venerdì 21 marzo 2008

Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street

Tim Burton

Ferocemente colpito negli affetti dal giudice Turpin, Sweeney Todd canta al cielo il suo inno di vendetta nel magnifico film musicale di Tim Burton. Un mostro vendicativo che si scaglia contro tutto il mondo. Ed è interessante la somiglianza fra lui e il giudice (il grande Alan Rickman) quando entrambi sostengono in modo identico che tutti gli uomini meritano di morire… “anche me e te”.
In “Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street” Burton materializza un vecchio topos orrorifico: la casa cannibale, la casa-corpo: la stanza del barbiere che sgozza i suoi clienti è il testa/cervello (le grandi vetrate sono occhi aperti sul triste cielo londinese); attraverso un condotto il cadavere arriva alla cantina dove il processo di triturazione che espelle la materia organica in disgustosi festoni non può non richiamare la defecazione. Poi questa materia espulsa viene rimessa in circolo, dentro i pasticci di carne, e assimilata nel locale-stomaco: un’anatomia innaturale e impazzita, e proprio per questo burtoniana, nel cui mondo le parti del corpo sono interscambiabili.
Del resto, è centrale in Burton il concetto di trespassing, la violazione e il rovesciamento di spazi e confini. La dichiara già in apertura la computer graphics, che ci dice subito tutto sul film, nel viaggio di un occhio inarrestabile, avvolgendolo in una magnifica trasmutazione degli elementi, da aria a fuoco ad acqua a nebbia - e su tutto goccia il sangue.

Bisogna ricordare che l’immaginario di Burton, cresciuto guardando film in tv, si fonda in larga parte sui film del terrore. Ciò costella di reminiscenze il film. La festa mascherata in cui Lucy viene violata coram populo è un luogo comune del cinema, ma Burton ricorderà in primo luogo il Dr. Phibes del “suo” Vincent Price. L’assalto dei pazzi al direttore del manicomio fa pensare a “Bedlam” con Boris Karloff. E al di là dello “Sweeney Todd” del 1936, l’enfasi del film su sgozzamenti vittoriani non ricorda il capolavoro della Hammer “Frankenstein and the Monster from Hell”? Ora, posto che per Burton il mito base è quello di Frankenstein, potrebbe non essere ozioso avvicinare la ciocca bianca nella capigliatura di Sweeney Todd - segno permanente di dolore e di lutto - a quelle che striano i capelli di Elsa Lanchester in “Wife of Frankenstein” (1935): in fondo ambo i film parlano di due mostri uno dei quali respinge l’amore dell’altro. Sweeney Todd è una creatura perfettamente frankensteiniana. Il tableau fondante del film (in Burton il punto di partenza è sempre un’idea grafica) si ha quando Sweeney Todd alza il braccio con in mano il rasoio ritrovato e urla: “Finalmente il mio braccio è di nuovo intero!” Il rasoio non è arma, strumento, oggetto: è prolungamento del braccio stesso. Sweeney Todd come replica omicida di Edward Scissorhands.

Concretizzati da un’interpretazione smisurata e sublime di Johnny Depp e Helena Bonham Carter, Sweeney Todd e Mrs Lovett sono i classici mostri malinconici burtoniani, morti viventi, figure meccaniche, bambole di cera (l’apparizione ingiallita e rovinata della bambola che avevamo visto rosea e integra nel flashback iniziale - non senza una piccola confusione fra lei e la bambina, quasi a rimarcare l’equiparazione burtoniana fra umani e simulacri - sottolinea la somiglianza). Da bambola meccanica è il modo di muoversi di Mrs Lovett in tutto il film; e guardate la scena (immaginaria) del matrimonio, quando il prete dice a Sweeney Todd di baciare la sposa: come si baciano accostando appena le labbra in modo burattinesco: due giocattoli a molla.
Sono mostri, sono bambini. Quando salta fuori la verità sul suicidio di Lucy Mrs Lovett dichiara che non ha mentito ma ha detto solo mezza verità: un concetto di vero e falso prettamente infantile. La “stoltezza” di cui si autoaccusa Sweeney Todd ripensando al passato non è che l’incapacità del bambino di capire il mondo adulto (e difendersene): una dominante di tutta l’opera di Tim Burton, trascritta attraverso l’identificazione autobiografica col volto/corpo di Johnny Depp. Infantilismo e regressione sono le costanti del cinema di Burton. Pure la lurida bottega di pasticci di carne di Mrs Lovett, con gli scarafaggi che scorrazzano e vengono schiacciati a colpi di matterello, ha una necessità diegetica e scenografica, ma rientra anche in quel genere di umorismo gross, infantile-adolescenziale, che si trova in Burton, e di cui è re il personaggio di Beetlejuice.

Rientra in questo quadro un’altra ossessione burtoniana: la perdita della madre e il padre cattivo (anche perché rivale edipico: un aspetto qui illustrato dal piccolo Toby), ma anche il tradimento della madre che si allea col padre contro il figlio - magari piangendo, come Mrs Lovett nel film. Il che ci porta al tema dell’(anti)erotismo. In Burton la sessualità appare sempre come paura e minaccia, legata a personaggi adulti e negativi. Nel film, un quadro erotico cela il buco attraverso cui il giudice spia Johanna, come in “Psycho”; ed essendo il suo tutore, dunque padre putativo, il giudice è figura del padre come incestuoso aggressore sessuale. Quel quadro e le copie di affreschi pompeiani in salotto sono gli unici tocchi di eros visivo, sempre connessi al giudice erotomane, che colleziona volumi sulla prostituzione nel mondo. Il solo altro elemento allusivamente erotico, l’enfasi sui seni non solo di Mrs Lovett ma anche di Johanna, rappresenta una sessualità adolescenziale e fondamentalmente pre-genitale: il concetto visivo della pin-up.
I mostri burtoniani non possono sposarsi (“Sempre la damigella, mai la sposa”, la beffa il villain de “La sposa cadavere”): sia perché sono consegnati a una disperata solitudine, sia perché il passaggio alla sessualità li introdurrebbe nel campo del mutamento, al quale sono alieni. Nulla mostra questo punto meglio del sogno a occhi aperti di Mrs Lovett su una vita coniugale futura in riva al mare. In questa superba sequenza, all’interno dell’incongruità da Famiglia Addams di loro due in costume da bagno con le facce ceree e le occhiaie nere, ve n’è una di secondo grado: l’accigliato distacco catatonico e sonnambulistico di Sweeney Todd, monomaniaco dell’omicidio, perso nella propria malinconia. Per Sweeney Todd e Mrs Lovett, piaccia o no a quest’ultima, la sessualità appartiene a un tempo “umano” passato (nel caso di Mrs Lovett poi è alquanto questionabile, visto quel che racconta del grasso marito Albert). Quando il barbiere assassino uccide senza saperlo la moglie Lucy, uccide il proprio passato e la propria sessualità genitale (aveva avuto una figlia); la botola della casa cannibale è anche l’eliminazione del passato in un processo di espulsione.

Catalogo di ossessioni e vera enciclopedia burtoniana, il musical ruota su una tragica discrasia fra il valore denotativo delle canzoni e il loro contesto visivo e narrativo. Splendidi sgozzamenti iperrealisti ritmano una canzone dove non solo la banda visuale ma anche l’orchestrazione fanno a pugni con la tenerezza delle parole. Già il duetto dei rasoi denunciava un’ambiguità (Sweeney Todd canta il suo canto d’amore ai rasoi mentre con le stesse parole Mrs Lovett lo canta a lui). E v’è un cinismo disperato, quando Mrs Lovett cerca Toby nelle fogne per ucciderlo, nella sua ripresa della dolce canzone (“Niente può farti del male finché ci sono io”) che cantavano in duetto. Ma il capolavoro sono i multipli strati di significato del duetto della bellissima “Pretty Women”, cantata da Sweeney Todd e dal giudice. Il testo è, al pari della musica, languido, poetico, evocativo; lo contraddice la circostanza che lo cantino il giudice come semidelirio erotico e Sweeney Todd come gioco del gatto e del topo; ma non basta: perché lì, durante la canzone, sul volto del giudice, invecchiato, quasi indifeso, balugina imprevista una sorta di innocenza o nostalgia.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Mi trovo assolutamente daccordo sulla critica. Secondo me Tim Burton ci tieni particolarmente ha risaltare una parte buona e una negativa in uno stesso mondo utilizzando la diversità dei colori. Ed è come se la felicità (talvolta relativa come in Sweeney Todd quando lui,Mrs Lovett, e il bambino creano una sottospecie di famiglia) che viene tolta hai protagonisti venga tolta anche al resto del mondo del film. Ciò che mancava negl'altri film erano le grida, la voce. In questo tramite le canzoni è riuscito a far esprimere meglio al pubblico la rabbia, il dolore, la vendetta. Il tema principale è appunto la vendetta...Però secondo me alla fine non è più una vendetta per sentirsi meglio, bensì diventa un vero e proprio scopo di vita, anzi l'unica cosa che lo spinge a continuare vivere in un modo degenerato è proprio la vendetta. Ciò lo dimostra il fatto che non cerchi altro, che tutto giri attorno a quello. La possibilità di ricostruire una famiglia viene schivata, come se tutto ciò di cui avesse bisogno lo potesse trovare solo ed esclusivamente nella vendetta. Sweeney Todd viene rappresentato come un folle che avendo perso tutto non vuole tentare di legarsi alle persone, la vuole solo vederle morire. Ma alla fine in tutta questa follia, dimostra un lato umano quando disperato si accorge d'aver ucciso la moglie che credeva morta. Un finale sicuramente alla Tim Burton, in cui non c'è mai un lieto fine.

Eugenia Lui.
(gentilmente potrei avere il suo indirizzo di posta prof? Grazie, cari saluti)