sabato 31 maggio 2025

La trama fenicia

Wes Anderson

C’è un metodo nella sua follia”: quando Shakespeare scrisse questa frase, di sicuro pensava profeticamente a Wes Anderson. Il pazzo e geniale regista americano ritorna, per far incazzare metà pubblico e farsi adorare dall’altra metà, con La trama fenicia. Nel film, un milionario senza scrupoli (dal nome doppiamente cinematografico di Zsa-zsa Korda) è comicamente soggetto a continui attentati (neanche in un thriller Benicio Del Toro sanguina tanto quanto in questo film!) che mirano a sabotare un suo piano edilizio/finanziario. Nomina sua futura erede la figlia Liesl (Mia Threapleton, sublime), abbandonata in convento a 5 anni, che sta per farsi suora. Assieme a lei si lancia nel tentativo di salvare il progetto, dal quale dipende la sua fortuna. Compare anche un bizzarro aldilà (un Paradiso dove Zsa-zsa viene processato, non a fine film) in bianco o nero.


Tutti i film di Wes Anderson presentano una banda di personaggi bizzarri, disfunzionali, sconclusionati. Sorretto dall’impassibilità “keatoniana” di molte di queste figure, il cinema di Anderson è un’antologia di storie impossibili, dove si apprezza in prima battuta l’umorismo eccentrico. Indimenticabile, qui, “Gradisce una bomba a mano?”, il tormentone delle granate educatamente offerte a ogni incontro.
Non cercate di decifrare il senso dell’operazione finanziaria del milionario (ovvero, non cercate di dipanare la “trama fenicia”). Il cinema di Anderson è popolato di piani assurdi e incomprensibili (che peraltro spesso funzionano – laddove il controllo ossessivo, pallino di molti personaggi fra cui Zsa-zsa, fallisce sempre). Il vero argomento di Anderson è un altro: la mancanza e il suo superamento. È un cinema di orfani, in senso proprio o figurato, come Liesl, che ha al centro una disgregazione, una ricorrente perdita della figura paterna per mancanza o allontanamento o incapacità, una frattura della famiglia (I Tenenbaum, cronaca di un divorzio come dolore da riassorbire, o Il treno per il Darjeeling, con la morte del padre e l’abbandono della madre, per non parlare del capolavoro Moonrise Kingdom, e così via). Il fare i conti con il dolore – e la ricerca della ricomposizione. Ricomposizione è (anche qui) la parola chiave di Wes Anderson. Specialmente ricomposizione familiare; e il pensiero corre alla misteriosa scatola sigillata lasciata in eredità dal nonno (ma, tipicamente per Anderson, non è il MacGuffin dell’intreccio), che quando viene aperta non contiene segreti ma ricordi di famiglia. Così, è centrale la necessità della ricomposizione con se stessi – e quindi la rinascita. Anche, naturalmente, nel finale del presente film.
La trama fenicia è particolarmente mosso. La scansione narrativa a tappe (le varie persone da convincere) è molto congeniale al cinema di Anderson, che ama la successione di “quadretti” in sequenza (il primo esempio che mi viene in mente: i vagoni del treno di Darjeeling); ma qui essa si piega e si distorce sotto l’impulso di una fantasia di avventura. La faticosa ricerca di Zsa-zsa culmina nella presentazione agli astanti (e a noi) di un grande modellino dell’opera; ed è normale strategia comunicativa nel mondo degli affari; tuttavia non riusciamo a sottrarci al pensiero irrazionale che lo scopo della “trama fenicia” sia lo stesso del cinema di Wes Anderson: produrre modellini.

La radice del suo cinema è grafica. Classificatore per eccellenza, Anderson riempie i suoi film di inventari, di accurati appunti e scritture, di quadri, di copertine di libri e di dischi. In questo film pieno di dipinti le quote dello “schema fenicio” sono esposte in forma di scatole da scarpe ordinatamente disposte su un tappeto (come ha scritto Ilaria Feole in una bellissima recensione, “c’è sempre più Greenaway, nel regista texano”). In tutti i suoi film ci sono questi accumuli di materiali – rigorosamente disposti in bella vista, ma spesso “bruciati” in pochi secondi di visione. Non a caso Anderson ama trarre libri illustrati dal suo lavoro cinematografico. Poeta e giocoliere, crea un cinema immediatamente riconoscibile sul piano visivo, per il quale è obbligatorio richiamare i concetti gemelli di illustrazione e di fumetto. Vedi per esempio l’inquadratura perpendicolare, “a piombo”, di Zsa-zsa nella vasca da bagno in una grande stanza, assistito dalle infermiere – un’inquadratura che è del tutto esterna alla logica della fotografia cinematografica: è fumettistica.
Quando parlo di fumetto non intendo il fumetto americano attuale, fratturato nelle vignette in modo piuttosto isterico, ma quello americano classico, con quadretti ben delineati – un nome che mi sento di fare, e che di sicuro Anderson conta fra le sue basi culturali, è quello “arcaico” di Winsor McCay. Però i film andersoniani ricordano anche, sia per la concezione grafica sia per quell’impressione di ordine e pulizia, la ligne claire francese-belga. E naturalmente molte classiche copertine di riviste alla New Yorker, Saul Steinberg in primo luogo. La cura delle composizioni, la tendenza all’inquadratura centrata, le sue figurette bizzarre e irreali, la particolarità dei colori: tutto ciò crea un’inconfondibile astrazione figurativa.
Non può stupire che mezza Hollywood sgomiti per fare un cameo nei suoi film (anche La trama fenicia è un Gotha di nomi hollywoodiani, ma elencarli implicherebbe troppo tempo – così, per ovvii motivi di reverenza, mi limito a menzionare Bill Murray nella parte di Dio). A parte il lustro intellettuale, che però varrebbe anche per altri registi, è l’astrazione che la vince: è come diventare personaggio di un fumetto senza l’incombenza di farsi disegnare. Entrare col proprio corpo fisico in un quadro fantastico. Wes Anderson costruisce le immagini con la stessa maniacalità di un diorama.

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