domenica 8 giugno 2025

Scomode verità

Mike Leigh

Il mistero della malattia mentale. Da dove deriva? Da qualche misteriosa perturbazione nell’equilibrio biochimico del nostro corpo? Da una maledizione genetica? O da traumi vissuti che hanno lasciato il segno? O dobbiamo ricorrere al frusto “È colpa della società”?
Mike Leigh è un umanista e un realista (un realismo non retorico, nemmeno accompagnato da toni predicatori come a volte in Ken Loach). In Scomode verità, che parte in modo faticoso ma poi si eleva a un’autentica altezza drammatica, Leigh mostra la vita di due famiglie della piccola borghesia nera di origine giamaicana attraverso il personaggio di Pansy (moglie e madre nell’una, sorella e zia nell’altra) – che, come dice una nipote, “è fuori di testa”. Non è pericolosa ma è insopportabile. Accanto all’ossessione della pulizia della casa e a fobie varie, dagli insetti alle volpi, ha un’aggressività (verbale) costante: in casa, sono continue rampogne a marito e figlio; fuori di casa, sono litigi illogici, da black comedy, con tutti, dai medici alle commesse. La rabbia continua e irrazionale di Pansy, che risale a una triste infanzia, è ovviamente la proiezione su gli altri del suo stare male (“Sto male”: è il lamento classico del malato di mente: tutto deve girare intorno a lui e al suo vittimismo astioso). “Voglio che tutto si fermi”.
Leigh non ci dà né faticose spiegazioni didattiche all’italiana né forzati happy ending alla hollywoodiana. Il suo film racconta una scomoda verità: quando il “male di vivere” trionfa in una persona, non c’è molto da fare se non soffrire. A livello conscio, si soffre con lei; a livello inconscio, si soffre a causa di lei. Il film descrive magnificamente il dolore frustrato della sorella Chantelle, che cerca di stare vicina a Pansy, mentre il marito Curtley si chiude in un silenzio rassegnato (tanto che a un certo punto un gesto privato e solitario di rabbia ci colpisce come uno schiaffo) e il figlio grasso e depresso Moses si isola dal mondo (e viene bullizzato quando esce in strada). C’è un’agghiacciante veridicità nella scena della riunione di famiglia nel giorno della “festa della mamma”, con Pansy che siede cupamente muta in mezzo ai familiari, non estraniandosi, in realtà, ma facendo colare sugli altri il suo malessere ostile.
È una situazione bloccata, che trova un’illustrazione simbolica – attenzione, spoiler! – nel tragico finale. Curtley si è fatto male alla schiena sul lavoro, si è fatto portare a casa dal suo aiutante Virgil e ora è immobilizzato su una sedia in cucina. Ma Pansy è bloccata dai suoi fantasmi al piano di sopra e non vuole/non può scendere. Sulla guancia di Curtley scende una lacrima.
Scomode verità potrebbe essere il film più nero di Leigh, perché ci mette di fronte all’implacabilità del dolore senza rimedio – senza neppure quell’ottimismo implicito del “tirare avanti” su cui Leigh ha costruito tanta parte del suo cinema. La triste conclusione è solo leggermente illuminata da una tenue sottilissima speranza, affidata a una caramella – ma nella generazione seguente (Moses).
Mike Leigh è famoso per il suo paziente lavoro con gli attori, spesso suoi regulars; qui è magnifica Marianne Jean-Baptiste, già apparsa nel suo Segreti e bugie; ma vanno menzionati almeno Michele Austin come Chantelle, David Webber come Curtley e Tuwaine Barrett come Moses.
A un certo punto del film, per bocca di Virgil, sentiamo parlare di Haydn: il compositore della leggerezza e della precisione. Nessuno ci leva dalla testa che sia un omaggio segreto di Leigh a se stesso, ovvero al proprio programma di regista: perché le sue grandi doti sono le stesse. In scene potenti e autentiche, come la visita al cimitero e la riunione familiare già citata, Leigh tocca in maniera impressionante la realtà dei rapporti umani, senza infingimenti ma allo stesso tempo con una profonda pietas – che ci mostra anche nell’inavvicinabile Pansy una straziata umanità.

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