Maryam Mogaddham e Behtash Sanaeeha
L’anziana
Mahin vive nella solitudine. L’incontro con il vecchio Farandaz,
uno sconosciuto, si trasforma
in amore. Nulla
di più umano,
ma il regime dell’Iran
non l’ha perdonata ai due autori de
“Il mio giardino persiano”,
che ora devono vedersela coi tribunali. Nota
che in questo rapporto è la donna che prende l’iniziativa:
abominio per i barbuti.
Gli
interpreti Lili Farhadpour ed
Esmail Mehrabi sono magnifici
(spiace
di non poter elogiare allo stesso modo il doppiaggio).
Esile ma grazioso, il film è realistico nell’ambientazione e
quasi surreale
nel suo modo di concentrare un’esperienza di vita (dal
primo incontro al girarsi intorno al corteggiamento all’innamoramento
reciproco)
nel breve giro di una
parte d’una notte. Si rischia che questa accelerazione appaia un
po’ implausibile. Ma gli autori non vogliono descrivere il normale
decorso di un amore bensì
un’esplosione di sentimenti in una società iper-compressa,
un’eruzione vulcanica che rompe
la crosta del terreno. In questo senso il film è
fortemente simbolico (ed è questo che brucia
al regime).
C’è
una scena in cui la
feroce Polizia
Morale arresta due ragazze col
velo non a posto; una, Mahin
riesce a farla liberare. Ma tutto
il film è attraversato da un filo rosso
politico e anti-regime, con i ricordi di
un
un passato migliore (la
ragazza alla vecchia
Mahin: “Lei in fondo è fortunata. Prima della rivoluzione si
vestiva come voleva”), l’amore per la musica “antica”, il
ricordo di “quando vietarono l’alcool” e l’elogio del vino.
Che già il persiano Hafez
cantava! E infatti
possiamo vedere una metafora
dell’Iran
nel “guardino persiano” di Magin:
dove si soffre
la mancanza dell’illuminazione, però
“il terreno è sano e pulito”. Una
speranza, anche se
per riempirlo bisogna
ricorrere ad alberelli (o
momenti di vita) rubati.
(Messaggero Veneto)
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