Mike Leigh
Il
mistero della malattia mentale. Da dove deriva? Da qualche misteriosa
perturbazione nell’equilibrio biochimico del nostro corpo? Da una
maledizione genetica? O da traumi vissuti che hanno lasciato il
segno? O dobbiamo ricorrere al frusto “È colpa della società”?
Mike Leigh è un umanista e un realista (un realismo non retorico, nemmeno accompagnato
da toni predicatori come a volte in Ken Loach). In Scomode verità,
che parte in modo faticoso ma poi si eleva a un’autentica altezza
drammatica, Leigh mostra la vita di due famiglie della piccola
borghesia nera di origine giamaicana attraverso il personaggio di
Pansy (moglie e madre nell’una, sorella e zia nell’altra) – che, come dice una nipote, “è fuori di testa”. Non è
pericolosa ma è insopportabile. Accanto all’ossessione della
pulizia della casa e a fobie varie, dagli insetti alle volpi, ha
un’aggressività (verbale) costante: in casa, sono continue
rampogne a marito e figlio; fuori di casa, sono litigi illogici, da
black comedy, con tutti, dai medici alle commesse. La rabbia
continua e irrazionale di Pansy, che risale a una triste infanzia, è
ovviamente la proiezione su gli altri del suo stare male (“Sto
male”: è il lamento classico del malato di mente: tutto deve
girare intorno a lui e al suo vittimismo astioso). “Voglio che
tutto si fermi”.
Leigh
non ci dà né faticose spiegazioni didattiche all’italiana né
forzati happy ending alla hollywoodiana. Il suo film racconta una
scomoda verità: quando il “male di vivere” trionfa in una
persona, non c’è molto da fare se non soffrire. A livello conscio,
si soffre con lei; a livello inconscio, si soffre a causa di lei. Il
film descrive magnificamente il dolore
frustrato della sorella Chantelle,
che cerca di stare
vicina a
Pansy, mentre
il marito Curtley si
chiude in un silenzio
rassegnato (tanto che a un certo punto un gesto privato e solitario
di rabbia ci
colpisce come uno schiaffo) e
il
figlio grasso e depresso Moses
si isola dal mondo (e
viene bullizzato quando esce in strada).
C’è un’agghiacciante
veridicità nella scena
della riunione di famiglia
nel giorno della “festa della mamma”, con Pansy
che siede cupamente muta in
mezzo ai familiari, non
estraniandosi, in realtà, ma facendo colare sugli altri il suo
malessere ostile.
È
una
situazione bloccata, che
trova un’illustrazione simbolica – attenzione, spoiler! – nel
tragico finale. Curtley si
è fatto male alla schiena sul lavoro, si è fatto portare a casa dal
suo aiutante Virgil e
ora è immobilizzato
su una sedia in cucina. Ma Pansy è bloccata dai suoi fantasmi al
piano di sopra e non vuole/non può scendere. Sulla guancia di
Curtley
scende una lacrima.
Scomode
verità potrebbe essere il film più nero di Leigh, perché ci mette
di fronte all’implacabilità del dolore senza rimedio
– senza neppure quell’ottimismo implicito del “tirare avanti”
su cui Leigh ha costruito tanta parte del suo cinema. La triste
conclusione è solo leggermente illuminata da una tenue sottilissima
speranza, affidata a una caramella – ma nella generazione seguente
(Moses).
Mike
Leigh è famoso
per il suo paziente lavoro
con gli attori, spesso suoi regulars;
qui
è magnifica
Marianne Jean-Baptiste, già
apparsa nel suo Segreti e bugie; ma
vanno
menzionati almeno Michele
Austin come Chantelle, David
Webber come Curtley
e Tuwaine
Barrett come Moses.
A
un certo punto del film, per bocca di Virgil, sentiamo parlare di
Haydn: il compositore della leggerezza e della precisione. Nessuno ci
leva dalla testa che sia un omaggio segreto di Leigh a se stesso, ovvero al
proprio programma di regista: perché le sue grandi doti sono le
stesse. In scene potenti e autentiche, come la visita al cimitero e
la riunione familiare già citata, Leigh tocca in maniera
impressionante la realtà dei rapporti umani, senza infingimenti ma
allo stesso tempo con una profonda pietas – che ci mostra anche
nell’inavvicinabile Pansy una straziata umanità.
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