martedì 27 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Cina, Mongolia, Corea


Con queste note concludo la serie di brevi recensioni dei film del Far East Film Festival 2025 (va da sé che non li ho visti tutti). Nota: alcune recensioni sono già state pubblicate in forma breve sul quotidiano Messaggero Veneto.

Tsui Hark

Il maestro Tsui Hark, grande regista e produttore, il cui cinema si situa fra Hong Kong, Taiwan e la Cina continentale (ma anche con una puntata nel cinema hollywoodiano) in un ricchissimo territorio di fantasy, wuxiapian, arti marziali e avventura, ha ricevuto il Gelso d’Oro alla carriera 2025, consegnato in una bellissima cerimonia da un altro grande, Tony Leung Ka-fai. Il FEFF ha reso omaggio a Tsui Hark con la presentazione di tre suoi film, fra cui l’ultimo, Legends of the Condor Heroes: The Gallants.
Shanghai Blues (Hong Kong 1984), presentato in un restauro in cui il regista ha cambiato qualcosa, è un superbo mélange di velocità, ritmo, umorismo e commozione all’interno di una descrizione calda e appassionata della Shanghai povera del dopoguerra, subito prima che la città cadesse nelle mani dei comunisti (ha un valore simbolico quel treno che parte nel finale verso Hong Kong). Equivoci, scambi di persone, gag, una ronde di una serie di quadri collegati da una presenza continua della musica (anche il dénouement si svolge al ritmo della canzone eponima, Shanghai Blues). Un ottimismo di fondo sul fuggire e una nota amara sul restare, nel finale. Un capolavoro.
(Nota in margine: quando uscirà il DVD, mi auguro che contenga ambedue le versioni, quella originaria del 1984 e questa).
Nell’ambito della rassegna, che sono stato felice di curare, sulle creature del folklore asiatico nel cinema è inserito Green Snake (Hong Kong 1993), in cui il regista riprende la vecchia leggenda giapponese di Serpente Bianco e Serpente Verde, due spiriti-serpente sorelle travestite da umani per vivere nel nostro mondo. Fiabesco e fascinoso, certo; ma soprattutto, Tsui Hark – che non dimentica mai nel suo cinema la personalità dei suoi personaggi in favore del racconto – amplia la leggenda allargando il gioco psicologico fra le due sorelle, la maggiore e la minore: Serpente Verde (personaggio assai minore nella leggenda e qui co-protagonista, interpretato da Maggie Cheung) è più giovane di Serpente Bianco, ha solo 500 anni, ed è piena di impetuosità e inesperienza giovanile (con gag di trasformazione incompleta), ma vuole anche lei, come la sorella maggiore, provare l’amore di un mortale.
Il wuxiapian Legends of the Condor Heroes: The Gallants (Cina 2025) ritagliando la sua storia da una parte del romanzo-fiume di Jin Yong, maestro riconosciuto del wuxia letterario con le sue opere scritte fra il 1955 e il 1972. Nel lavoro di taglia e cuci di Tsui Hark, che usa in modo molto autonomo (e non è la prima volta) l’opera di Jin Yong, un punto però rimane come stella polare: il concetto di righteousness (rettitudine), centrale nella cultura cinese classica, che si riflette in questi “cavalieri antiqui”. Tsui Hark crea un filmone rutilante di grande spettacolo, un’orgia visuale e narrativa piena di movimento e di colore. È un maestro del combattimento e i suoi “voli” nell’aria sono probabilmente i più belli dopo quelli di King Hu. Eppure, non è la tensione del combattimento wuxia a mantenere il primo posto nell’economia psicologica del film bensì, tipicamente, la personalità umana. Mentre continua la lotta contro il super-villain dai poteri magici interpretato da Tony Leung Ka-fai, si crea un triangolo fra l’eroe Guo Jing, la sua donna perduta e ritrovata Huang Rong e la vivacissima figlia guerriera di Genghis Khan, che è innamorata di Guo Jing. Su questa situazione, il film costruisce un intrico di equivoci e di necessaria finzione (“dissimulazione onesta”, avrebbe detto Torquato Accetto) in modo così intenso che palpitiamo per l’esistenza sentimentale dei personaggi prima ancora che per quella fisica.

Green Wave

Il film cinese Green Wave di Xu Lei parte dalla scoperta, durante la demolizione di una casa, di una ciotola che (forse) è antica, e in tal caso vale un mucchio di soldi. Un po’ esile (migliora nella seconda ora) ma piacevolissimo, il film incrocia due vite, i cui protagonisti sono padre e figlio; e insieme, con eguale ironia, incrocia due mondi, quello dell’arte e delle expertise e quello dei giovani cinefili, aspiranti sceneggiatori/registi.
Nel primo caso, vediamo una banda di truffatori di sottigliezza e accuratezza incredibile (tanto da travalicare la semplicità dell’assunto, è come prendere il transatlantico per andare da Trieste a Venezia, ma che importa? Quando il figlio, che ha capito il trucco, prende una stoviglia dall’acquaio, gliela porta e loro mettono in atto di nuovo tutta la manfrina degli esperti coltissimi, ci si rovescia dal ridere). Nel secondo caso vengono presi per il bavero sia il cinema cinese di blockbuster sia la fauna cinefila: da notare che il feroce critico online non è meno ridicolo del protagonista, quando quest’ultimo lo affronta per strada.
Il maggior pregio del film è la sincera simpatia che riesce a creare verso i suoi personaggi, molto umani. Per una volta non dipende solo dalla bravura degli attori perché se Xu Chaoying (il padre) è molto bravo, Wang Chuanjun (il figlio) lo è un po’ meno. Sobriamente delineati ma deliziosi i personaggi di contorno, come il fratello che accompagna il padre nella sua avventura. Nella seconda parte, poi, Green Wave acquista una maggiore profondità: la scena in cui padre e figlio sono coricati vicini in casa e il padre racconta dei suoi progetti per usare i milioni che guadagnerà (dal reperto) aiutando la famiglia… solo che tanto il figlio quanto noi spettatori già sappiamo che è una truffa… è la migliore del film e ha una delicata, malinconica autenticità vagamente čechoviana.

Deep in the Mountain

Li Yongyi è il montatore di alcuni recenti film di Yang Zhimou, tra i quali ricordo lo splendido Full River Red. Ha debuttato come regista con Deep in the Mountain, in cui, fedele al titolo, il poliziotto Yao (che deve riabilitarsi dopo un ridicolo errore) si inoltra in mezzo al nulla fra le montagne alla ricerca di una persona scomparsa, e finisce in qualcosa di molto simile a un alveare di vespe infuriate.
Deep in the Mountain è interessante e piacevole, ma sconcerta per una contraddizione importante, sia narrativa sia linguistica. Inizia (parlo di un buon pezzo, non della scena iniziale) come un thriller, e anche il linguaggio cinematografico è raffinato, procede per lampi, se non è anacronico ci va vicino. Poi il film, con l’arrivo del poliziotto in un villaggio di bifolchi dove si nasconde un astuto assassino, cambia radicalmente direzione e diventa una black comedy; e qui, pure il modo di raccontare diventa più tradizionale. Impossibile non sentire una specie di stridore; forse Li Yongyi e lo sceneggiatore Wang Zhongyan pensavano ai fratelli Coen, che mi sembrano il riferimento occidentale più vicino, ma a differenza per esempio di Fargo, si ha l’impressione che questa contraddizione non sia del tutto risolta sul piano artistico. Comunque sia, la stupidità di questi contadini ambiziosi, intenti a preparare in pompa magna l’arrivo di un pezzo grosso a livello locale, riceve un’illustrazione memorabile.
Tutti gli attori sono eccellenti. Qiao Shan (Yao, il poliziotto) è una meraviglia – mi fa pensare a un Silvio Orlando cinese (più giovane e più atletico). Wang Yanhui (l’assassino Ge) è pure bravissimo e molto inquietante nel suo atteggiamento di simpatia manipolatoria dietro la quale traspare sempre un senso di minaccia da far rizzare i capelli.

Her Story

Vibrante film femminista, mai didattico, di freschezza invidiabile, ricco di humour, il cinese Her Story di Shao Yihui tocca una quantità di temi (compresa l’omosessualità, per via di equivoco, su cui umoristicamente un inganno per fregare un dongiovanni), ma in primo luogo la rivendicazione della capacità della donna di agire e farsi avanti – che nel caso della bambina Moli può anche voler dire la libertà di rinunciare per ora a prendere una decisione sul futuro. Contestualmente ironizza sul pregiudizio maschile che si si aspetta che la donna sia perfetta in tutto quello che fa. Con un dialogo eccellente, sparato “a raffica” come nelle commedie screwball americane, è un film attraversato da un senso di libertà – sia come aspirazione sia come realizzazione concreta – che è raro trovare nel cinema cinese: con tanta convinzione almeno. Forse c’entra il fatto che si svolga a Shanghai invece che a Pechino, e l’atmosfera è diversa. Di certo, vi spira un vento leggero ma indiscutibile di fronda (vedi la figura del ragazzino “denunciatore” a scuola).
Il trio di interpreti femminili è ben delineato, e ottimo sul piano interpretativo: la giornalista Tiemei (Song Jia) che è anche troppo controllata, la cantante Ye (Elaine Zhong), sua vicina, che è l’esatto opposto – fra le due nasce un imprevedibile rapporto di “sorellanza” – e la piccola Moli (deliziosa l’attrice bambina Isabella Zeng) che si divide fra le due “mamme” cercando la propria strada. Fra le figure maschili di contorno, divertentissimo l’ex marito di Tiemei che dopo il divorzio è diventato “femminista” – nel senso che ripete a pappagallo sentenze orecchiate nei libri femministi che ha letto.

Like a Rolling Stone

L’aspetto decisamente positivo del film di Yin Lichuan è il ritratto della protagonista Li Hong, ben interpretata da Mei Yong, ispirata a una persona reale, Su Ming, che a cinquant’anni passati ha mollato il marito e gli obblighi familiari e ha cominciato a viaggiare da sola per la Cina, diventando famosa con i suoi post online. Li Hong è una donna che aveva ambizioni da ragazza (studentessa brillante, voleva andare al college) e ha dovuto rinunciare, prima per aiutare la famiglia – il padre, violando le promesse, le fa un ricatto morale – e poi per gli obblighi del matrimonio, poi quelli dell’allevare una bambina, poi di fare la nonna quando la figlia ha due gemelli. Da figlia, da sposa, poi madre, poi nonna, Hong non ha mai un momento per se stessa (questo è espresso sul piano spaziale nella scenografia, con lei che spignatta in una piccola cucina separata da un vetro). Il racconto è narrato in modo anacronico sull’arco di molti anni. Il concetto del peso di obblighi che schiaccia la donna cinese, tanto ieri quanto oggi, è ben reso, e la bella definizione della protagonista “lima” l’inevitabile aspetto didattico.
Il problema è che l’aspetto didattico uscito dalla porta delle interpretazioni femminili rientra dalla finestra con quella maschile: il marito appare come una figura eccessiva, non perché non sia autentico il primitivismo neanderthal del maschilismo cinese che incarna, ma sul piano artistico, per la ripetitività (non smette di rompere un minuto in tutto il film!) con cui il film lo trasforma in un rompipalle pazzoide.

My Friend An Delie

Li Mo (il regista Dong Zijian) sta andando in aereo al funerale di suo padre. Sull’aereo riconosce il suo amico An Delie (Liu Haoran) che non vedeva dai lontani tempi della scuola. An Delie però prima dice di non esserlo, poi dice che conosce Li Mo e non è lui. Tutto è molto ambiguo. Quando Li Mo è costretto ad affittare un’auto per continuare il viaggio, An Delie viaggia con lui, con aspetti sempre più misteriosi.
La storia interlinea questo bizzarro presente e il racconto in flashback dei tempi della scuola, con l’amicizia fra Li Mo e An Delie quand’erano ragazzini (Chi Xingkai e Han Haolin). In quel tempo, siccome An Delie ha come vero nome An Deshun, a tutti scoccia che voglia farsi chiamare An Delie, anche perché, dicono, è un nome straniero: è un po’ sconcertante ma la spiegazione è che An Delie è la pronuncia cinese di André. Viene spesso picchiato dal padre ed è un anticonformista totale, il che affascina Li Mo (questi vive da solo col padre perché la madre se n’è andata). C’è una pagina coraggiosamente polemica contro le istituzioni quando i voti vengono “aggiustati”, a danno di Li Mo, per far vincere una borsa di studio a un’altra allieva (evidentemente figlia di un pezzo grosso) e An Delie lo denuncia pubblicamente, pagandola cara.
Andando avanti nel film ci facciamo un’idea del concetto: il regista Dong Zijian (anche co-sceneggiatore da un romanzo di Shang Xuetao, nonché interprete) ha voluto in pratica incrociare una concezione alla David Lynch, o alla Kurosawa Kiyoshi, con il tradizionale realismo cinese. Forse il film, nella seconda parte, rende ciò un po’ troppo esplicito, mentre prima era un po’ troppo oscuro, e casca almeno in una ingenuità (un’allucinazione che picchia!), ma in compenso è una delle opere più intriganti del festival.

Upstream

Xu Zheng, regista e interprete di Upstream, è famoso per le sue commedie, ma ha anche interpretato ruoli drammatici, come in Dying to Survive (2018). Upstream è un film drammatico, anche se la carica comunicativa di Xu vi porta una certa leggerezza. Il “colletto bianco” Gao Zhilei viene inaspettatamente licenziato da un ruolo di dirigente. Cerca un nuovo lavoro ma nessuno assume un quarantenne, e lui nella disperazione deve riciclarsi come rider per le consegne a domicilio. Naturalmente all’inizio se la cava malissimo. La prima parte fa stupire che non sia stata proibita (chissà se non ci fosse una superstar come Xu Zheng...), perché dà della Cina “socialista” (per quanto sia un’etichetta vuota) una descrizione in termini di super-capitalismo infernale tale da andare oltre i sogni più estremi di Trump e Musk. Questo, sia nella descrizione delle grandi industrie sia nella descrizione dei rider, sottoposti a un sistema di iper-sfruttamento feroce con tempi cronometrati (per cui devono anche essere imprudenti nella guida se vogliono fare le consegne senza rimetterci).
La seconda parte descrive il passaggio di Gao Zhilei, come si suol dire, from zero to hero (campione e inventore di un’idea produttiva, con premio in denaro) negli stilemi del cinema sportivo, compresi i classici passaggi di montage celebrativo, fra cui quello finale in una discoteca – con lui tutto sanguinante per un incidente. Esiste indubbiamente una discrasia di tono tra le due parti, dalla disperazione all’ottimismo che elogia chi lavora duro (se volessi esagerare, giusto per farmi capire, direi che la prima parte sembra firmata da Preston Sturges e la seconda da Frank Capra); ma il film “tiene” – e siccome è impossibile non solidarizzare con questa banda di eroi sconosciuti, scalda il cuore una conclusione pur minimamente positiva.

Successor

Successor, di Peng Damo e Yan Fei, viene dal famoso gruppo Manhua Fun Age, compagnia comica di cinema e teatro di Pechino. In questa commedia tanto delirante quanto intelligente, un padre milionario (l’attore comico Shen Teng) non vuole che il secondo figlio Jiye cresca guastato dalla ricchezza come suo fratello, che se n’è andato di casa. Così finge di essere poverissimo e di abitare in una casa miserabile con la moglie, il bambino e una (finta) nonna paralitica. Aiutandosi su un apparato supertecnologico alla James Bond, del quale fanno parte tutti i falsi vicini, alleva il figlio nella povertà in modo che impari tutte le virtù confuciane. Bellissimo – ma funziona finché Jiye è un ragazzino (deliziosa la sua bontà, diremmo qui, “deamicisiana”). Quando diventa un giovanotto, è ancora un ragazzo d’oro, ma comincia a dubitare della realtà…
Successor è una commedia gustosissima, con dei momenti assolutamente farseschi (il finto funerale!), ma va al di là di una “cosa da ridere”. Affronta con intelligenza quella specie di “coscienza infelice”, propria della Cina ma nelle sue forme di tutti i paesi ex poveri, che è la consapevolezza della discrasia fra la nuova ricchezza materiale e le vecchie virtù, lodate dai conservatori ma difficili da vivere. Soprattutto, però, Successor è una sorta di The Truman Show cinese. Il protagonista Jiye quando è cresciuto è troppo intelligente per non avere degli ovvii sospetti, ma non sa comprendere cosa succede, e nessuno ci riuscirebbe. Il film, esattamente come The Truman Show, diventa un esercizio di “paranoia giustificata”. Sublime la scena in cui Jiye, a scuola, scandalizza l’insegnante mettendo in questione il materialismo marxista obbligatorio nel regime e sostenendo che in realtà la nostra vita è determinata da forze misteriose.
E così, di nuovo come The Truman Show, Successor diventa un’ironica riflessione filosofica (e implicitamente politica) – e chiama in causa in una conclusione dolceamara anche l’aspetto morale.

Decoded

Più interessante sulla carta che nella realizzazione, il pomposo Decoded è un film di Chen Sicheng sulla lotta ventennale fra due geniali esperti di cifrari e decrittazione, uno cinese e uno americano, Jingzhen e Lisiewicz, che erano stati amici in gioventù in Cina. La lunga durata del plot dà l’occasione di tratteggiare (da un punto di vista rigorosamente patriottico e di regime) una storia della Cina fra i Quaranta e i Sessanta. Nella parte finale, mentre i buoni costruiscono la bomba atomica, i nemici americani e taiwanesi si adoperano per impedirlo.
Il film si avvale di una bella fotografia di Cao Yu, che è molto bilanciata, con una predisposizione per la centratura: utile per introdurre un elemento di sotterranea inquietudine che entra bene in un film che si sofferma molto sul sogno. Infatti per Jingzhen, affascinato all’interpretazione dei sogni fin dall’inizio, il sogno è un territorio popolato di simboli in cui la mente risolve i problemi insoluti durante la veglia.
Purtroppo non basta saccheggiare David Lynch e Christopher Nolan per rendersi interessanti; inoltre il film contiene grossolanità di racconto (l’episodio del quaderno smarrito) e ridicolaggini di messa in scena (la cella stile Abate Faria del Conte di Montecristo in cui i suoi dirigenti americani rinchiudono Lisiewicz per punizione) che, unite a una lunghezza eccessiva, rendono faticosa la visione.

Silent City Driver

Gli spettatori del Far East Film ricorderanno il film della Mongolia The Sales Girl di Sengedorj Janchivdorj. Lo stesso regista firma Silent City Driver, che è, a parere di chi scrive, più bello di The Sales Girl, ma anche molto diverso (ho anche avuto difficoltà a vedere una continuità stilistica fra i due; poi però compaiono dei motivi comuni, come il viaggio nella steppa). È più intellettuale, per così dire, quasi d’avanguardia, e molto elegante, a tratti maestoso.
Il racconto del film fraziona l’esperienza di vita del protagonista in una serie di “momenti significanti”, con un effetto a mosaico. Il giovane, semi-ritardato dopo un inumano trattamento in carcere, lavora come autista di carro funebre in una specie di azienda tutto-per-la-morte”, che va dai funerali alla fabbricazione delle bare al lavoro di scalpellino per le lapidi. A un certo punto il protagonista si imbatte in un mistero: una ragazza che esce di nascosto da casa sua di notte. In breve, vediamo che è ricattata dal padrone di un hotel a causa di certe foto erotiche. Nel rapporto fra i due e nella rabbia di lui sembra di avvertire una vaghissima reminiscenza di Taxi Driver, ma tutto si svolge in un contesto buddhista (gustosa una spiritosa figura di giovane bonzo tifoso di calcio e non alieno dalla carne): tema ultimo di questo film complesso ma ricco di fascino è l’espiazione.

About Family

Nella spiritosa commedia coreana About Family di Yang Woo-seok il ricco e avaro ristoratore Mu-ok, il re dei ravioli, è disperato perché è vedovo e non ha un erede. Poiché segue la religione tradizionale coreana, si vergogna come un ladro quando deve fare rapporto agli antenati durante i riti. Non può contare sul suo unico figlio, Mun-seok, che ha abbandonato la famiglia ed è diventato monaco buddhista, per di più di grande successo come predicatore (ha pure scritto un bestseller, Da Ippocrate a Buddha, e pagherei qualcosa per leggerlo). Ma ecco che si presentano da Mu-ok due bambini – i cui genitori adottivi sono morti in un incidente – che dichiarano di essere figli di Mun-seok. “Antenati!!!”, strilla felice Mu-ok per avvertirli della scoperta.
Di qui prosegue con varie complicazioni (dalla religione agli scherzi sull’avarizia di mu-ok, più l’inevitabile, ma controllato, côté patetico) un’agile commedia feel-good, fondata sul dialogo e sulla reazione psicologica al dialogo, un “botta e risposta” supportato da ottimi attori. Il ritmo naturalmente è molto vivace (è interessante che il regista sia l’autore di un dramma politico come The Attorney e di due durissimi thriller di avventura come i due Steel Rain). Questo film ha una esuberante cordialità di messa in scena e di svolgimento, da cui il cinema italiano di oggi potrebbe ben imparare qualcosa.

Dark Nuns

Il coreano Dark Nuns di Kwon Hyuk-jae è una via di mezzo tra un sequel e uno spinoff di The Priests di Jang Jae-hyun, visto al FEFF nel 2016, e si svolge nello stesso universo fantastico, basato – da buon film di esorcisti – su una teologia para-cattolica, con i Rosacroce autorizzati dal Vaticano in lotta contro le demoniache “12 Manifestazioni”. Alla fine ricompare in un cameo Kang Dong-won, il Padre Choi del primo film. Tuttavia Dark Nuns è meno apocalittico come trama del suo predecessore, che minacciava la fine del mondo.
Qui di tratta di salvare un ragazzo posseduto (Woo-jin è efficace nel ruolo). Il problema è che il sacerdote a capo dell’ospedale che ne ha cura, Padre Paolo, è uno di quei preti “moderni”, un positivista-progressista, per il quale la possessione demoniaca è superstizione e la psichiatria è la soluzione. S’intende che per lui una suora esorcista (una suora!) come suor Yunia è abominio.
Yunia, che è stata formata come esorcista dal Padre Kim di The Priests, trova un’alleata indispensabile in suor Michaela, formata dal prete psichiatra, e quindi scettica e ostile – ma che poi si lascia convincere. La differenza totale di carattere e abitudini fra le due è molto divertente; Song Hye-kyo e Jeon Yeo-been sono molto brave rispettivamente come Yunia e Michaela.
È interessante la presenza nella trama del fatto che per la Chiesa cattolica le donne non possono esorcizzare; inoltre, viene ripresa e ampliata l’idea, già presente in The Priests, di un’alleanza fra il cattolicesimo e lo sciamanesimo coreano contro le forze oscure. Ma in primo luogo Dark Nuns va visto come un horror estremamente piacevole. Non ci sono l’estremismo fanatico né le bizzarrie surreali di Jang Jae-hyun in The Priests, ma Kwon Hyeok-jae porta nel suo film una mano molto sicura che realizza un’opera tesa e concentrata.
I vari film di esorcisti hanno il problema che: a) la trama è tutta costruita per arrivare alla scena madre dell’esorcismo; b) quando ci si arriva si vede in genere una scena “friedkiniana” già passata sullo schermo molte volte. Dark Nuns sfugge con molta abilità a questa trappola, prima dando molto spazio ai rapporti interpersonali (non che per questo manchino le scene horror!) e poi realizzando la lunghissima scena dell’esorcismo risolutivo con una vivezza e convinzione che la fanno spiccare nel genere.

The Square

In uno dei regimi più chiusi e inumani del mondo, la Corea del Nord, un diplomatico dell’ambasciata svedese, pedinato e spiato come tutti, ha una storia d’amore con una agente del traffico di Pyongyang. Sarebbe una storia appassionante e improbabile comunque, ma ciò che rende unico The Square, primo lungometraggio di Kim Bo-sol, è che si tratta di un’animazione. Le figure, realistiche, rientrano nel canone del cartoon occidentale contemporaneo, ma i movimenti della bocca sono tipico manga.
Un breve episodio laterale rende bene l’idea del mondo in cui Isak si muove. Per strada l’uomo vede una bambina, in braccio alla madre, incuriosita e un po’ spaventata da questo viso occidentale e diverso. Lui le sorride, dice qualcosa e la bambina diventa amichevole. Dopo che lui è andato via, un poliziotto si avvicina alla madre e la rimprovera: “Non dovresti parlare con uno straniero”.
Ricorda Orwell, e va oltre, la descrizione degli accorgimenti che Isak Borg (biondo scandinavo ma coreano da parte della nonna) e Bok-joo devono prendere per rubare pochi attimi per la loro relazione necessariamente platonica – come mangiare vicini al ristorante ma in tavole separate senza guardarsi. Il loro amore è possibile perché l’interprete di Isak, Myung-jun, è una persona fondamentalmente onesta e pur essendo stato messo al suo posto dalla Gestapo del regime finge di non accorgersi e non li denuncia.
È una storia, raccontata abilmente, che si svolge per intero sotto il segno di una tormentosa impossibilità. In effetti si ha l’impressione che Isak non si renda conto a sufficienza del pericolo cui espone la donna che ama; ma questo dà al racconto la sua aria di disperato romanticismo. C’è una suspense rispetto ai personaggi, ci preoccupiamo per loro, ciò che è la dimostrazione della capacità del film di scavarci dentro.
Il film ovviamente non può avere un lieto fine – ma ha una conclusione che, sebbene amara, almeno non ha le caratteristiche sanguinose che una storia del genere avrebbe nella realtà.

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