Una
volta i padri parlavano ai figli – trasmettevano nella memoria le
loro parole. Forse ancora oggi, chi sa. Non tutti. Fredo Valla è un
documentarista, sceneggiatore, regista (e varie altre cose, nel corso
di una lunga vita: è del 1948). Con Le parole del padre. Scritti, geografie e memorie (Aragno
2025, pp. 294, Euro 25), non scrive né un’autobiografia né un
manuale di istruzioni morali: niente di pomposo e “ciceroniano”.
Raccoglie una serie di suoi scritti sparsi, alcuni pubblicati su
giornali e piccole riviste, altri inediti; direttamente e con
modestia parla di sé e della propria avventura di vita e
d’intelletto. Fa emergere un quadro a piccoli tocchi discreti:
anche se parla di sé non è mai invasivo: da buon documentarista, fa
sì che l’“io” tende a inverarsi nello sguardo. Si sarebbe
potuto usare l’aggettivo “umile”, prima che questa parola
diventasse di moda in ore stultorum.
Leggo
nella bella prefazione di Luca Margaria “Quanti e quali incontri ci
hanno plasmati e attraverso di essi ci siamo formati e costruiti?
(…) Voluti o subiti, desiderati, ricercati, o semplicemente
successi”. Questo mi fa venire in mente una pagina molto saggia di
Jean Renoir (da Ma vie et mes films): “È il nostro orgoglio che ci
fa credere all’individuo-re. La verità è che questo individuo di
cui siamo così fieri è composto di elementi come un piccolo amico
conosciuto alla scuola materna o il protagonista del primo romanzo
che abbiamo letto, o perfino il cane da caccia del cugino Eugenio.
Noi non esistiamo di per sé ma per gli elementi da cui siamo stati
circondati nella nostra formazione”. C’è un po’ di enfasi
positivista (perché fermarsi alla prima formazione?), e del resto un
genio come Renoir sapeva bene che anche quello che facciamo ci
trasforma; homo faber; nondimeno, ha ragione da vendere. Contro ogni
idealismo, noi veniamo formati da influenze esterne.
Le
parole del padre è una raccolta di scritti dove si può ritrovare
tutto quanto – persone, viaggi, progetti, delusioni – ha
modellato Fredo Valla. Lui viene fuori tutt’intero da queste
pagine, e il fatto di non nascondere il loro carattere occasionale
(non sono state riscritte o rifuse) non fa che rinforzare l’effetto.
Accanto ai temi che uno si attende – quali l’amata Occitania (e
l’occitano), il padre e la famiglia, la montagna, i suoi autori, i
suoi maestri, o il rapporto col sodale Giorgio Diritti (“Dedizione:
è la parola chiave di Giorgio per ogni suo progetto di film. È ciò
che lui chiede ai suoi collaboratori. Sceneggiare per e con lui, è
un’esperienza totalizzante”), e quello, meno lineare, con Ermanno
Olmi – troviamo sorprese come il taccuino di un viaggio in
Amazzonia, pieno di osservazioni interessanti (occhi aperti e niente
retorica) e particolari vividi: gli italiani d’Amazzonia; le
giovani donne; il vescovo sboccato; i miti; la festa rituale del Boi
Bumbà, una delle tante resurrezioni di animali benefici del mondo;
il rito di passaggio della Tucandera (riflessione assolutamente in
margine: nella realtà fisica noi non ci castreremmo a capriccio,
“per allegria” – nella realtà culturale sì. Quanto male, ma
quanto male, ci siamo fatti come popolo, insieme di generazioni,
quando abbiamo abolito nel nostro mondo i riti di passaggio?).
È
interessantissima la genesi nella vita reale della storia de Il vento
fa il suo giro: il tentativo di far rivivere un paese alpino in
decadenza che si infrange contro l’ostilità della gente locale –
o almeno dei peggiori di loro (grande l’annotazione “È vero che
le donne di Ostana sono di una perfidia spettacolare”), ma
vincitori. Uno stesso carattere antiretorico si ritrova anche in
Nadinot – Lettera a un amico, un soggetto non realizzato (“mai
abbandonato veramente” dice Valla), o, altro progetto non
realizzato, ne Il mezzo prete, un film tra documentario e finzione
che dà dell’omosessuale (“due gay di montagna”) una visione
diversa dal modello lacrimoso-arcadico di moda.
Naturalmente
non manca nel libro il progetto per il film su Ligabue, poi
realizzato (Volevo nascondermi) con la sceneggiatura di Valla e la
regia di Giorgio Diritti. “Mi piace pensarlo come un fossile, un
relitto dei giorni che furono all’inizio del genere umano (…)
Come bestia Ligabue annusa l’aria. Come belva mostra i denti, gli
artigli davanti alla tela, e l’azzanna. Ligabue si masturba.
Toccarsi è godere. Impasta i colori con le mani…”. Sarebbe
interessante (un bell’argomento per una tesi di laurea) fare uno
studio sul rapporto tra questo primo abbozzo e il film.
C’è
altresì un progetto su Hans Clemer, artista innovatore del secolo
XVI, stabilitosi a Saluzzo, “grande artista ignoto per secoli”.
Dovrebbe dipanarsi secondo due linee, una più classica con il
narratore, una in cui “episodi e avvenimenti e opere della vita del
pittore diventano visioni che si mostrano sullo schermo”. Chissà
se riusciremo a vederlo?
Una
sezione è dedicata a quello che, almeno oggi, è il film più noto
di Fredo Valla, il bellissimo documentario di oltre tre ore (ma
passano in un attimo!) sul catarismo Bogre – La grande eresia
europea. Valla riflette sul film e ne rievoca l’origine, con la
scoperta dei Bogomili in Bulgaria che, racconta, dalla conoscenza dei
Catari in Occitania si dilatò a uno spazio vastissimo, sia
geografico sia ideale.
Forse
soprattutto – mi perdoni il lettore questo tuffo nella soggettività
– ho amato di questo libro le Pagine sparse, che fanno l’effetto
di fogli volanti portati dal vento. E allora, il bellissimo Soffiare
sul fuoco che parla dei “cicli del tempo degli uomini” e si situa
su quello scivoloso crinale tra passato e presente/futuro che Valla
sente come una pressante sfida esistenziale. La sfida fra passatismo
conservatore, inevitabilmente “antiquario”, e fiducia nella forza
della tradizione vivente, della lingua e della cultura locale, in
senso democratico. Valla esprime il suo esserci con la necessità di
continuare a “soffiare” – che se non vado errato è parente
stretta del “dire la propria messa ogni giorno” di un film che
amo molto, il bergmaniano Luci d’inverno.
O
il magico Storie del Po, che segue il fiume ed è, nelle sue quattro
pagine, un documentario di Fredo Valla su carta. Dettagli memorabili
come la lista dei toponimi di origine animale (uno vorrebbe vederli,
la roca di ciat, la rocca dei gatti, la funtana dla vurp, la fontana
della volpe, il pra da lu, il prato del lupo), oppure le storie
fantastiche di gatti e di masche (la disavventura che toccò alla
Masca del Po, che rubava i gatti morti). C’è sempre nel realismo
di Valla un côté fantastico e notturno.
E
poi, l’incontro di rito e storia, di festa pagana e sovrascrittura
cristiana, nelle feste delle valli, le Baie, in Rito e storia. In
Valla (“smarrito nella modernità”, dice di sé in un punto)
prende una dimensione urgente la dimensione locale: la lingua, le
abitudini, la memoria, in lotta contro la marcia del tempo che
appiattisce.
domenica 15 giugno 2025
Fredo Valla - Le parole del padre
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1 commento:
Grazie Giorgio per queste belle pagine dedicate a Le parole del padre
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