Wes Anderson
“C’è un metodo nella sua follia”: quando Shakespeare scrisse questa frase, di sicuro pensava profeticamente a Wes Anderson. Il pazzo e geniale regista americano ritorna, per far incazzare metà pubblico e farsi adorare dall’altra metà, con La trama fenicia. Nel film, un milionario senza scrupoli (dal nome doppiamente cinematografico di Zsa-zsa Korda) è comicamente soggetto a continui attentati (neanche in un thriller Benicio Del Toro sanguina tanto quanto in questo film!) che mirano a sabotare un suo piano edilizio/finanziario. Nomina sua futura erede la figlia Liesl (Mia Threapleton, sublime), abbandonata in convento a 5 anni, che sta per farsi suora. Assieme a lei si lancia nel tentativo di salvare il progetto, dal quale dipende la sua fortuna. Compare anche un bizzarro aldilà (un Paradiso dove Zsa-zsa viene processato, non a fine film) in bianco o nero.
Tutti
i film di Wes Anderson
presentano una banda di
personaggi bizzarri, disfunzionali, sconclusionati. Sorretto
dall’impassibilità
“keatoniana” di molte di
queste figure, il cinema di Anderson
è un’antologia
di storie impossibili, dove
si apprezza in prima battuta l’umorismo
eccentrico.
Indimenticabile, qui,
“Gradisce una bomba a
mano?”, il tormentone delle granate educatamente offerte a ogni
incontro.
Non
cercate di decifrare il senso
dell’operazione finanziaria del milionario (ovvero, non cercate di
dipanare la “trama
fenicia”).
Il
cinema di Anderson è popolato
di piani assurdi e incomprensibili (che
peraltro
spesso funzionano – laddove
il
controllo ossessivo, pallino di
molti personaggi fra
cui Zsa-zsa, fallisce
sempre).
Il vero
argomento
di Anderson è
un altro: la mancanza e il
suo superamento. È
un cinema di orfani, in senso
proprio o figurato, come
Liesl, che ha
al centro una disgregazione,
una ricorrente perdita
della figura paterna per
mancanza o allontanamento o incapacità, una
frattura della famiglia (I
Tenenbaum, cronaca di un divorzio come
dolore da riassorbire, o Il
treno per il Darjeeling, con
la morte del padre e l’abbandono della madre, per non parlare del
capolavoro Moonrise Kingdom, e così via). Il
fare i conti con il dolore – e
la ricerca della
ricomposizione. Ricomposizione è (anche
qui) la parola chiave
di Wes Anderson.
Specialmente ricomposizione
familiare; e
il pensiero
corre alla misteriosa scatola sigillata lasciata
in eredità dal nonno (ma,
tipicamente per Anderson, non è il MacGuffin dell’intreccio),
che quando viene aperta non
contiene segreti
ma ricordi di famiglia. Così,
è centrale la
necessità della ricomposizione
con se stessi – e quindi la
rinascita. Anche,
naturalmente, nel
finale del presente film.
La
trama fenicia è particolarmente mosso. La scansione narrativa a
tappe (le varie persone da convincere) è molto congeniale al cinema
di Anderson, che ama la successione di “quadretti” in sequenza
(il primo esempio che mi viene in mente: i vagoni del treno di
Darjeeling); ma qui essa si piega e si distorce sotto l’impulso di
una fantasia di avventura. La faticosa ricerca di Zsa-zsa culmina
nella presentazione agli astanti (e a noi) di un grande modellino
dell’opera; ed è normale strategia comunicativa nel mondo degli
affari; tuttavia non riusciamo a sottrarci al pensiero irrazionale
che lo scopo della “trama fenicia” sia lo stesso del cinema di
Wes Anderson: produrre modellini.
La
radice del suo cinema è grafica. Classificatore per eccellenza,
Anderson riempie i suoi film di inventari, di accurati appunti e
scritture, di quadri, di copertine di libri e di dischi. In questo
film pieno di dipinti le quote dello “schema fenicio” sono
esposte in forma di scatole da scarpe ordinatamente disposte su un
tappeto (come ha scritto Ilaria Feole in una bellissima recensione,
“c’è sempre più Greenaway, nel regista texano”). In tutti i
suoi film ci sono questi accumuli di materiali – rigorosamente
disposti in bella vista, ma spesso “bruciati” in pochi secondi di
visione. Non a caso Anderson ama trarre libri illustrati dal suo
lavoro cinematografico. Poeta e giocoliere, crea un cinema
immediatamente riconoscibile sul piano visivo, per il quale è
obbligatorio richiamare i concetti gemelli di illustrazione e di fumetto.
Vedi per esempio l’inquadratura perpendicolare, “a piombo”, di
Zsa-zsa nella vasca da bagno in una grande stanza, assistito dalle
infermiere – un’inquadratura che è del tutto esterna alla logica
della fotografia cinematografica: è fumettistica.
Quando
parlo di fumetto non intendo il fumetto americano attuale, fratturato
nelle vignette in modo piuttosto isterico, ma quello americano
classico, con quadretti ben delineati – un nome che mi sento di
fare, e che di sicuro Anderson conta fra le sue basi culturali, è
quello “arcaico” di Winsor McCay. Però i film andersoniani
ricordano anche, sia per la concezione grafica sia per
quell’impressione di ordine e pulizia, la ligne
claire francese-belga. E naturalmente molte classiche
copertine di riviste alla New Yorker, Saul Steinberg in primo luogo.
La cura delle composizioni, la tendenza all’inquadratura centrata,
le sue figurette bizzarre e irreali, la particolarità dei colori:
tutto ciò crea un’inconfondibile astrazione figurativa.
Non
può stupire che mezza Hollywood sgomiti per fare un cameo nei suoi
film (anche La trama fenicia è un Gotha di nomi hollywoodiani, ma
elencarli implicherebbe troppo tempo – così, per ovvii motivi di
reverenza, mi limito a menzionare Bill Murray nella parte di Dio). A
parte il lustro intellettuale, che però varrebbe anche per altri
registi, è l’astrazione che la vince: è come diventare
personaggio di un fumetto senza l’incombenza di farsi disegnare.
Entrare col proprio corpo fisico in un quadro fantastico. Wes
Anderson costruisce le immagini con la stessa maniacalità di un
diorama.
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