sabato 29 marzo 2008

Onora il padre e la madre

Sidney Lumet

“Quando cerchi di controllare ogni cosa, va a finire che ogni cosa controlla te”. Lo dice Sidney Lumet nel suo libro “Making Movies” a proposito di alcuni suoi film - e si applica molto bene ai due fratelli protagonisti del suo nuovo film, “Onora il padre e la madre” (“Before the Devil Knows You’re Dead”: da un brindisi irlandese che augura di passare 40 anni in cielo “prima che il diavolo sappia che sei morto”).
I fratelli Andy e Hank, entrambi in una disastrosa situazione finanziaria, hanno la classica idea da dritti: rapinare la piccola gioielleria di proprietà dei genitori, senza far male a nessuno; l’anziana commessa si prenderà solo uno spavento, l’assicurazione rifonderà i due vecchi, mentre loro due avranno il bottino. Un piano così perfetto, come può andare male? E infatti finisce in un disastro, con il teppistello ingaggiato dal tremebondo Hank come proprio sostituto per la rapina che tira fuori una pistola e si fa ammazzare, ma prima di finire disteso ferisce a morte - non la commessa ma la madre dei due, che quel giorno l’aveva sostituita.
Dopo il serrato inizio, la storia è raccontata dal film in una dimensione temporale prismatica, con una serie di flashback e di ritorni che saltano avanti e indietro rispetto alla rapina, ciascuno focalizzato su uno dei personaggi principali: Andy e Hank (Philip Seymour Hoffman, grandissimo, ed Ethan Hawke) e loro padre (Albert Finney). Quindi, come in “Rapina a mano armata” di Kubrick o “Jackie Brown” di Tarantino, rivediamo a volte la stessa scena seguendo un altro personaggio. Non per nulla, come già altri ha puntualmente osservato, nella vasta produzione televisiva di Lumet c’è anche una versione tv di “Rashomon” (1960). Una quarta figura chiave, Gina (Marisa Tomei), moglie di Andy che lo tradisce con Hank, osserva in disparte la tragedia e giudica implicitamente, come un coro greco che abbia scelto il silenzio.
E’ un mondo di totale disumanizzazione - di cui è simbolo l’interminabile panoramica ascendente sulla facciata di vetro e metallo del grattacielo dove vive il pusher che procura la droga ad Andy: la contraddizione di un luogo da abitare che appare astratto e inabitato. Nessuno è immune dal peccato - ma si tratta (salvo la ferocia vendicatrice del padre) di peccatucci: “small potatoes” in termini di contabilità infernale; però portano a una serie multipla di tragedie. Alla base di tutto, stanno i soldi; “Before the Devil Knows You’re Dead” è l’“auri sacra fames” di Sidney Lumet. Nella sua natura di film sull’apocalisse etica, assomiglia a “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen; ma a differenza dei Coen, Lumet non esprime un giudizio, lo lascia all’oggettività dell’evidenza. Potrebbe far propria, nel guardare i suoi vili e miseri personaggi, la battuta di Edward G. Robinson a Fred MacMurray sconfitto e morente alla fine de “La fiamma del peccato”: “Guarda come ti sei ridotto”.
Stranamente, un film a cui si può accostare “Before the Devil Knows You’re Dead” è “Intrigo a Berlino” di Steven Soderbergh: sono, in modo differente, “period pieces”. Il ben diverso film in b/n di Soderbergh riprendeva accuratamente stili e “topoi” del cinema degli anni ’40. Il film di Lumet volutamente sembra girato fra la fine dei ’60 e la prima metà dei ’70. E’ un preciso “mood” stilistico richiamato con evidenza da molti aspetti. L’aspetto narrativo: non dico la costruzione a flashbak, ma certamente il modo di introdurla con uno zoom seguito da un gioco fotografico sulla pellicola, che riporta a quello “sperimentalismo di massa” che si era introdotto nel cinema mainstream dell’epoca. L’aspetto della recitazione: che è realistico-espressiva, quasi da Metodo, non tanto in Hoffman quanto in Hawke (in effetti, a dire il vero, un po’ “hammy”) e Finney - guardate la sua espressione nella scena madre finale. Perfino la nudità: che ci richiama più all’epoca di “Un uomo da marciapiede” (1969) che al neopuritanesimo visivo della Hollywood odierna (ed è un bene, non solo perché si vive più felici dopo aver visto gli splendidi seni di Marisa Tomei ma perché il nudo rinforza il realismo del film).
Questo stile “anni ‘60”, va detto subito, non è citazionismo come nel caso di Soderbergh. E’ una rivendicazione orgogliosa, da parte dell’ottantatreenne Lumet, del cinema che si faceva, e lui faceva, a quell’epoca, in polemica implicita con quello presente.

(Il Nuovo FVG)

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