Con
queste note concludo la serie di brevi recensioni dei film del Far
East Film Festival 2025 (va da sé che non li ho visti tutti). Nota:
alcune recensioni sono già state pubblicate in forma breve sul
quotidiano Messaggero Veneto.
Tsui
Hark
Il
maestro Tsui Hark, grande regista e produttore, il cui cinema si
situa fra Hong Kong, Taiwan e la Cina continentale (ma anche con una
puntata nel cinema hollywoodiano) in un ricchissimo territorio di
fantasy, wuxiapian, arti marziali e avventura, ha ricevuto il Gelso
d’Oro alla carriera 2025, consegnato in una bellissima cerimonia da
un altro grande, Tony Leung Ka-fai. Il FEFF ha reso omaggio a Tsui
Hark con la presentazione di tre suoi film, fra cui l’ultimo,
Legends of the Condor Heroes: The Gallants.
Shanghai
Blues (Hong Kong 1984), presentato in un restauro in cui il regista
ha cambiato qualcosa, è un superbo mélange di velocità, ritmo,
umorismo e commozione all’interno di una descrizione calda e
appassionata della Shanghai povera del dopoguerra, subito prima che
la città cadesse nelle mani dei comunisti (ha un valore simbolico
quel treno che parte nel finale verso Hong Kong). Equivoci, scambi di
persone, gag, una ronde di una serie di quadri collegati da una
presenza continua della musica (anche il dénouement si svolge al
ritmo della canzone eponima, Shanghai Blues). Un ottimismo di fondo
sul fuggire e una nota amara sul restare, nel finale. Un capolavoro.
(Nota
in margine: quando uscirà il DVD, mi auguro che contenga ambedue le
versioni, quella originaria del 1984 e questa).
Nell’ambito
della rassegna, che sono stato felice di curare, sulle creature del
folklore asiatico nel cinema è inserito Green Snake (Hong Kong
1993), in cui il regista riprende la vecchia leggenda giapponese di
Serpente Bianco e Serpente Verde, due spiriti-serpente sorelle
travestite da umani per vivere nel nostro mondo. Fiabesco e
fascinoso, certo; ma soprattutto, Tsui Hark – che non dimentica mai
nel suo cinema la personalità dei suoi personaggi in favore del
racconto – amplia la leggenda allargando il gioco psicologico fra
le due sorelle, la maggiore e la minore: Serpente Verde (personaggio
assai minore nella leggenda e qui co-protagonista, interpretato da
Maggie Cheung) è più giovane di Serpente Bianco, ha solo 500 anni,
ed è piena di impetuosità e inesperienza giovanile (con gag di
trasformazione incompleta), ma vuole anche lei, come la sorella
maggiore, provare l’amore di un mortale.
Il
wuxiapian Legends of the Condor Heroes: The Gallants (Cina 2025)
ritagliando la sua storia da una parte del romanzo-fiume di Jin Yong,
maestro riconosciuto del wuxia letterario con le sue opere scritte
fra il 1955 e il 1972. Nel lavoro di taglia e cuci di Tsui Hark, che
usa in modo molto autonomo (e non è la prima volta) l’opera di Jin
Yong, un punto però rimane come stella polare: il concetto di
righteousness (rettitudine), centrale nella cultura cinese classica,
che si riflette in questi “cavalieri antiqui”. Tsui Hark crea un
filmone rutilante di grande spettacolo, un’orgia visuale e
narrativa piena di movimento e di colore. È
un maestro del combattimento e i suoi “voli” nell’aria sono
probabilmente i più belli dopo quelli di King Hu. Eppure, non è la
tensione del combattimento wuxia
a mantenere il primo posto
nell’economia psicologica del film bensì, tipicamente, la
personalità umana. Mentre
continua la lotta contro il super-villain dai poteri magici
interpretato da Tony Leung Ka-fai, si
crea un
triangolo fra l’eroe Guo
Jing,
la sua donna perduta e ritrovata Huang
Rong
e la vivacissima figlia
guerriera di
Genghis
Khan,
che è innamorata
di Guo
Jing.
Su questa
situazione, il film
costruisce un intrico di equivoci e di necessaria finzione
(“dissimulazione onesta”, avrebbe detto Torquato
Accetto)
in modo così
intenso che palpitiamo per l’esistenza sentimentale dei personaggi
prima ancora che per quella fisica.
Green Wave
Il
film cinese Green Wave di Xu Lei parte dalla scoperta, durante la
demolizione di una casa, di una ciotola che (forse) è antica, e in
tal caso vale un mucchio di soldi. Un po’ esile (migliora nella
seconda ora) ma piacevolissimo, il film incrocia due vite, i cui
protagonisti sono padre e figlio; e insieme, con eguale ironia,
incrocia due mondi, quello dell’arte e delle expertise e quello dei
giovani cinefili, aspiranti sceneggiatori/registi.
Nel
primo caso, vediamo una banda di truffatori di sottigliezza e
accuratezza incredibile (tanto da travalicare la semplicità
dell’assunto, è come prendere il transatlantico per andare da
Trieste a Venezia, ma che importa? Quando il figlio, che ha capito il
trucco, prende una stoviglia dall’acquaio, gliela porta e loro
mettono in atto di nuovo tutta la manfrina degli esperti coltissimi,
ci si rovescia dal ridere). Nel secondo caso vengono presi per il
bavero sia il cinema cinese di blockbuster sia la fauna cinefila: da
notare che il feroce critico online non è meno ridicolo del
protagonista, quando quest’ultimo lo affronta per strada.
Il
maggior pregio del film è la sincera simpatia che riesce a creare
verso i suoi personaggi, molto umani. Per una volta non dipende solo
dalla bravura degli attori perché se Xu Chaoying (il padre) è molto
bravo, Wang Chuanjun (il figlio) lo è un po’ meno. Sobriamente
delineati ma deliziosi i personaggi di contorno, come il fratello che
accompagna il padre nella sua avventura. Nella seconda parte, poi,
Green Wave acquista una maggiore profondità: la scena in cui padre e
figlio sono coricati vicini in casa e il padre racconta dei suoi
progetti per usare i milioni che guadagnerà (dal reperto) aiutando
la famiglia… solo che tanto il figlio quanto noi spettatori già
sappiamo che è una truffa… è la migliore del film e ha una
delicata, malinconica autenticità vagamente čechoviana.
Deep
in the Mountain
Li
Yongyi è il montatore di alcuni recenti film di Yang Zhimou, tra i
quali ricordo lo splendido Full River Red. Ha debuttato come regista
con Deep in the Mountain, in cui, fedele al titolo, il poliziotto Yao
(che deve riabilitarsi dopo un ridicolo errore) si inoltra in mezzo
al nulla fra le montagne alla ricerca di una persona scomparsa, e
finisce in qualcosa di molto simile a un alveare di vespe infuriate.
Deep
in the Mountain è interessante e piacevole, ma sconcerta per una
contraddizione importante, sia narrativa sia linguistica. Inizia
(parlo di un buon pezzo, non della scena iniziale) come un thriller,
e anche il linguaggio cinematografico è raffinato, procede per
lampi, se non è anacronico ci va vicino. Poi il film, con l’arrivo
del poliziotto in un villaggio di bifolchi dove si nasconde un astuto
assassino, cambia radicalmente direzione e diventa una black comedy;
e qui, pure il modo di raccontare diventa più tradizionale.
Impossibile non sentire una specie di stridore; forse Li Yongyi e lo
sceneggiatore Wang Zhongyan pensavano ai fratelli Coen, che mi
sembrano il riferimento occidentale più vicino, ma a differenza per
esempio di Fargo, si ha l’impressione che questa contraddizione non
sia del tutto risolta sul piano artistico. Comunque sia, la stupidità
di questi contadini ambiziosi, intenti a preparare in pompa magna
l’arrivo di un pezzo grosso a livello locale, riceve
un’illustrazione memorabile.
Tutti
gli attori sono eccellenti. Qiao Shan (Yao, il poliziotto) è una
meraviglia – mi fa pensare a un Silvio Orlando cinese (più giovane
e più atletico). Wang Yanhui (l’assassino Ge) è pure bravissimo e
molto inquietante nel suo atteggiamento di simpatia manipolatoria
dietro la quale traspare sempre un senso di minaccia da far rizzare i
capelli.
Her
Story
Vibrante
film femminista, mai didattico, di freschezza invidiabile, ricco di
humour, il cinese Her Story di Shao Yihui tocca una quantità di temi
(compresa l’omosessualità, per via di equivoco, su cui
umoristicamente un inganno per fregare un dongiovanni), ma in primo
luogo la rivendicazione della capacità della donna di agire e farsi
avanti – che nel caso della bambina Moli può anche voler dire la
libertà di rinunciare per ora a prendere una decisione sul futuro.
Contestualmente ironizza sul pregiudizio maschile che si si aspetta
che la donna sia perfetta in tutto quello che fa. Con un dialogo
eccellente, sparato “a raffica” come nelle commedie screwball
americane, è un film attraversato da un senso di libertà – sia
come aspirazione sia come realizzazione concreta – che è raro
trovare nel cinema cinese: con tanta convinzione almeno. Forse
c’entra il fatto che si svolga a Shanghai invece che a Pechino, e
l’atmosfera è diversa. Di certo, vi spira un vento leggero ma
indiscutibile di fronda (vedi la figura del ragazzino “denunciatore”
a scuola).
Il
trio di interpreti femminili è ben delineato, e ottimo sul piano
interpretativo: la giornalista Tiemei (Song Jia) che è anche troppo
controllata, la cantante Ye (Elaine Zhong), sua vicina, che è
l’esatto opposto – fra le due nasce un imprevedibile rapporto di
“sorellanza” – e la piccola Moli (deliziosa l’attrice bambina
Isabella Zeng) che si divide fra le due “mamme” cercando la
propria strada. Fra le figure maschili di contorno, divertentissimo
l’ex marito di Tiemei che dopo il divorzio è diventato
“femminista” – nel senso che ripete a pappagallo sentenze
orecchiate nei libri femministi che ha letto.
Like
a Rolling Stone
L’aspetto
decisamente positivo del film di Yin Lichuan è il ritratto della
protagonista Li Hong, ben interpretata da Mei Yong, ispirata a una
persona reale, Su Ming, che a cinquant’anni passati ha mollato il
marito e gli obblighi familiari e ha cominciato a viaggiare da sola
per la Cina, diventando famosa con i suoi post online. Li Hong è una
donna che aveva ambizioni da ragazza (studentessa brillante, voleva
andare al college) e ha dovuto rinunciare, prima per aiutare la
famiglia – il padre, violando le promesse, le fa un ricatto morale
– e poi per gli obblighi del matrimonio, poi quelli dell’allevare
una bambina, poi di fare la nonna quando la figlia ha due gemelli. Da
figlia, da sposa, poi madre, poi nonna, Hong non ha mai un momento
per se stessa (questo è espresso sul piano spaziale nella
scenografia, con lei che spignatta in una piccola cucina separata da
un vetro). Il racconto è narrato in modo anacronico sull’arco di
molti anni. Il concetto del peso di obblighi che schiaccia la donna
cinese, tanto ieri quanto oggi, è ben reso, e la bella definizione
della protagonista “lima” l’inevitabile aspetto didattico.
Il
problema è che l’aspetto didattico uscito dalla porta delle
interpretazioni femminili rientra dalla finestra con quella maschile:
il marito appare come una figura eccessiva, non perché non sia
autentico il primitivismo neanderthal del maschilismo cinese che
incarna, ma sul piano artistico, per la ripetitività (non smette di
rompere un minuto in tutto il film!) con cui il film lo trasforma in
un rompipalle pazzoide.
My
Friend An Delie
Li
Mo (il regista Dong Zijian) sta andando in aereo al funerale di suo
padre. Sull’aereo riconosce il suo amico An Delie (Liu Haoran) che
non vedeva dai lontani tempi della scuola. An Delie però prima dice
di non esserlo, poi dice che conosce Li Mo e non è lui. Tutto è
molto ambiguo. Quando Li Mo è costretto ad affittare un’auto per
continuare il viaggio, An Delie viaggia con lui, con aspetti sempre
più misteriosi.
La
storia interlinea questo bizzarro presente e il racconto in flashback
dei tempi della scuola, con l’amicizia fra Li Mo e An Delie
quand’erano ragazzini (Chi Xingkai e Han Haolin). In quel tempo,
siccome An Delie ha come vero nome An Deshun, a tutti scoccia che
voglia farsi chiamare An Delie, anche perché, dicono, è un nome
straniero: è un po’ sconcertante ma la spiegazione è che An Delie
è la pronuncia cinese di André. Viene spesso picchiato dal padre ed
è un anticonformista totale, il che affascina Li Mo (questi vive da
solo col padre perché la madre se n’è andata). C’è una pagina
coraggiosamente polemica contro le istituzioni quando i voti vengono
“aggiustati”, a danno di Li Mo, per far vincere una borsa di
studio a un’altra allieva (evidentemente figlia di un pezzo grosso)
e An Delie lo denuncia pubblicamente, pagandola cara.
Andando
avanti nel film ci facciamo un’idea del concetto: il regista Dong
Zijian (anche co-sceneggiatore da un romanzo di Shang Xuetao, nonché
interprete) ha voluto in pratica incrociare una concezione alla David
Lynch, o alla Kurosawa Kiyoshi, con il tradizionale realismo cinese.
Forse il film, nella seconda parte, rende ciò un po’ troppo
esplicito, mentre prima era un po’ troppo oscuro, e casca almeno in
una ingenuità (un’allucinazione che picchia!), ma in compenso è
una delle opere più intriganti del festival.
Upstream
Xu
Zheng, regista e interprete di Upstream, è famoso per le sue
commedie, ma ha anche interpretato ruoli drammatici, come in Dying to
Survive (2018). Upstream è un film drammatico, anche se la carica
comunicativa di Xu vi porta una certa leggerezza. Il “colletto
bianco” Gao Zhilei viene inaspettatamente licenziato da un ruolo di
dirigente. Cerca un nuovo lavoro ma nessuno assume un quarantenne, e
lui nella disperazione deve riciclarsi come rider per le consegne a
domicilio. Naturalmente all’inizio se la cava malissimo. La prima
parte fa stupire che non sia stata proibita (chissà se non ci fosse
una superstar come Xu Zheng...), perché dà della Cina “socialista”
(per quanto sia un’etichetta vuota) una descrizione in termini di
super-capitalismo infernale tale da andare oltre i sogni più estremi
di Trump e Musk. Questo, sia nella descrizione delle grandi industrie
sia nella descrizione dei rider, sottoposti a un sistema di
iper-sfruttamento feroce con tempi cronometrati (per cui devono anche
essere imprudenti nella guida se vogliono fare le consegne senza
rimetterci).
La
seconda parte descrive il passaggio di Gao Zhilei, come si suol dire,
from zero to hero (campione e inventore di un’idea produttiva, con
premio in denaro) negli stilemi del cinema sportivo, compresi i
classici passaggi di montage celebrativo, fra cui quello finale in
una discoteca – con lui tutto sanguinante per un incidente. Esiste
indubbiamente una discrasia di tono tra le due parti, dalla
disperazione all’ottimismo che elogia chi lavora duro (se volessi
esagerare, giusto per farmi capire, direi che la prima parte sembra
firmata da Preston Sturges e la seconda da Frank Capra); ma il film
“tiene” – e siccome è impossibile non solidarizzare con questa
banda di eroi sconosciuti, scalda il cuore una conclusione pur
minimamente positiva.
Successor
Successor,
di Peng Damo e Yan Fei, viene dal famoso gruppo Manhua Fun Age,
compagnia comica di cinema e teatro di Pechino. In questa commedia
tanto delirante quanto intelligente, un padre milionario (l’attore
comico Shen Teng) non vuole che il secondo figlio Jiye cresca
guastato dalla ricchezza come suo fratello, che se n’è andato di
casa. Così finge di essere poverissimo e di abitare in una casa
miserabile con la moglie, il bambino e una (finta) nonna paralitica.
Aiutandosi su un apparato supertecnologico alla James Bond, del quale
fanno parte tutti i falsi vicini, alleva il figlio nella povertà in
modo che impari tutte le virtù confuciane. Bellissimo – ma
funziona finché Jiye è un ragazzino (deliziosa la sua bontà,
diremmo qui, “deamicisiana”). Quando diventa un giovanotto, è
ancora un ragazzo d’oro, ma comincia a dubitare della realtà…
Successor
è una commedia gustosissima, con dei momenti assolutamente farseschi
(il finto funerale!), ma va al di là di una “cosa da ridere”.
Affronta con intelligenza quella specie di “coscienza infelice”,
propria della Cina ma nelle sue forme di tutti i paesi ex poveri, che
è la consapevolezza della discrasia fra la nuova ricchezza materiale
e le vecchie virtù, lodate dai conservatori ma difficili da vivere.
Soprattutto, però,
Successor è una sorta di The Truman Show cinese. Il protagonista
Jiye quando è cresciuto è troppo intelligente per non avere degli
ovvii sospetti, ma non sa comprendere cosa succede, e nessuno ci
riuscirebbe. Il film, esattamente come The Truman Show, diventa un
esercizio di “paranoia giustificata”. Sublime la scena in cui
Jiye, a scuola, scandalizza l’insegnante mettendo in questione il
materialismo marxista obbligatorio nel regime e sostenendo che in
realtà la nostra vita è determinata da forze misteriose.
E
così, di nuovo come The Truman Show, Successor diventa un’ironica
riflessione filosofica (e implicitamente politica) – e chiama in
causa in una conclusione dolceamara anche l’aspetto morale.
Decoded
Più
interessante sulla carta che nella realizzazione, il
pomposo
Decoded è un film
di Chen Sicheng sulla lotta ventennale fra due geniali esperti di
cifrari e decrittazione, uno cinese e uno americano, Jingzhen e
Lisiewicz, che erano stati amici in gioventù in Cina. La lunga
durata del plot dà l’occasione di tratteggiare (da un punto di
vista rigorosamente patriottico e di regime) una storia della Cina
fra i Quaranta e i Sessanta. Nella parte finale, mentre i buoni
costruiscono la bomba atomica, i nemici americani e taiwanesi si
adoperano per impedirlo.
Il
film si avvale di una bella fotografia di Cao Yu, che è molto
bilanciata, con una predisposizione per la centratura: utile per
introdurre un elemento di sotterranea inquietudine che entra bene in
un film che si sofferma molto sul sogno. Infatti per Jingzhen,
affascinato all’interpretazione dei sogni fin dall’inizio, il
sogno è un territorio popolato di simboli in cui la mente risolve i
problemi insoluti durante la veglia.
Purtroppo
non basta saccheggiare David Lynch e Christopher Nolan per rendersi
interessanti; inoltre il film contiene grossolanità di racconto
(l’episodio del quaderno smarrito) e ridicolaggini di messa in
scena (la cella stile Abate Faria del Conte di Montecristo in cui i
suoi dirigenti americani rinchiudono Lisiewicz per punizione) che,
unite a una lunghezza eccessiva, rendono faticosa la visione.
Silent
City Driver
Gli
spettatori del Far East Film ricorderanno il film della Mongolia The
Sales Girl di Sengedorj
Janchivdorj. Lo
stesso regista firma
Silent City Driver, che è, a parere di chi scrive, più bello di The
Sales Girl,
ma
anche molto diverso (ho
anche avuto difficoltà a vedere una continuità
stilistica fra i due; poi però compaiono dei motivi comuni, come il
viaggio nella steppa). È
più intellettuale, per così dire, quasi
d’avanguardia, e molto
elegante, a
tratti maestoso.
Il
racconto del film fraziona l’esperienza di vita del
protagonista in
una serie di “momenti significanti”, con un effetto a mosaico. Il
giovane,
semi-ritardato
dopo
un inumano trattamento
in carcere, lavora
come autista di carro funebre in una specie di azienda
“tutto-per-la-morte”,
che
va dai
funerali alla fabbricazione delle bare al lavoro di scalpellino per
le lapidi. A un certo punto il protagonista si imbatte in un mistero:
una ragazza che esce di nascosto da casa sua
di
notte. In breve, vediamo che
è ricattata dal padrone di un hotel a
causa di certe foto
erotiche. Nel rapporto fra i due e nella rabbia di lui sembra di
avvertire una vaghissima reminiscenza di Taxi Driver, ma tutto
si svolge in
un
contesto buddhista
(gustosa
una
spiritosa figura di giovane bonzo tifoso di calcio e
non
alieno dalla carne):
tema ultimo
di
questo film complesso ma ricco di fascino
è l’espiazione.
About
Family
Nella
spiritosa commedia coreana About Family di Yang Woo-seok il ricco e
avaro ristoratore Mu-ok, il re dei ravioli, è disperato perché è
vedovo e non ha un erede. Poiché segue la religione tradizionale
coreana, si vergogna come un ladro quando deve fare rapporto agli
antenati durante i riti. Non può contare sul suo unico figlio,
Mun-seok, che ha abbandonato la famiglia ed è diventato monaco
buddhista, per di più di grande successo come predicatore (ha pure
scritto un bestseller, Da Ippocrate a Buddha, e pagherei qualcosa per
leggerlo). Ma ecco che si presentano da Mu-ok due bambini – i cui
genitori adottivi sono morti in un incidente – che dichiarano di
essere figli di Mun-seok. “Antenati!!!”, strilla felice Mu-ok per
avvertirli della scoperta.
Di
qui prosegue con varie complicazioni (dalla religione agli scherzi
sull’avarizia di mu-ok, più l’inevitabile, ma controllato, côté
patetico) un’agile commedia feel-good, fondata sul dialogo e sulla
reazione psicologica al dialogo, un “botta e risposta” supportato
da ottimi attori. Il ritmo naturalmente è molto vivace (è
interessante che il regista sia l’autore di un dramma politico come
The Attorney e di due durissimi thriller di avventura come i due
Steel Rain). Questo film ha una esuberante cordialità di messa in
scena e di svolgimento, da cui il cinema italiano di oggi potrebbe
ben imparare qualcosa.
Dark Nuns
Il
coreano Dark Nuns di Kwon
Hyuk-jae
è una via di mezzo tra un sequel e uno
spinoff di The Priests di
Jang Jae-hyun, visto
al FEFF nel 2016, e
si svolge nello stesso universo fantastico, basato
– da buon film di esorcisti – su una
teologia para-cattolica, con i Rosacroce autorizzati
dal Vaticano in lotta contro
le demoniache “12
Manifestazioni”. Alla fine ricompare in un cameo Kang Dong-won, il
Padre Choi del primo film. Tuttavia
Dark Nuns è
meno apocalittico come trama
del suo predecessore, che
minacciava la fine del mondo.
Qui
di tratta di salvare un ragazzo posseduto (Woo-jin è efficace nel
ruolo). Il problema è che il sacerdote a capo dell’ospedale che ne
ha cura, Padre Paolo, è uno di quei preti “moderni”, un
positivista-progressista, per il quale la possessione demoniaca è
superstizione e la psichiatria è la soluzione. S’intende che per
lui una suora esorcista (una suora!) come suor Yunia è abominio.
Yunia,
che è stata formata come esorcista
dal Padre
Kim di The Priests, trova
un’alleata indispensabile in suor Michaela, formata
dal prete psichiatra, e
quindi scettica e ostile –
ma che poi
si lascia convincere. La
differenza totale di carattere e abitudini fra le due è molto
divertente; Song Hye-kyo e
Jeon Yeo-been sono molto brave rispettivamente come Yunia
e Michaela.
È
interessante la presenza nella trama del fatto che
per la Chiesa cattolica le
donne non possono
esorcizzare; inoltre, viene
ripresa e ampliata l’idea, già
presente in The
Priests, di un’alleanza fra
il cattolicesimo e lo sciamanesimo coreano contro le forze oscure. Ma
in primo luogo
Dark Nuns va visto come un horror estremamente piacevole. Non ci
sono l’estremismo fanatico
né le bizzarrie surreali di Jang Jae-hyun in
The Priests, ma Kwon
Hyeok-jae porta nel
suo film
una mano molto sicura che realizza un’opera tesa e concentrata.
I
vari film di esorcisti hanno il problema che: a) la trama è tutta
costruita per arrivare alla
scena madre dell’esorcismo; b) quando ci si arriva si vede in
genere una scena “friedkiniana”
già passata
sullo schermo molte volte.
Dark Nuns sfugge con molta
abilità a
questa trappola, prima dando molto spazio ai rapporti interpersonali
(non
che per questo manchino le scene horror!) e poi realizzando la
lunghissima scena dell’esorcismo risolutivo
con una vivezza e convinzione che la fanno spiccare nel
genere.
The
Square
In
uno dei regimi più chiusi e inumani del mondo, la Corea del Nord, un
diplomatico dell’ambasciata svedese, pedinato e spiato come tutti,
ha una storia d’amore con una agente del traffico di Pyongyang.
Sarebbe una storia appassionante e improbabile comunque, ma ciò che
rende unico The Square, primo lungometraggio di Kim Bo-sol, è che si
tratta di un’animazione. Le figure, realistiche, rientrano nel
canone del cartoon occidentale contemporaneo, ma i movimenti della
bocca sono tipico manga.
Un
breve episodio laterale rende bene l’idea del mondo in cui Isak si
muove. Per strada l’uomo vede una bambina, in braccio alla madre,
incuriosita e un po’ spaventata da questo viso occidentale e
diverso. Lui le sorride, dice qualcosa e la bambina diventa
amichevole. Dopo che lui è andato via, un poliziotto si avvicina
alla madre e la rimprovera: “Non dovresti parlare con uno
straniero”.
Ricorda
Orwell, e va oltre, la descrizione degli accorgimenti che Isak Borg
(biondo scandinavo ma coreano da parte della nonna) e Bok-joo devono
prendere per rubare pochi attimi per la loro relazione
necessariamente platonica – come mangiare vicini al ristorante ma
in tavole separate senza guardarsi. Il loro amore è possibile perché
l’interprete di Isak, Myung-jun, è una persona fondamentalmente
onesta e pur essendo stato messo al suo posto dalla Gestapo del
regime finge di non accorgersi e non li denuncia.
È
una storia, raccontata abilmente, che si svolge per intero sotto il
segno di una tormentosa impossibilità. In effetti si ha
l’impressione che Isak non si renda conto a sufficienza del
pericolo cui espone la donna che ama; ma questo dà al racconto la
sua aria di disperato romanticismo. C’è una suspense rispetto ai
personaggi, ci preoccupiamo per loro, ciò che è la dimostrazione
della capacità del film di scavarci dentro.
Il
film ovviamente non può avere un lieto fine – ma ha una
conclusione che, sebbene amara, almeno non ha le caratteristiche
sanguinose che una storia del genere avrebbe nella realtà.
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