sabato 31 maggio 2025

La trama fenicia

Wes Anderson

C’è un metodo nella sua follia”: quando Shakespeare scrisse questa frase, di sicuro pensava profeticamente a Wes Anderson. Il pazzo e geniale regista americano ritorna, per far incazzare metà pubblico e farsi adorare dall’altra metà, con La trama fenicia. Nel film, un milionario senza scrupoli (dal nome doppiamente cinematografico di Zsa-zsa Korda) è comicamente soggetto a continui attentati (neanche in un thriller Benicio Del Toro sanguina tanto quanto in questo film!) che mirano a sabotare un suo piano edilizio/finanziario. Nomina sua futura erede la figlia Liesl (Mia Threapleton, sublime), abbandonata in convento a 5 anni, che sta per farsi suora. Assieme a lei si lancia nel tentativo di salvare il progetto, dal quale dipende la sua fortuna. Compare anche un bizzarro aldilà (un Paradiso dove Zsa-zsa viene processato, non a fine film) in bianco o nero.


Tutti i film di Wes Anderson presentano una banda di personaggi bizzarri, disfunzionali, sconclusionati. Sorretto dall’impassibilità “keatoniana” di molte di queste figure, il cinema di Anderson è un’antologia di storie impossibili, dove si apprezza in prima battuta l’umorismo eccentrico. Indimenticabile, qui, “Gradisce una bomba a mano?”, il tormentone delle granate educatamente offerte a ogni incontro.
Non cercate di decifrare il senso dell’operazione finanziaria del milionario (ovvero, non cercate di dipanare la “trama fenicia”). Il cinema di Anderson è popolato di piani assurdi e incomprensibili (che peraltro spesso funzionano – laddove il controllo ossessivo, pallino di molti personaggi fra cui Zsa-zsa, fallisce sempre). Il vero argomento di Anderson è un altro: la mancanza e il suo superamento. È un cinema di orfani, in senso proprio o figurato, come Liesl, che ha al centro una disgregazione, una ricorrente perdita della figura paterna per mancanza o allontanamento o incapacità, una frattura della famiglia (I Tenenbaum, cronaca di un divorzio come dolore da riassorbire, o Il treno per il Darjeeling, con la morte del padre e l’abbandono della madre, per non parlare del capolavoro Moonrise Kingdom, e così via). Il fare i conti con il dolore – e la ricerca della ricomposizione. Ricomposizione è (anche qui) la parola chiave di Wes Anderson. Specialmente ricomposizione familiare; e il pensiero corre alla misteriosa scatola sigillata lasciata in eredità dal nonno (ma, tipicamente per Anderson, non è il MacGuffin dell’intreccio), che quando viene aperta non contiene segreti ma ricordi di famiglia. Così, è centrale la necessità della ricomposizione con se stessi – e quindi la rinascita. Anche, naturalmente, nel finale del presente film.
La trama fenicia è particolarmente mosso. La scansione narrativa a tappe (le varie persone da convincere) è molto congeniale al cinema di Anderson, che ama la successione di “quadretti” in sequenza (il primo esempio che mi viene in mente: i vagoni del treno di Darjeeling); ma qui essa si piega e si distorce sotto l’impulso di una fantasia di avventura. La faticosa ricerca di Zsa-zsa culmina nella presentazione agli astanti (e a noi) di un grande modellino dell’opera; ed è normale strategia comunicativa nel mondo degli affari; tuttavia non riusciamo a sottrarci al pensiero irrazionale che lo scopo della “trama fenicia” sia lo stesso del cinema di Wes Anderson: produrre modellini.

La radice del suo cinema è grafica. Classificatore per eccellenza, Anderson riempie i suoi film di inventari, di accurati appunti e scritture, di quadri, di copertine di libri e di dischi. In questo film pieno di dipinti le quote dello “schema fenicio” sono esposte in forma di scatole da scarpe ordinatamente disposte su un tappeto (come ha scritto Ilaria Feole in una bellissima recensione, “c’è sempre più Greenaway, nel regista texano”). In tutti i suoi film ci sono questi accumuli di materiali – rigorosamente disposti in bella vista, ma spesso “bruciati” in pochi secondi di visione. Non a caso Anderson ama trarre libri illustrati dal suo lavoro cinematografico. Poeta e giocoliere, crea un cinema immediatamente riconoscibile sul piano visivo, per il quale è obbligatorio richiamare i concetti gemelli di illustrazione e di fumetto. Vedi per esempio l’inquadratura perpendicolare, “a piombo”, di Zsa-zsa nella vasca da bagno in una grande stanza, assistito dalle infermiere – un’inquadratura che è del tutto esterna alla logica della fotografia cinematografica: è fumettistica.
Quando parlo di fumetto non intendo il fumetto americano attuale, fratturato nelle vignette in modo piuttosto isterico, ma quello americano classico, con quadretti ben delineati – un nome che mi sento di fare, e che di sicuro Anderson conta fra le sue basi culturali, è quello “arcaico” di Winsor McCay. Però i film andersoniani ricordano anche, sia per la concezione grafica sia per quell’impressione di ordine e pulizia, la ligne claire francese-belga. E naturalmente molte classiche copertine di riviste alla New Yorker, Saul Steinberg in primo luogo. La cura delle composizioni, la tendenza all’inquadratura centrata, le sue figurette bizzarre e irreali, la particolarità dei colori: tutto ciò crea un’inconfondibile astrazione figurativa.
Non può stupire che mezza Hollywood sgomiti per fare un cameo nei suoi film (anche La trama fenicia è un Gotha di nomi hollywoodiani, ma elencarli implicherebbe troppo tempo – così, per ovvii motivi di reverenza, mi limito a menzionare Bill Murray nella parte di Dio). A parte il lustro intellettuale, che però varrebbe anche per altri registi, è l’astrazione che la vince: è come diventare personaggio di un fumetto senza l’incombenza di farsi disegnare. Entrare col proprio corpo fisico in un quadro fantastico. Wes Anderson costruisce le immagini con la stessa maniacalità di un diorama.

martedì 27 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Cina, Mongolia, Corea


Con queste note concludo la serie di brevi recensioni dei film del Far East Film Festival 2025 (va da sé che non li ho visti tutti). Nota: alcune recensioni sono già state pubblicate in forma breve sul quotidiano Messaggero Veneto.

Tsui Hark

Il maestro Tsui Hark, grande regista e produttore, il cui cinema si situa fra Hong Kong, Taiwan e la Cina continentale (ma anche con una puntata nel cinema hollywoodiano) in un ricchissimo territorio di fantasy, wuxiapian, arti marziali e avventura, ha ricevuto il Gelso d’Oro alla carriera 2025, consegnato in una bellissima cerimonia da un altro grande, Tony Leung Ka-fai. Il FEFF ha reso omaggio a Tsui Hark con la presentazione di tre suoi film, fra cui l’ultimo, Legends of the Condor Heroes: The Gallants.
Shanghai Blues (Hong Kong 1984), presentato in un restauro in cui il regista ha cambiato qualcosa, è un superbo mélange di velocità, ritmo, umorismo e commozione all’interno di una descrizione calda e appassionata della Shanghai povera del dopoguerra, subito prima che la città cadesse nelle mani dei comunisti (ha un valore simbolico quel treno che parte nel finale verso Hong Kong). Equivoci, scambi di persone, gag, una ronde di una serie di quadri collegati da una presenza continua della musica (anche il dénouement si svolge al ritmo della canzone eponima, Shanghai Blues). Un ottimismo di fondo sul fuggire e una nota amara sul restare, nel finale. Un capolavoro.
(Nota in margine: quando uscirà il DVD, mi auguro che contenga ambedue le versioni, quella originaria del 1984 e questa).
Nell’ambito della rassegna, che sono stato felice di curare, sulle creature del folklore asiatico nel cinema è inserito Green Snake (Hong Kong 1993), in cui il regista riprende la vecchia leggenda giapponese di Serpente Bianco e Serpente Verde, due spiriti-serpente sorelle travestite da umani per vivere nel nostro mondo. Fiabesco e fascinoso, certo; ma soprattutto, Tsui Hark – che non dimentica mai nel suo cinema la personalità dei suoi personaggi in favore del racconto – amplia la leggenda allargando il gioco psicologico fra le due sorelle, la maggiore e la minore: Serpente Verde (personaggio assai minore nella leggenda e qui co-protagonista, interpretato da Maggie Cheung) è più giovane di Serpente Bianco, ha solo 500 anni, ed è piena di impetuosità e inesperienza giovanile (con gag di trasformazione incompleta), ma vuole anche lei, come la sorella maggiore, provare l’amore di un mortale.
Il wuxiapian Legends of the Condor Heroes: The Gallants (Cina 2025) ritagliando la sua storia da una parte del romanzo-fiume di Jin Yong, maestro riconosciuto del wuxia letterario con le sue opere scritte fra il 1955 e il 1972. Nel lavoro di taglia e cuci di Tsui Hark, che usa in modo molto autonomo (e non è la prima volta) l’opera di Jin Yong, un punto però rimane come stella polare: il concetto di righteousness (rettitudine), centrale nella cultura cinese classica, che si riflette in questi “cavalieri antiqui”. Tsui Hark crea un filmone rutilante di grande spettacolo, un’orgia visuale e narrativa piena di movimento e di colore. È un maestro del combattimento e i suoi “voli” nell’aria sono probabilmente i più belli dopo quelli di King Hu. Eppure, non è la tensione del combattimento wuxia a mantenere il primo posto nell’economia psicologica del film bensì, tipicamente, la personalità umana. Mentre continua la lotta contro il super-villain dai poteri magici interpretato da Tony Leung Ka-fai, si crea un triangolo fra l’eroe Guo Jing, la sua donna perduta e ritrovata Huang Rong e la vivacissima figlia guerriera di Genghis Khan, che è innamorata di Guo Jing. Su questa situazione, il film costruisce un intrico di equivoci e di necessaria finzione (“dissimulazione onesta”, avrebbe detto Torquato Accetto) in modo così intenso che palpitiamo per l’esistenza sentimentale dei personaggi prima ancora che per quella fisica.

Green Wave

Il film cinese Green Wave di Xu Lei parte dalla scoperta, durante la demolizione di una casa, di una ciotola che (forse) è antica, e in tal caso vale un mucchio di soldi. Un po’ esile (migliora nella seconda ora) ma piacevolissimo, il film incrocia due vite, i cui protagonisti sono padre e figlio; e insieme, con eguale ironia, incrocia due mondi, quello dell’arte e delle expertise e quello dei giovani cinefili, aspiranti sceneggiatori/registi.
Nel primo caso, vediamo una banda di truffatori di sottigliezza e accuratezza incredibile (tanto da travalicare la semplicità dell’assunto, è come prendere il transatlantico per andare da Trieste a Venezia, ma che importa? Quando il figlio, che ha capito il trucco, prende una stoviglia dall’acquaio, gliela porta e loro mettono in atto di nuovo tutta la manfrina degli esperti coltissimi, ci si rovescia dal ridere). Nel secondo caso vengono presi per il bavero sia il cinema cinese di blockbuster sia la fauna cinefila: da notare che il feroce critico online non è meno ridicolo del protagonista, quando quest’ultimo lo affronta per strada.
Il maggior pregio del film è la sincera simpatia che riesce a creare verso i suoi personaggi, molto umani. Per una volta non dipende solo dalla bravura degli attori perché se Xu Chaoying (il padre) è molto bravo, Wang Chuanjun (il figlio) lo è un po’ meno. Sobriamente delineati ma deliziosi i personaggi di contorno, come il fratello che accompagna il padre nella sua avventura. Nella seconda parte, poi, Green Wave acquista una maggiore profondità: la scena in cui padre e figlio sono coricati vicini in casa e il padre racconta dei suoi progetti per usare i milioni che guadagnerà (dal reperto) aiutando la famiglia… solo che tanto il figlio quanto noi spettatori già sappiamo che è una truffa… è la migliore del film e ha una delicata, malinconica autenticità vagamente čechoviana.

Deep in the Mountain

Li Yongyi è il montatore di alcuni recenti film di Yang Zhimou, tra i quali ricordo lo splendido Full River Red. Ha debuttato come regista con Deep in the Mountain, in cui, fedele al titolo, il poliziotto Yao (che deve riabilitarsi dopo un ridicolo errore) si inoltra in mezzo al nulla fra le montagne alla ricerca di una persona scomparsa, e finisce in qualcosa di molto simile a un alveare di vespe infuriate.
Deep in the Mountain è interessante e piacevole, ma sconcerta per una contraddizione importante, sia narrativa sia linguistica. Inizia (parlo di un buon pezzo, non della scena iniziale) come un thriller, e anche il linguaggio cinematografico è raffinato, procede per lampi, se non è anacronico ci va vicino. Poi il film, con l’arrivo del poliziotto in un villaggio di bifolchi dove si nasconde un astuto assassino, cambia radicalmente direzione e diventa una black comedy; e qui, pure il modo di raccontare diventa più tradizionale. Impossibile non sentire una specie di stridore; forse Li Yongyi e lo sceneggiatore Wang Zhongyan pensavano ai fratelli Coen, che mi sembrano il riferimento occidentale più vicino, ma a differenza per esempio di Fargo, si ha l’impressione che questa contraddizione non sia del tutto risolta sul piano artistico. Comunque sia, la stupidità di questi contadini ambiziosi, intenti a preparare in pompa magna l’arrivo di un pezzo grosso a livello locale, riceve un’illustrazione memorabile.
Tutti gli attori sono eccellenti. Qiao Shan (Yao, il poliziotto) è una meraviglia – mi fa pensare a un Silvio Orlando cinese (più giovane e più atletico). Wang Yanhui (l’assassino Ge) è pure bravissimo e molto inquietante nel suo atteggiamento di simpatia manipolatoria dietro la quale traspare sempre un senso di minaccia da far rizzare i capelli.

Her Story

Vibrante film femminista, mai didattico, di freschezza invidiabile, ricco di humour, il cinese Her Story di Shao Yihui tocca una quantità di temi (compresa l’omosessualità, per via di equivoco, su cui umoristicamente un inganno per fregare un dongiovanni), ma in primo luogo la rivendicazione della capacità della donna di agire e farsi avanti – che nel caso della bambina Moli può anche voler dire la libertà di rinunciare per ora a prendere una decisione sul futuro. Contestualmente ironizza sul pregiudizio maschile che si si aspetta che la donna sia perfetta in tutto quello che fa. Con un dialogo eccellente, sparato “a raffica” come nelle commedie screwball americane, è un film attraversato da un senso di libertà – sia come aspirazione sia come realizzazione concreta – che è raro trovare nel cinema cinese: con tanta convinzione almeno. Forse c’entra il fatto che si svolga a Shanghai invece che a Pechino, e l’atmosfera è diversa. Di certo, vi spira un vento leggero ma indiscutibile di fronda (vedi la figura del ragazzino “denunciatore” a scuola).
Il trio di interpreti femminili è ben delineato, e ottimo sul piano interpretativo: la giornalista Tiemei (Song Jia) che è anche troppo controllata, la cantante Ye (Elaine Zhong), sua vicina, che è l’esatto opposto – fra le due nasce un imprevedibile rapporto di “sorellanza” – e la piccola Moli (deliziosa l’attrice bambina Isabella Zeng) che si divide fra le due “mamme” cercando la propria strada. Fra le figure maschili di contorno, divertentissimo l’ex marito di Tiemei che dopo il divorzio è diventato “femminista” – nel senso che ripete a pappagallo sentenze orecchiate nei libri femministi che ha letto.

Like a Rolling Stone

L’aspetto decisamente positivo del film di Yin Lichuan è il ritratto della protagonista Li Hong, ben interpretata da Mei Yong, ispirata a una persona reale, Su Ming, che a cinquant’anni passati ha mollato il marito e gli obblighi familiari e ha cominciato a viaggiare da sola per la Cina, diventando famosa con i suoi post online. Li Hong è una donna che aveva ambizioni da ragazza (studentessa brillante, voleva andare al college) e ha dovuto rinunciare, prima per aiutare la famiglia – il padre, violando le promesse, le fa un ricatto morale – e poi per gli obblighi del matrimonio, poi quelli dell’allevare una bambina, poi di fare la nonna quando la figlia ha due gemelli. Da figlia, da sposa, poi madre, poi nonna, Hong non ha mai un momento per se stessa (questo è espresso sul piano spaziale nella scenografia, con lei che spignatta in una piccola cucina separata da un vetro). Il racconto è narrato in modo anacronico sull’arco di molti anni. Il concetto del peso di obblighi che schiaccia la donna cinese, tanto ieri quanto oggi, è ben reso, e la bella definizione della protagonista “lima” l’inevitabile aspetto didattico.
Il problema è che l’aspetto didattico uscito dalla porta delle interpretazioni femminili rientra dalla finestra con quella maschile: il marito appare come una figura eccessiva, non perché non sia autentico il primitivismo neanderthal del maschilismo cinese che incarna, ma sul piano artistico, per la ripetitività (non smette di rompere un minuto in tutto il film!) con cui il film lo trasforma in un rompipalle pazzoide.

My Friend An Delie

Li Mo (il regista Dong Zijian) sta andando in aereo al funerale di suo padre. Sull’aereo riconosce il suo amico An Delie (Liu Haoran) che non vedeva dai lontani tempi della scuola. An Delie però prima dice di non esserlo, poi dice che conosce Li Mo e non è lui. Tutto è molto ambiguo. Quando Li Mo è costretto ad affittare un’auto per continuare il viaggio, An Delie viaggia con lui, con aspetti sempre più misteriosi.
La storia interlinea questo bizzarro presente e il racconto in flashback dei tempi della scuola, con l’amicizia fra Li Mo e An Delie quand’erano ragazzini (Chi Xingkai e Han Haolin). In quel tempo, siccome An Delie ha come vero nome An Deshun, a tutti scoccia che voglia farsi chiamare An Delie, anche perché, dicono, è un nome straniero: è un po’ sconcertante ma la spiegazione è che An Delie è la pronuncia cinese di André. Viene spesso picchiato dal padre ed è un anticonformista totale, il che affascina Li Mo (questi vive da solo col padre perché la madre se n’è andata). C’è una pagina coraggiosamente polemica contro le istituzioni quando i voti vengono “aggiustati”, a danno di Li Mo, per far vincere una borsa di studio a un’altra allieva (evidentemente figlia di un pezzo grosso) e An Delie lo denuncia pubblicamente, pagandola cara.
Andando avanti nel film ci facciamo un’idea del concetto: il regista Dong Zijian (anche co-sceneggiatore da un romanzo di Shang Xuetao, nonché interprete) ha voluto in pratica incrociare una concezione alla David Lynch, o alla Kurosawa Kiyoshi, con il tradizionale realismo cinese. Forse il film, nella seconda parte, rende ciò un po’ troppo esplicito, mentre prima era un po’ troppo oscuro, e casca almeno in una ingenuità (un’allucinazione che picchia!), ma in compenso è una delle opere più intriganti del festival.

Upstream

Xu Zheng, regista e interprete di Upstream, è famoso per le sue commedie, ma ha anche interpretato ruoli drammatici, come in Dying to Survive (2018). Upstream è un film drammatico, anche se la carica comunicativa di Xu vi porta una certa leggerezza. Il “colletto bianco” Gao Zhilei viene inaspettatamente licenziato da un ruolo di dirigente. Cerca un nuovo lavoro ma nessuno assume un quarantenne, e lui nella disperazione deve riciclarsi come rider per le consegne a domicilio. Naturalmente all’inizio se la cava malissimo. La prima parte fa stupire che non sia stata proibita (chissà se non ci fosse una superstar come Xu Zheng...), perché dà della Cina “socialista” (per quanto sia un’etichetta vuota) una descrizione in termini di super-capitalismo infernale tale da andare oltre i sogni più estremi di Trump e Musk. Questo, sia nella descrizione delle grandi industrie sia nella descrizione dei rider, sottoposti a un sistema di iper-sfruttamento feroce con tempi cronometrati (per cui devono anche essere imprudenti nella guida se vogliono fare le consegne senza rimetterci).
La seconda parte descrive il passaggio di Gao Zhilei, come si suol dire, from zero to hero (campione e inventore di un’idea produttiva, con premio in denaro) negli stilemi del cinema sportivo, compresi i classici passaggi di montage celebrativo, fra cui quello finale in una discoteca – con lui tutto sanguinante per un incidente. Esiste indubbiamente una discrasia di tono tra le due parti, dalla disperazione all’ottimismo che elogia chi lavora duro (se volessi esagerare, giusto per farmi capire, direi che la prima parte sembra firmata da Preston Sturges e la seconda da Frank Capra); ma il film “tiene” – e siccome è impossibile non solidarizzare con questa banda di eroi sconosciuti, scalda il cuore una conclusione pur minimamente positiva.

Successor

Successor, di Peng Damo e Yan Fei, viene dal famoso gruppo Manhua Fun Age, compagnia comica di cinema e teatro di Pechino. In questa commedia tanto delirante quanto intelligente, un padre milionario (l’attore comico Shen Teng) non vuole che il secondo figlio Jiye cresca guastato dalla ricchezza come suo fratello, che se n’è andato di casa. Così finge di essere poverissimo e di abitare in una casa miserabile con la moglie, il bambino e una (finta) nonna paralitica. Aiutandosi su un apparato supertecnologico alla James Bond, del quale fanno parte tutti i falsi vicini, alleva il figlio nella povertà in modo che impari tutte le virtù confuciane. Bellissimo – ma funziona finché Jiye è un ragazzino (deliziosa la sua bontà, diremmo qui, “deamicisiana”). Quando diventa un giovanotto, è ancora un ragazzo d’oro, ma comincia a dubitare della realtà…
Successor è una commedia gustosissima, con dei momenti assolutamente farseschi (il finto funerale!), ma va al di là di una “cosa da ridere”. Affronta con intelligenza quella specie di “coscienza infelice”, propria della Cina ma nelle sue forme di tutti i paesi ex poveri, che è la consapevolezza della discrasia fra la nuova ricchezza materiale e le vecchie virtù, lodate dai conservatori ma difficili da vivere. Soprattutto, però, Successor è una sorta di The Truman Show cinese. Il protagonista Jiye quando è cresciuto è troppo intelligente per non avere degli ovvii sospetti, ma non sa comprendere cosa succede, e nessuno ci riuscirebbe. Il film, esattamente come The Truman Show, diventa un esercizio di “paranoia giustificata”. Sublime la scena in cui Jiye, a scuola, scandalizza l’insegnante mettendo in questione il materialismo marxista obbligatorio nel regime e sostenendo che in realtà la nostra vita è determinata da forze misteriose.
E così, di nuovo come The Truman Show, Successor diventa un’ironica riflessione filosofica (e implicitamente politica) – e chiama in causa in una conclusione dolceamara anche l’aspetto morale.

Decoded

Più interessante sulla carta che nella realizzazione, il pomposo Decoded è un film di Chen Sicheng sulla lotta ventennale fra due geniali esperti di cifrari e decrittazione, uno cinese e uno americano, Jingzhen e Lisiewicz, che erano stati amici in gioventù in Cina. La lunga durata del plot dà l’occasione di tratteggiare (da un punto di vista rigorosamente patriottico e di regime) una storia della Cina fra i Quaranta e i Sessanta. Nella parte finale, mentre i buoni costruiscono la bomba atomica, i nemici americani e taiwanesi si adoperano per impedirlo.
Il film si avvale di una bella fotografia di Cao Yu, che è molto bilanciata, con una predisposizione per la centratura: utile per introdurre un elemento di sotterranea inquietudine che entra bene in un film che si sofferma molto sul sogno. Infatti per Jingzhen, affascinato all’interpretazione dei sogni fin dall’inizio, il sogno è un territorio popolato di simboli in cui la mente risolve i problemi insoluti durante la veglia.
Purtroppo non basta saccheggiare David Lynch e Christopher Nolan per rendersi interessanti; inoltre il film contiene grossolanità di racconto (l’episodio del quaderno smarrito) e ridicolaggini di messa in scena (la cella stile Abate Faria del Conte di Montecristo in cui i suoi dirigenti americani rinchiudono Lisiewicz per punizione) che, unite a una lunghezza eccessiva, rendono faticosa la visione.

Silent City Driver

Gli spettatori del Far East Film ricorderanno il film della Mongolia The Sales Girl di Sengedorj Janchivdorj. Lo stesso regista firma Silent City Driver, che è, a parere di chi scrive, più bello di The Sales Girl, ma anche molto diverso (ho anche avuto difficoltà a vedere una continuità stilistica fra i due; poi però compaiono dei motivi comuni, come il viaggio nella steppa). È più intellettuale, per così dire, quasi d’avanguardia, e molto elegante, a tratti maestoso.
Il racconto del film fraziona l’esperienza di vita del protagonista in una serie di “momenti significanti”, con un effetto a mosaico. Il giovane, semi-ritardato dopo un inumano trattamento in carcere, lavora come autista di carro funebre in una specie di azienda tutto-per-la-morte”, che va dai funerali alla fabbricazione delle bare al lavoro di scalpellino per le lapidi. A un certo punto il protagonista si imbatte in un mistero: una ragazza che esce di nascosto da casa sua di notte. In breve, vediamo che è ricattata dal padrone di un hotel a causa di certe foto erotiche. Nel rapporto fra i due e nella rabbia di lui sembra di avvertire una vaghissima reminiscenza di Taxi Driver, ma tutto si svolge in un contesto buddhista (gustosa una spiritosa figura di giovane bonzo tifoso di calcio e non alieno dalla carne): tema ultimo di questo film complesso ma ricco di fascino è l’espiazione.

About Family

Nella spiritosa commedia coreana About Family di Yang Woo-seok il ricco e avaro ristoratore Mu-ok, il re dei ravioli, è disperato perché è vedovo e non ha un erede. Poiché segue la religione tradizionale coreana, si vergogna come un ladro quando deve fare rapporto agli antenati durante i riti. Non può contare sul suo unico figlio, Mun-seok, che ha abbandonato la famiglia ed è diventato monaco buddhista, per di più di grande successo come predicatore (ha pure scritto un bestseller, Da Ippocrate a Buddha, e pagherei qualcosa per leggerlo). Ma ecco che si presentano da Mu-ok due bambini – i cui genitori adottivi sono morti in un incidente – che dichiarano di essere figli di Mun-seok. “Antenati!!!”, strilla felice Mu-ok per avvertirli della scoperta.
Di qui prosegue con varie complicazioni (dalla religione agli scherzi sull’avarizia di mu-ok, più l’inevitabile, ma controllato, côté patetico) un’agile commedia feel-good, fondata sul dialogo e sulla reazione psicologica al dialogo, un “botta e risposta” supportato da ottimi attori. Il ritmo naturalmente è molto vivace (è interessante che il regista sia l’autore di un dramma politico come The Attorney e di due durissimi thriller di avventura come i due Steel Rain). Questo film ha una esuberante cordialità di messa in scena e di svolgimento, da cui il cinema italiano di oggi potrebbe ben imparare qualcosa.

Dark Nuns

Il coreano Dark Nuns di Kwon Hyuk-jae è una via di mezzo tra un sequel e uno spinoff di The Priests di Jang Jae-hyun, visto al FEFF nel 2016, e si svolge nello stesso universo fantastico, basato – da buon film di esorcisti – su una teologia para-cattolica, con i Rosacroce autorizzati dal Vaticano in lotta contro le demoniache “12 Manifestazioni”. Alla fine ricompare in un cameo Kang Dong-won, il Padre Choi del primo film. Tuttavia Dark Nuns è meno apocalittico come trama del suo predecessore, che minacciava la fine del mondo.
Qui di tratta di salvare un ragazzo posseduto (Woo-jin è efficace nel ruolo). Il problema è che il sacerdote a capo dell’ospedale che ne ha cura, Padre Paolo, è uno di quei preti “moderni”, un positivista-progressista, per il quale la possessione demoniaca è superstizione e la psichiatria è la soluzione. S’intende che per lui una suora esorcista (una suora!) come suor Yunia è abominio.
Yunia, che è stata formata come esorcista dal Padre Kim di The Priests, trova un’alleata indispensabile in suor Michaela, formata dal prete psichiatra, e quindi scettica e ostile – ma che poi si lascia convincere. La differenza totale di carattere e abitudini fra le due è molto divertente; Song Hye-kyo e Jeon Yeo-been sono molto brave rispettivamente come Yunia e Michaela.
È interessante la presenza nella trama del fatto che per la Chiesa cattolica le donne non possono esorcizzare; inoltre, viene ripresa e ampliata l’idea, già presente in The Priests, di un’alleanza fra il cattolicesimo e lo sciamanesimo coreano contro le forze oscure. Ma in primo luogo Dark Nuns va visto come un horror estremamente piacevole. Non ci sono l’estremismo fanatico né le bizzarrie surreali di Jang Jae-hyun in The Priests, ma Kwon Hyeok-jae porta nel suo film una mano molto sicura che realizza un’opera tesa e concentrata.
I vari film di esorcisti hanno il problema che: a) la trama è tutta costruita per arrivare alla scena madre dell’esorcismo; b) quando ci si arriva si vede in genere una scena “friedkiniana” già passata sullo schermo molte volte. Dark Nuns sfugge con molta abilità a questa trappola, prima dando molto spazio ai rapporti interpersonali (non che per questo manchino le scene horror!) e poi realizzando la lunghissima scena dell’esorcismo risolutivo con una vivezza e convinzione che la fanno spiccare nel genere.

The Square

In uno dei regimi più chiusi e inumani del mondo, la Corea del Nord, un diplomatico dell’ambasciata svedese, pedinato e spiato come tutti, ha una storia d’amore con una agente del traffico di Pyongyang. Sarebbe una storia appassionante e improbabile comunque, ma ciò che rende unico The Square, primo lungometraggio di Kim Bo-sol, è che si tratta di un’animazione. Le figure, realistiche, rientrano nel canone del cartoon occidentale contemporaneo, ma i movimenti della bocca sono tipico manga.
Un breve episodio laterale rende bene l’idea del mondo in cui Isak si muove. Per strada l’uomo vede una bambina, in braccio alla madre, incuriosita e un po’ spaventata da questo viso occidentale e diverso. Lui le sorride, dice qualcosa e la bambina diventa amichevole. Dopo che lui è andato via, un poliziotto si avvicina alla madre e la rimprovera: “Non dovresti parlare con uno straniero”.
Ricorda Orwell, e va oltre, la descrizione degli accorgimenti che Isak Borg (biondo scandinavo ma coreano da parte della nonna) e Bok-joo devono prendere per rubare pochi attimi per la loro relazione necessariamente platonica – come mangiare vicini al ristorante ma in tavole separate senza guardarsi. Il loro amore è possibile perché l’interprete di Isak, Myung-jun, è una persona fondamentalmente onesta e pur essendo stato messo al suo posto dalla Gestapo del regime finge di non accorgersi e non li denuncia.
È una storia, raccontata abilmente, che si svolge per intero sotto il segno di una tormentosa impossibilità. In effetti si ha l’impressione che Isak non si renda conto a sufficienza del pericolo cui espone la donna che ama; ma questo dà al racconto la sua aria di disperato romanticismo. C’è una suspense rispetto ai personaggi, ci preoccupiamo per loro, ciò che è la dimostrazione della capacità del film di scavarci dentro.
Il film ovviamente non può avere un lieto fine – ma ha una conclusione che, sebbene amara, almeno non ha le caratteristiche sanguinose che una storia del genere avrebbe nella realtà.

lunedì 26 maggio 2025

Paternal Leave

Alissa Jung

Ci sono certi padri, che è meglio perderli che trovarli (scusate l’anacoluto). Uno di questi è Paolo, che quando la fidanzata tedesca Anna è rimasta incinta si è dato alla fuga senza più farsi sentire. Ora la figlia Leo (Leonia) ha 15 anni e all’insaputa della madre va a cercarlo in Italia, nel film tedesco/italiano “Paternal Leave” di Alissa Jung.
Il primo approccio con Paolo, infuriato e spaventato da questa irruzione del passato nella sua vita (ora ha una fidanzata e una bambina), è quasi da antropologa, o da entomologa: un’“intervista” con una serie di domande preparate in anticipo. Poi però i sentimenti rabbiosi e inespressi vengono fuori.
Immerso in ambienti romagnoli volutamente tristi, “Paternal Leave” ha un grande merito: ci dà un bellissimo ritratto di adolescente, con la prodigiosa giovanissima Juli Grabenhenrich che sul piano interpretativo non sbaglia un colpo. Lei non è una che le manda a dire: fra la “poker face” adolescenziale e una certa rigidezza teutonica (anzi: adolescenzial-teutonica), è un personaggio memorabile, il cui dolore è privo di qualsiasi sviolinata patetica. Dall’altro lato, Paolo, interpretato da Luca Marinelli, è una figura che conosciamo molto bene dal cinema italiano dei Cinquanta e dei Sessanta, da Risi, Salce, Monicelli, Pietrangeli (la interpretava splendidamente Alberto Sordi): il mediocre nato, bugiardo, autoindulgente, vittimista, sempre pronto a piangersi addosso (vedi il discorso di Paolo sull’essere rimasto psicologicamente “paralizzato”) e sempre propenso a dare la colpa agli altri.
Ma mentre nel “realismo cinico” dei film italiani degli anni Sessanta il personaggio sarebbe rimasto nella propria grettezza, qui invece arriva, improvviso come un UFO, un finalino consolatorio con volate poetiche (il funerale del fenicottero).

(Messaggero Veneto)

martedì 20 maggio 2025

I peccatori

Ryan Coogler

Potrebbe essere il miglior film di vampiri degli ultimi anni, originale e insieme classico, I peccatori (Sinners), scritto e diretto da Ryan Coogler (attenzione: questa recensione contiene importanti spoiler). La vita e la condizione dei neri americani si sono rivelate singolarmente adatte per la carica metaforica del fantastico: basta ricordare l’importante nome di Jordan Peele. I peccatori realizza un affresco vivace e affollato del mondo dei neri del Sud degli Stati Uniti fra le due guerre (siamo in Mississippi nel 1932), richiamando sia la grande corrente della letteratura nera americana – a partire da Richard Wright – sia film come Il colore viola di Steven Spielberg e, ancor più, Mississippi Adventure di Walter Hill: che introduceva nella storia di un musicista blues il tema diabolico (e il blues era “la musica del diavolo”, come tuonavano i predicatori). Prima del realismo della parte iniziale, già in apertura il film introduce l’elemento soprannaturale con un discorso sulle proprietà magiche della musica folklorica e popolare in tutto il mondo, sia in senso positivo sia in senso negativo (attira i demoni).
Eccellente anche nella fotografia di Autumn Durald e nel montaggio di Michael P. Shawver, I peccatori presenta una ricchezza di tessitura, una costruzione incisiva dei personaggi anche minori e minimi, una capacità di “fissare” gli eventi (vedi l’episodio della ragazzina incaricata di sorvegliare il camion). Il ritmo del film, come la colonna sonora curata da Ludwig Göransson, varia da sognante a violento e incalzante, con una preferenza per quest’ultimo tono.
Tornati nel Mississippi rurale da Chicago, dove si dice abbiano lavorato per Al Capone, i durissimi gemelli Smoke e Stack (Michael B. Jordan in una doppia parte) acquistano un edificio isolato in campagna per aprire un juke joint per neri, un locale dove bere, mangiare, giocare d’azzardo, ballare, ascoltare la musica nera, amoreggiare, e insomma peccare, grande soddisfazione in un mondo in cui la realtà quotidiana è la miseria del lavoro nei campi sterminati di cotone. Per peccare ci vuole il blues, e i gemelli arruolano il loro giovane cugino Sammie (Miles Caton), chitarrista ribelle al padre predicatore, e il vecchio Slim (Delroy Lindo). Ci sono osservazioni molto interessanti sull’economia povera dei neri (i buoni della piantagione al posto dei dollari, le monete di legno). Il film si sofferma sulla cultura magica nera, le pratiche hoodoo, rappresentata da Annie (Wunmi Mosaku), moglie abbandonata di Smoke, nonché, con uno sguardo franco, sulla sessualità. Infatti, all’interno della pagina corale della festa di apertura, vediamo il breve Bildungsroman erotico del giovane Sammie, che farà in tempo ad avere la sua iniziazione sessuale con la cantante Pearline (Jaime Lawson), la bella della festa. Intanto Stack ritrova l’ex fidanzata mulatta Mary (Heilee Steinfeld).
Su tutto questo si stende l’ombra del Ku Klux Klan, ma anticipando la minaccia dei bianchi, a film inoltrato torna in scena l’elemento fantastico. Come annunciato all’inizio, arriva il diavolo, nelle sembianze di tre vampiri di pelle bianca che si avvicinano cantando: il loro leader Remnick (Jack O’Connell), che è irlandese, e due sue vittime. Ciò non comporta una deviazione dalle attese o la sensazione di uno spostamento di genere; anzi, mantiene quell’aspetto di truce leggenda che è insito nell’universo del blues.
I tre bianchi non vengono fatti entrare, con un passaggio di dialogo memorabile: “Mi hanno fatto paura” – “I bianchi di notte fanno questo effetto” – “No; c’era qualcosa di più”. Ma non si allontanano e restano a strimpellare lì vicino. I peccatori si potrebbe quasi definire un musical horror per la compenetrazione del racconto con la musica. La splendida colonna sonora è fondamentale nel film, non in sé o perché accompagna l’azione, ma perché è letteralmente inscritta nell’azione. Anche il testo delle canzoni rispecchia allusivamente la situazione come in un musical. Esempio: quando Mary esce dall’edificio per parlare con i misteriosi tre, questi stanno cantando una delicata melodia che fa “Verrai, fanciulla, verrai?”, e vedendo avvicinarsi Mary la donna del trio intona “Oh l’estate è arrivata”.
La bizzarria dei vampiri musicisti, che cantano in coro con movimenti all’unisono, non è un travestimento. Tutti i personaggi nel film, tanto i neri quanto i vampiri, sono creature musicali (quello che i bianchi del Mississippi non sanno essere, ironizza a un certo punto Slim). Inoltre, poiché tutti i vampiri sono mentalmente connessi fra loro, quando in seguito il leader Remnick canta una ballata irlandese, i vampirizzati, neri che erano venuti alla festa, quasi che anche loro provenissero dall’Irlanda gli fanno coro e ballano con lui.
La narrazione prende come architrave quella caratteristica della tradizione letteraria vampirica che vuole che il vampiro non possa entrare per la prima volta in una casa se non viene invitato. Di conseguenza, mentre i vampiri, divenuti una folla, girano intorno all’edificio (cantando!), il film assume le caratteristiche narrative dell’assedio; e anche a livello visuale rende evidente omaggio a La notte dei morti viventi di George A. Romero. Si potrebbe dire che è la chiusura di un cerchio: La notte dei morti viventi (al pari del precedente L’ultimo uomo della Terra di Sidney Salcow) si ispirava a I Am Legend di Richard Matheson, ma trasformava i vampiri di quel romanzo in morti ambulanti, ben presto chiamati zombi. Ora questo film riporta i vampiri nella situazione.
Anche un altro riferimento cinematografico appare assai chiaro. Quando il gruppo assediato dei sopravvissuti comincia a sospettare che si nasconda tra loro un vampiro, l’esperimento con l’aglio organizzato da Annie ci riporta al classico racconto Who Goes There? di John W. Campbell jr., da cui La cosa da un altro mondo di Hawks/Nyby e più tardi La cosa di John Carpenter.
La situazione orribile e dolorosa del ritorno dei morti che chiedono ai loro congiunti di lasciarli entrare è un topos del genere fin dal romanzo Dracula di Bram Stoker (e dal precedente La Famille du Vourdalak di Alexej Tolstoj), quindi molto visto, ma il film riesce a mantenere il suo effetto inquietante grazie alla tensione del racconto. In questo assedio i vampiri usano tutti i mezzi per farsi invitare dentro, dalle minacce alle lusinghe. Remnick, che proviene da una comunità sottomessa nella sua isola quale quella irlandese, cerca di propone ai neri il vampirismo come un’alleanza fra emarginati e un’utopia di libertà e fraternità. Poiché i vampiri sono connessi telepaticamente e tutti sanno tutto, anche i dettagli più intimi, quello che sa il marito cinese sulle preferenze sessuali di sua moglie lo sa anche Remnick che lo ha vampirizzato, e lo ricorda beffardamente a lei – che è fra gli assediati – parlando in cinese; e poi passa a minacciare di vendicarsi sulla loro figlia rimasta a casa.
Dopo il culmine cataclismico dell’assedio, il film sviluppa la sua conclusione con una serie di apparenti finali logicamente concatenati (di cui uno, non narrativo ma poetico, compare dopo i titoli di coda). In conclusione viene trasmesso quell’elemento nostalgico ed elegiaco che, al di là dell’orrore, ci rendiamo conto che attraversa in filigrana il film. Ed è impossibile non commuoversi su un dettaglio che merita di essere segnalato… come dirlo senza un ennesimo spoiler?… ecco: bisogna fare attenzione al nome del gruppo che suona il blues, sullo sfondo di una di queste scene a fine film.

sabato 17 maggio 2025

Il quadro rubato

Pascal Bonitzer

Ha sempre il suo fascino un film sul ritrovamento di un dipinto, specie se ispirato a una storia vera, come il francese Il quadro rubato di Pascal Bonitzer, importante critico (Cahiers du cinéma) passato da diversi anni alla sceneggiatura e alla regia. Inizia con un quadretto fulminante. Una vecchia cattivissima signora cieca (è l’ultranovantenne Marisa Borini, la madre di Valeria Bruni Tedeschi) vende il suo dipinto più prezioso perché non vuole che lo erediti sua figlia che ha troppi amici neri. Quello che non vede è che la sua governante è nera anche lei.
Questo ci introduce nel mondo del commercio delle opere d’arte. Una modesta famiglia operaia scopre di possedere un tesoro: un famoso dipinto di Egon Schiele che si credeva perduto. I nazisti, che sequestravano gli esempi di “arte degenerata”, lo avevano regalato a un loro collaborazionista, ora morto, dal quale la famiglia ha acquistato (con dentro molte cianfrusaglie) la casa in cui abita.
Non ci si aspetti però una riflessione sul vero e il falso: l’autenticità del dipinto è fuori discussione. Intorno a questo gigantesco affare, ruotano le vite di due antieroi che inizialmente sono ben poco simpatici: André (Alex Lutz), alto dirigente di una casa d’aste, un solitario arrogante che non pensa che al lavoro, in guerra fredda con la sua stagista Aurore (Louise Chevillotte), una bugiarda compulsiva con traumi familiari insuperati (questa a dire la verità resta antipatica per tutto il film, ma è un parere personale). A comporre il trio protagonista, l’unica normale è Bertina, ex moglie di André e tuttora suo deus ex machina in servizio permanente. La interpreta Léa Drucker, la migliore in campo.
Il cinema francese ha una lunga tradizione, ereditata dal teatro, di messa in scena sicura e di elegante svolgimento della vicenda. Anche qui, i dialoghi e i battibecchi, la buona scansione delle entrate e delle uscite, il montaggio competente assicurano uno spettacolo piacevole. Stranamente, il limite sta nella sceneggiatura scritta dagli sperimentati Bonitzer e Iliana Lolic: alcune ingenuità, come una tentata truffa in cui André casca troppo facilmente (infatti poi dice “Avrei dovuto capirlo”, mostrando un accenno di coda di paglia dello sceneggiatore), o forzature, come la scena della rissa dei due giovani operai davanti al quadro, che è il punto peggiore del film. Ma la descrizione del vortice economico che gira intorno ai capolavori avvince, e l’asta finale ha lo stesso slancio di quando, nei film western, “arrivano i nostri”.

sabato 10 maggio 2025

Far East Film Festival 2025 - Filippine, Thailandia, Vietnam, Sudest asiatico


Diamonds in the Sand

La regista filippina di Diamonds in the Sand, Janus Victoria, è stata l’autrice di un documentario sul kodokushi in Giappone: le “morti solitarie” di chi vive recluso, delle quali nessuno si accorge subito. In questo notevole esordio nel lungometraggio, sospeso fra il Giappone e le Filippine (che ha vinto il Gelso per la miglior opera prima), una di queste morti compare sullo sfondo. Il film è focalizzato sul protagonista, ma attraverso la sua esperienza esistenziale mette a contrasto due mondi e due modi di essere, ma nel senso del loro riflesso entro un’anima. Nel ruolo del protagonista è grandioso Lily Franky, eccellente attore giapponese che vediamo più spesso in parti secondarie, per esempio nei film di Kore-eda.
Kimura Yoji, impiegato divorziato di mezza età, è l’incarnazione stessa della solitudine. Il film dà una visione raggelata della vita giapponese, neanche più la lonely crowd di sociologica memoria ma la solitudine individuale assoluta, ognuno nella sua bolla (gustoso l’episodio del film porno sul computer all’inizio). Per paradossale conseguenza, i giapponesi quando sono ubriachi perdono il ritegno, vediamo uno che trascina Yoji al karaoke senza ritegno, è tutto un bere e scocciare.
Di questa solitudine fa parte ed è simbolo, per l’appunto, la morte solitaria di un vicino di casa di Yoji, sulla quale (non sulla morte: sull’accurata pulizia della casa in seguito, a opera di appositi addetti) il film insiste in immagini memorabili per senso drammatico: perché sono significanti, non solo visuali. Poiché il film è altresì una tessitura di immagini ritornanti, queste tracce della morte vengono richiamate con abilità agli occhi di Yoji altre due volte: la prima quando osserva le tracce di sangue dell’amico Toto ucciso dagli usurai (Yoji non aveva voluto prestargli soldi che lo avrebbero salvato) e la seconda, simbolica, quando pulisce distrattamente tracce di sporcizia da un portacenere in una svendita.
La madre anziana di Yoji – quelli tra lei e il figlio sono probabilmente i momenti di maggior risonanza psicologica – si rende conto del dolore silenzioso di lui: “Yoji… sei mai stato felice?” Gli fa promettere di cercare la felicità a ogni costo, dopo la sua morte. Dopo la morte della madre Kimura, che ha fatto amicizia con la badante-amica di lei nella casa di riposo, la filippina Minerva (Maria Isobel Lopez), va a trovarla a Manila. Si immerge così in una realtà totalmente “altra”, dove si svolge la seconda parte del film; alla solitudine giapponese si oppone una chiassosa vitalità collettiva che lo sbalestra non poco; e sì, nasce una relazione con Minerva – ma le cose non sono facili come ci aspetteremmo in un film commerciale.
La regia di Janus Victoria è molto efficace nel replicare sul livello strettamente visuale l’opposizione dei due mondi a livello narrativo: le inquadrature piene, strette, brulicanti di gente e di cose di Manila contro le inquadrature vuote, austere, implicitamente desolate di Tokyo (non per nulla parte del film presenta la distanziazione ai tempi del Covid). In generale il film è memorabile nelle inquadrature. Un dialogo drammatico di separazione fra Yoji e Minerva verso la fine è reso in campo/controcampo con un utilizzo del framingdividendo l’immagine in spazi, “territori”, ostacoli – che è veramente da manuale. È un film di quieta comprensione, che nasce da un’intensità dell’esperienza umana.

Sunshine

Le Filippine sono un paese fortemente cattolico e l’aborto è proibito – il che non vuol dire che non lo si faccia, solo che è segreto e pericoloso. Paradossalmente i “rimedi” abortivi si vendono illegalmente vicino a una delle chiese più famose di Manila.
Sunshine (Maris Racal), protagonista del film di Antoinette Jadaone, è una giovanissima atleta (ginnastica artistica) molto promettente che si allena per i Giochi asiatici e in prospettiva le Olimpiadi. È di famiglia povera e il mondo le crolla addosso quando scopre di essere rimasta incinta. Cerca goffamente (su Internet) istruzioni su cosa fare; vede tutto il suo sogno sportivo, costato dedizione e lunghi allenamenti, a rischio di andare in frantumi, mentre il suo ragazzo, figlio di un pastore protestante, si defila come un vigliacco. Maris Racal fornisce un’interpretazione assai capace e sensibile nei panni di Sunshine – e ha anche dovuto imparare la ginnastica artistica per la parte.
Il film consiste nelle disperate peregrinazioni di Sunshine, che compra un “medicinale” per abortire da una venditrice (notare il dettaglio dei soldi con cui quest’ultima tocca la statuetta sacra, come a purificarli), lo prende in un sudicio albergo e finisce in ospedale con un’emorragia. Scoppiato lo scandalo in famiglia, il ragazzo si presenta accompagnato dal padre che con aria santimoniosa promette a Sunshine che sosterrà economicamente il bambino – ma Sunshine, spalleggiata dalla sorella, manda al diavolo i due. La conclusione positiva è parzialmente aperta, o meglio implicita.
Un aspetto molto originale del film è la capacità di tenere in compresenza due aspetti: da un lato un realismo pressoché naturalistico (il mercato delle pratiche abortive, il losco albergo a ore, l’ospedale sovrappopolato, i bassifondi miserabili), dall’altro un elemento fantastico e allucinatorio, rappresentato da una terribile bambina verbalmente aggressiva e sboccata che appare da tutte le parti per rimproverare Sunshine e ha una conoscenza preternaturale di tutto. Di solito un simile doppio registro sarebbe stridente, ma Antoinette Jadaone lo domina con indubbia abilità.

Death Whisperer 2

Il thailandese Death Whisperer (2023) di Taweewat Wantha parlava di una famiglia con sei figli perseguitata da uno spirito maligno potentissimo che vuole possedere la sorella di mezzo, Yam. Il film descriveva bene la progressiva disintegrazione della tranquillità familiare, anche mettendo in evidenza le tensioni latenti in famiglia (lo stupido padre autoritario, il fratello di mezzo ostile al primo, che è un soldato di ritorno a casa). Yak, l’ex soldato, sconfiggeva questo spirito femminile vestito di nero, ma non salvava la sorella.
La storia continua in Death Whisperer 2, dello stesso regista. Bisogna stare attenti ai sequel, spesso non fanno che nuocere al film originale, ma questo è buono come il primo. La prosecuzione della storia ha una sua consistenza logica e il film non ripete pedissequamente il primo film, tutt’altro (ha anche cura di ambientare il climax fuori dall’area del primo film, giusto per cambiare la cornice).
Concetto base: Yak non ha perdonato la morte della sorella Yam uccisa dal ghost femmina del primo film, e le dà la faccia da tre anni. Come atteggiamento vendicativo ricorda l’Ash della trilogia Evil Dead di Sam Raimi; da notare che in generale Raimi influenza fortemente i due Death Whisperer, anche in alcuni tocchi di horror/humour (e anzi, di viso l’attore Nadech Kugimiya assomiglia vagamente a Bruce Campbell).
Una traccia fornita da un indemoniato (qui la ricerca soprannaturale si incrocia col noir!) porta Yak in una foresta ultra-infestata, assieme a un gruppo di compagni. In questo secondo atto assistiamo a una vera spedizione che mischia l’horror e il film d’avventura (anche questo è raimiano). Nel terzo atto, il ghost, ritornato alla potenza originaria, attacca la famiglia in un hotel dove si dovrebbero celebrare le nozze della sorella Yad. Non manca il consueto e crudele attacco del mostro alla bambina terrorizzata, Yee (la piccola Nina Jessica Padoan). In questa parte, va detto, il film si permette un tocco kubrickiano un po’ eccessivo (la madre posseduta col piccone).
Il film è diretto con mano sicura ed è decisamente piacevole. Ottima la parte nella foresta e anche la realizzazione del mostro. Anche se è utile aver visto il primo film, i riferimenti interni sono più che sufficienti per seguire, e la ricomparsa finale della vittima del primo film, Yam, è un tocco indovinato.

The Stone

Il cinema thailandese è, spesso se non sempre, un cinema dell’eccesso, che si butta a capofitto nelle sue storie – nel bene e nel male. È nel bene con il piacevole The Stone, opera prima di due registi esordienti, Arak Amornsupasiri, attore e musicista, e Vuthipong Sukhanindr, graphic designer e autore di spot. Appunto, The Stone non si pone limiti, con una narrazione frenetica, non priva di assurdità deliranti, piena di rovesciamenti e sorprese al di là della normale amministrazione della narrativa thriller.
Il film ci porta dentro una specialità thailandese che è il commercio degli amuleti (avviene nelle stesse forme e con la stessa cupidigia che, da noi, quello delle monete o dei francobolli, con mercanti in concorrenza e gigantesche fiere), alla quale introduce con intelligenza lo spettatore tramite tocchi veloci, didattico senza sembrarlo. Con una maglietta che profeticamente porta la scritta Son of Danger, il giovane Ake si aggira spaesato in questo mondo nuovo per lui. Deve vendere un amuleto appartenuto al padre che è molto prezioso, posto che non sia un falso. Come il protagonista cinese di Green Wave con la sua ciotola, ma le analogie finiscono qui. Il mercato degli amuleti è un mondo di lupi, dove la pistola ha diritto di cittadinanza al pari del monocolo da orologiaio; ed è una fortuna per Ake incontrare la giovane e simpatica esperta Muay.
Da notare la lunghissima parte finale che si svolge tutta in uno stesso locale in termo reale, ed è appassionante. Qui si ha il più beffardo rovesciamento delle attese. Mi spiego, ma – sia avvertito chi legge! – è uno spoiler radicale. Mentre è ordinario nei film lo schema dialettico “ragazzo smarrito incontra ragazza che lo aiuta – lo sviluppo fa sì che lui dubiti di lei e la respinga – lei alla fine si rivela una vera alleata”, qui il terzo stadio si rivela un wishful thinking, non del protagonista ma dello spettatore – il film gabba anche noi.

Betting with Ghost

Il film di Nguyen Nhat Trung – che si potrebbe definire una commedia sentimentale con fantasma – conferma l’impressione che il cinema vietnamita si avvalga, come quello cinese, di una fotografia raffinata ma non sperimentale come in molti film coreani, bensì popular, si potrebbe dire di gusto hollywoodiano, con un montaggio molto professionale. Segnalo la bellezza di un’inquadratura con due personaggi seduti, dove la fine scena è come “rappresentata” da una donna in bicicletta che traversa l’inquadratura stessa, al centro, come affondando e tagliandola, e scompare dentro un edificio.
Il film inizia come commedia, addirittura in modi (rubo una giustissima osservazione a Sabrina Baracetti) da commedia hongkonghese – e poi si trasforma in un film commovente, dove la commedia resta come sottotraccia amara. Questo spostamento, di audacia molto asiatica, può ricordare quello del cinese Deep in the Mountains di Li Yongyi; però devo aggiungere che mentre in quel film il cambio di tono lasciava un certo sbalestramento, un senso di contraddizione, qui il trapasso è veloce ma fluido e non lascia stupore – a patto naturalmente di essere consci che il cinema orientale ama mescolare le risate e le lacrime molto più del nostro.
Lanh è il figlio scansafatiche del vedovo Dao, che si ammazza di lavoro, mentre invece Lanh dice di andare a lavorare ma va a scommettere ai combattimenti di galli. Causa un incidente (inseguito dalla gang di un creditore, casca dentro una fossa nel cimitero), Lanh comincia a vedere il fantasma di una giovane donna, Na, la quale gli chiede di aiutarla a ritrovare la figlia: lei è morta di parto 25 anni prima. Se Lanh non lo fa, sarà haunted per tutta la vita; se lo fa, Na lo aiuterà coi suoi mezzi di spettro a guadagnare soldi (esilarante la scena della rissa di Na con altri fantasmi a proposito del lotto). Però, per una specie di contrappasso (“le leggi dei morti”) i guadagni di Lanh comporteranno proporzionalmente un danno fisico a suo padre, quindi meglio che non sia avido. Nello sviluppo, tuttavia, il film rovescia in modo sorprendente molte premesse accettate dallo spettatore, specie quelle su Lanh: la nostra percezione del personaggio viene ricombinata.
Il trio attoriale è eccellente, con Diep Bao Ngoc che è la ragazza fantasma, Tuan Tran (Lanh) che sembra banale all’inizio e invece tira fuori profondità durante lo sviluppo, e Nsut Hoai Linh (il padre), un attore veterano molto famoso in Vietnam, che in effetti è eccezionale in un ruolo tragicomico e dolceamaro, un po’ alla Michael Hui. Va poi menzionata anche Le Giang come Miss Sau, oggetto di pudico amore da parte del padre.

Next Stop, Somewhere

Next Stop, Somewhere di James Lee, co-firmato da Jeremiah Foo, è una produzione malaysiana ma si potrebbe considerare malaysiano-taiwanese: si svolge interamente a Taipei una delle sue due storie, interlineate a grossi blocchi e collegate da solo rimandi capricciosi e simbolici (la banconota). Questa storia racconta dell’attore Huang (Anthony Wong, con capelli e sopracciglia tinti di nero) che è bloccato in un albergo a Taipei dalla quarantena, al tempo del Covid, col problema di denaro da trasferire da Hong Kong che non arriva. Non è detto esplicitamente ma non è difficile pensare che sia fuggito da Hong Kong per motivi politici. La sua storia si incrocia con quella di Qian (Angel Lee), una cameriera dello stesso albergo che vive la fine di una relazione lesbica con una donna psichicamente fragile e autolesionista, e quindi ricattatoria.
La seconda storia si svolge in Malaysia. Parla di una ragazza vietnamita, Kim (Kendra Sow), “comprata” come moglie dal ricco cinese malaysiano Leong (Mike Chuah) più vecchio di lei. Arrivata in Malaysia Kim scopre che ricco non lo è poi tanto. Leong però, più che un imbroglione sbavante, è a sua volta una vittima, vessato da una terribile madre che vuole un erede per la famiglia e per questo l’ha costretto a sposarsi; e ora s’intromette nella vita sessuale dei due con trovate tragicomiche, ignorando che Huang non osa imporsi alla moglie disgustata. Straniera in terra straniera, tormentata dalla suocera, Kim si trova nella peggiore delle situazioni.
Il concetto del film – chiarisce anche una citazione finale di Benjamin Franklin – è la ricerca della libertà, che non bisogna scambiare con una sicurezza temporanea. Next Stop, Somewhere ha le caratteristiche del film d’arte – l’uso di lunghi silenzi, il soffermarsi sull’immediato e sul gesto minimo, il tempo reale (che al cinema diventa tempo prolungato) ed è bello, anzi molto bello, per quanto un po’ lontano dalle linee tradizionali del FEFF.

Mad of Madness

Questo horror di livello discreto, sebbene non trascendentale, diretto da Eden Junjung ha tra l’altro l’originalità di svolgersi principalmente in una cava di sabbia e pietrisco fra le montagne – non i soliti edifici in mezzo alla giungla – ed ha altresì un forte contenuto politico-sociale.
In questa cava, alla sera i lavoranti si affrettano ad andarsene perché “vengono fuori i demoni”. Pare che ci sia, relativamente vicino, una miniera segreta di diamanti. Un uomo che è entrato in possesso di un diamante va a cercarla di notte, e fa una brutta fine, non per mano del mostro (che beninteso c’è) ma del suo amico venuto con lui, il quale lo ammazza e gli ruba il diamante. La vedova con bambino di quest’uomo (una buona attrice, di nome Raihaanun) si mette alla sua ricerca, facendosi assumere come lavorante alla cava – anche perché il marito appare come fantasma. Si crea un autentico dramma fra poveri, che coinvolge l’assassino. Intanto vediamo che in segreto, nella miniera a cielo aperto, le forze paramilitari del perfido Broto, proprietario della cava, tormentano in ogni modo dei prigionieri per fargli cercare i diamanti.
Le due linee naturalmente si fondono, fino a un climax bizzarro fino ad essere stupefacente (sul quale, a malincuore, non posso fare spoiler), che porta in primo piano l’aspetto soprannaturale, un po’ underplayed in alcuni momenti di questo dramma sociale di poverissimi oppressi da cattivissimi (ed è un vero piacere, nel finale, vedergli mordere la polvere – in tutti i sensi).