Ryan Coogler
Potrebbe
essere il miglior film di vampiri degli ultimi anni, originale e
insieme classico, I peccatori (Sinners), scritto e diretto da Ryan
Coogler (attenzione: questa recensione contiene importanti spoiler). La vita e la condizione dei neri americani si sono rivelate singolarmente adatte per la carica metaforica del fantastico: basta ricordare l’importante
nome di Jordan Peele. I peccatori realizza un affresco vivace
e affollato del mondo dei neri del Sud degli Stati Uniti fra le due
guerre (siamo in Mississippi nel 1932), richiamando sia la grande
corrente della letteratura nera americana – a partire da Richard
Wright – sia film come Il colore viola di Steven Spielberg e, ancor
più, Mississippi Adventure di Walter Hill: che introduceva nella
storia di un musicista blues il tema diabolico (e il blues era “la
musica del diavolo”, come tuonavano i predicatori). Prima del
realismo della parte iniziale, già in apertura il film introduce
l’elemento soprannaturale con un discorso sulle proprietà magiche
della musica folklorica e popolare in tutto il mondo, sia in senso
positivo sia in senso negativo (attira i demoni).
Eccellente
anche nella fotografia di Autumn Durald e nel montaggio di Michael P.
Shawver, I peccatori presenta una ricchezza di tessitura, una
costruzione incisiva dei personaggi anche minori e minimi, una
capacità di “fissare” gli eventi (vedi l’episodio della
ragazzina incaricata di sorvegliare il camion). Il ritmo del film,
come la colonna sonora curata da Ludwig Göransson, varia da sognante
a violento e incalzante, con una preferenza per quest’ultimo tono.
Tornati
nel Mississippi rurale da Chicago, dove si dice abbiano lavorato
per Al Capone, i durissimi gemelli Smoke e Stack (Michael B. Jordan
in una doppia parte) acquistano un edificio isolato in campagna per
aprire un juke joint per neri, un locale dove bere, mangiare, giocare
d’azzardo, ballare, ascoltare la musica nera, amoreggiare, e
insomma peccare, grande soddisfazione in un mondo in cui la realtà
quotidiana è la miseria del lavoro nei campi sterminati di cotone.
Per peccare ci vuole il blues, e i gemelli arruolano il loro giovane
cugino Sammie (Miles Caton), chitarrista ribelle al padre
predicatore, e il vecchio Slim (Delroy Lindo). Ci sono osservazioni
molto interessanti sull’economia povera dei neri (i buoni della
piantagione al posto dei dollari, le monete di legno). Il film si
sofferma sulla cultura magica nera, le pratiche hoodoo, rappresentata
da Annie (Wunmi Mosaku), moglie abbandonata di Smoke, nonché, con
uno sguardo franco, sulla sessualità. Infatti, all’interno della
pagina corale della festa di apertura, vediamo il breve
Bildungsroman erotico del giovane Sammie, che farà in tempo ad
avere la sua iniziazione sessuale con la cantante Pearline (Jaime
Lawson), la bella della festa. Intanto Stack ritrova l’ex fidanzata
mulatta Mary (Heilee Steinfeld).
Su
tutto questo si stende l’ombra del Ku Klux Klan, ma anticipando la
minaccia dei bianchi, a film inoltrato torna in scena l’elemento
fantastico. Come annunciato all’inizio, arriva il diavolo, nelle
sembianze di tre vampiri di pelle bianca che si avvicinano cantando:
il loro leader Remnick (Jack O’Connell), che è irlandese, e due
sue vittime. Ciò non comporta una deviazione dalle attese o la
sensazione di uno spostamento di genere; anzi, mantiene quell’aspetto
di truce leggenda che è insito nell’universo del blues.
I
tre bianchi non vengono fatti entrare, con un passaggio di dialogo
memorabile: “Mi hanno fatto paura” – “I bianchi di notte
fanno questo effetto” – “No; c’era qualcosa di
più”. Ma non si allontanano e restano a strimpellare lì vicino. I
peccatori si potrebbe quasi definire un musical horror per la
compenetrazione del racconto con la musica. La splendida colonna
sonora è fondamentale nel film, non in sé o perché accompagna
l’azione, ma perché è letteralmente inscritta nell’azione.
Anche il testo delle canzoni rispecchia allusivamente la situazione
come in un musical. Esempio: quando Mary esce dall’edificio per
parlare con i misteriosi tre, questi stanno cantando una delicata
melodia che fa “Verrai, fanciulla, verrai?”, e vedendo
avvicinarsi Mary la donna del trio intona “Oh l’estate è
arrivata”.
La
bizzarria dei vampiri musicisti, che
cantano in coro con movimenti all’unisono, non
è un travestimento. Tutti i personaggi nel film, tanto i neri
quanto i vampiri, sono creature musicali (quello che i bianchi del
Mississippi non sanno essere, ironizza a un certo punto Slim).
Inoltre, poiché tutti i vampiri sono mentalmente connessi fra loro,
quando in seguito il leader Remnick canta una ballata irlandese, i
vampirizzati, neri che erano venuti alla festa, quasi che anche loro
provenissero dall’Irlanda gli fanno coro e ballano con lui.
La
narrazione prende come architrave quella
caratteristica della
tradizione letteraria vampirica che vuole che il vampiro non possa
entrare per la prima volta in una casa se non viene invitato. Di
conseguenza, mentre i
vampiri, divenuti una folla, girano
intorno all’edificio (cantando!), il film assume le caratteristiche
narrative dell’assedio; e anche a livello visuale rende evidente
omaggio a La notte dei morti viventi di George A. Romero. Si
potrebbe dire che è la chiusura di un cerchio: La notte dei morti
viventi (al pari del precedente L’ultimo uomo della Terra di Sidney
Salcow) si ispirava a I Am Legend di Richard Matheson, ma trasformava
i vampiri di quel romanzo in morti ambulanti,
ben presto chiamati zombi. Ora questo film riporta i vampiri nella
situazione.
Anche
un altro riferimento cinematografico
appare assai chiaro. Quando
il gruppo assediato dei
sopravvissuti comincia a
sospettare che si nasconda tra loro un vampiro, l’esperimento con
l’aglio organizzato da Annie ci riporta al classico racconto Who
Goes There? di
John W. Campbell jr., da cui La cosa da un altro mondo di Hawks/Nyby
e più tardi La cosa di John
Carpenter.
La
situazione orribile e dolorosa del ritorno dei morti che chiedono ai
loro congiunti di lasciarli entrare è un topos del genere fin dal
romanzo Dracula di Bram Stoker (e dal precedente La Famille du Vourdalak di
Alexej Tolstoj), quindi molto visto, ma il film riesce a mantenere
il suo effetto inquietante grazie alla tensione del racconto. In
questo assedio i vampiri usano tutti i mezzi per farsi invitare
dentro, dalle minacce alle lusinghe. Remnick, che proviene da una
comunità sottomessa nella sua isola quale quella irlandese, cerca di
propone ai neri il vampirismo come un’alleanza fra emarginati e
un’utopia di libertà e fraternità. Poiché i vampiri sono
connessi telepaticamente e tutti sanno tutto, anche i dettagli più
intimi, quello che sa il marito cinese sulle preferenze sessuali di
sua moglie lo sa anche Remnick che lo ha vampirizzato, e lo ricorda
beffardamente a lei – che è fra gli assediati – parlando in
cinese; e poi passa a minacciare di vendicarsi sulla loro figlia
rimasta a casa.
Dopo
il culmine cataclismico dell’assedio, il film sviluppa la sua
conclusione con una serie di apparenti finali logicamente concatenati
(di cui uno, non narrativo ma poetico, compare dopo i titoli
di coda). In conclusione viene trasmesso quell’elemento nostalgico
ed elegiaco che, al di là dell’orrore, ci rendiamo conto che
attraversa in filigrana il film. Ed è impossibile non commuoversi su
un dettaglio che merita di essere segnalato… come dirlo senza un
ennesimo spoiler?… ecco: bisogna fare attenzione al nome del gruppo
che suona il blues, sullo sfondo di una di queste scene a fine film.
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