribellandosi all'idea che l'umile mugnaio possa averla elaborata da solo. E' per mantenere la nozione di questa distanza che il film non menziona i libri da cui il Menocchio storico aveva tratto, interpretandoli a suo modo, le basi della sua nebulosa cosmogonia. Ed è, questo atteggiamento mentale degli inquisitori, imparentato con lo stesso sconcerto descritto da Ginzburg in un altro libro famoso, I benandanti, davanti a un fenomeno che non rientra nelle categorie della teologia cattolica e quindi ci verrà fatto rientrare a forza.
Il racconto poi si apre su una stalla, frazionata in dettagli: una donna che prega, uomini e animali, una vacca gravida di cui questo montaggio per dettagli ritaglia il ventre gonfio e gli occhi dolci. Ha un senso, quest'inizio, sul piano della storia. E' la concretezza contadina che sostanzia la visione del mondo di Menocchio; ma c'è di più: un uomo abituato a veder nascere bambini e animali come esperienza quotidiana è il meno propenso a credere alla verginità della Madonna ante partum, post partum et in partu secondo il dogma della Chiesa. “I miei figli li ho fatti nascere io... mia moglie non era vergine dopo”.
Le opinioni di Menocchio ci vengono riferite “come in uno specchio” attraverso il gioco delle domande degli inquisitori, le risposte di Menocchio alle contestazioni fattegli, le risposte impacciate e impaurite dei testimoni. Sfila davanti all'inquisitore un mondo di contadini reticenti. Rimane impressa la vulnerabilità della moglie di Menocchio, sulla quale l'inquisitore cerca di far leva con tecniche psicologiche consumate – che del nostro tempo, invertendo la filiazione, possono ricordare la Stasi e le altre inquisizioni comuniste. Nota che fra questi testimoni a rischio di divenire imputati c'è il parroco del paese. Qui viene appena adombrata, ma con intelligenza, una questione che tormentava la Chiesa, quella del clero di campagna e della sua formazione (è per questo che il Concilio di Trento impose l'istituzione obbligatoria dei seminari).
Il film giustamente insiste poco sulla cosmologia di Menocchio, una sorta di materialismo panteista (solo durante l'abiura finale sentiamo sentiamo l'espressione “a modo di formaggio” che richiama il testo di Ginzburg); mentre non manca di dar conto di come i suoi discorsi contengano un sottofondo di contrapposizione di classe (il dio della ricchezza e quello della povertà) che è proprio di molti movimenti ereticali.
Saggiamente il film non trasforma Menocchio in un santino illuminista ante litteram: il suo interesse è di metterne in risalto la carica di ribellione intellettuale e morale. Tutto questo è scritto nel suo viso barbuto, cupo, roccioso, che esprime una volontà indomabile. Nella scena finale in cui recita coram populo la sua abiura, Menocchio alza la voce quasi gridando quando elenca le proposizioni eretiche che deve condannare, come a riaffermarle.
Per questo Menocchio si trova contro contro un potere più grande di quanto lui stesso si immaginasse – un dominio sulle anime come sui corpi. In una scena vagamente brechtiana vediamo l'inizio della costruzione di una chiesa con i contadini che lavorano visti in opposizione al frate che, da mosca cocchiera, sbraita autoritarie esortazioni (alla fine dell'erezione della grande croce uno di loro commenta: “Adesso ha finito di gridare anche il prete”). C'è una bellissima pagina in cui Menocchio, portato al processo, è lasciato da solo in una stanza riccamente affrescata con immagini di vescovi e re. Sono la manifestazione visibile del potere, amplificato dalla meraviglia del mugnaio che vede qualcosa che non aveva mai visto prima. Il film inserisce una serie di primissimi piani dei personaggi affrescati che – come fosse un'interpellazione – guardano “in macchina” verso di lui in una logica di campo/controcampo.
Menocchio è un film della soggettività. Il cinema di Fasulo è sempre stato un cinema della concretezza, dell' immediatezza dell'esperienza – qui, per Menocchio, per gli altri personaggi, fra cui spicca la moglie, per gli stessi inquisitori. Il film si articola su due percorsi: da un lato quello degli inquisitori, preoccupati o scandalizzati di fronte a questo soggetto incognito; dall'altro quello di Menocchio, sempre meno in grado di difendersi e tuttavia ostinatamente ribelle, sempre più vicino al momento della scelta fra il rogo e l'abiura. E' a questo punto che entra il suo incubo, con suggestioni goyesche, in cui si vede messo al rogo da figure demoniache con le maschere dei Krampus che scandiscono in coro “Menocchio non parla più”. Una scena precedente, la macellazione della vacca, col muso insanguinato tirato su da Menocchio davanti alla propria faccia, gli offre ora il materiale inconscio per la maschera-teschio bovino nell'incubo.
Così Menocchio abiura – ma, così nella realtà storica come nel racconto del film attraverso le didascalie finali, dopo un periodo di imprigionamento, tornato al paese, continuerà a esprimere le sue idee, sicché anni dopo perirà sul rogo come eretico relapso.
Non dico niente di originale se dico che Menocchio è un film olmiano. La lezione di Ermanno Olmi è presente nella narrazione, che riesce a fondere la concretezza materiale con un elemento di astrazione; ed è presente nell'autenticità assoluta dei visi, così concreti e terragni, dai quali Fasulo fa emergere una forte verità. E anzi, una battuta di Menocchio su Dio che si nasconde per vergogna degli uomini richiama – non volutamente, penso, ma è un cortocircuito interessante – un passaggio di dialogo nel capolavoro di Olmi Torneranno i prati.
Allo scopo di garantire l'immedesimazione degli interpreti, il film è stato girato in sequenza cronologica, e Fasulo ha fatto recitare gli attori senza fornir loro in anticipo un copione dei dialoghi, in modo da portare allo scoperto le loro emozioni. Non manca l'uso del dialetto, friulano e veneto, in contrapposizione all'italiano (le esortazioni del figlio ad abiurare: “Salviti, parivif, parino pues vioditi murì cumò... no par man di lôr, dai predis”). Nella raffinata fotografia, dello stesso Fasulo, sono evidenti le suggestioni pittoriche: Rembrandt in questo buio d'inchiostro, tangibile, che avvolge Menocchio imprigionato; Caravaggio un certi tagli di luce, come una porta a sbarre illuminata da dietro; e naturalmente Goya, non solo nella scena dell'incubo. Potrebbe essere un caso, ma anche l'inquadratura di Menocchio nudo alla tortura ricorda con segno rovesciato il Colosso.
Il film è attento sul piano storico (notevole l'esplorazione della logica del carcere: la candela in cella a spese di Menocchio, l'elenco delle proibizioni che comprende sputare e tossire), ma intende essere universale; tanto che non stridono un paio di leggeri anacronismi linguistici (“ideologie” in senso moderno, “fulminanz”, ossia fiammiferi, l'improbabile uso colto dell'avverbio “ne” che sentiamo in bocca a uno dei testimoni all'inizio). Bisogna ricordare che Alberto Fasulo tende in tutto il suo cinema “antispettacolare” a raggiungere attraverso il realismo una sorta di dimensione atemporale, con l'esperienza umana al centro – e anche questo è un tratto olmiano.

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