Paul Schrader
Per
combinazione, sono usciti nello stesso periodo due affascinanti film
americani sul tempo. In Here di Robert Zemeckis il tempo è
oggettivo: è un lungo fiume di fatti catturato da una macchina da
presa “eterna” piazzata lì fin dall’epoca dei dinosauri, in
una impossibile inquadratura fissa vivificata da un uso geniale del
framing. Il tempo scorre interminabile, ma i suoi segni ritornano
(come la collana della donna indiana) nella consapevolezza maestosa
del gigantesco flusso dell’esistenza, che unisce e assorbe le vite,
le gioie i dolori e gli errori; i secoli passano ma la natura è
immortale, e ancora e sempre i colibrì continuano a succhiare il
nettare dei fiori.
In
Oh, Canada - I tradimenti di Paul Schrader il tempo è un labirinto soggettivo: la
confessione autopunitiva di un uomo solo davanti alla morte (alla
fine della vita – non è nemmeno necessario essere moribondi, di
solito basta essere vecchi – si vedono le cose con angosciosa
chiarezza). Il film inizia con la voce narrante di un figlio
rifiutato: “Non ero presente quando mio padre morì”; col che
aprendo il film ci annuncia la morte del protagonista. Così il film
si svolge nella consapevolezza di essa, quasi un’opera di fantasmi
– come nel noir. Il cinema riporta i morti in vita (Susan Sontag e
Sigmund Freud sono i numi tutelari del film), e questo è un tema
molto schraderiano.
Leo
Fife (Richard Gere) è un famoso documentarista impegnato, eroe dei
progressisti canadesi perché si era rifugiato in Canada per
sottrarsi all’arruolamento al tempo della guerra del Vietnam. Ora è
malato terminale e due suoi ex allievi vogliono realizzare
un’intervista filmata per celebrarlo. Malcolm (Michael Imperioli),
autore del progetto, si considera un suo figlio spirituale – cosa
che non può non far drizzare le orecchie a chi conosce il cinema di
Schrader, in cui è centrale lo scontro tra il figlio e il padre (o –
vedi L’ultima tentazione di Cristo, diretto da Scorsese e scritto
da Scharader – il Padre). E infatti Leo lo attacca e lo chiama
“fraud”. L’ambizioso Malcolm è venuto con una lista di 25
domande ma non ne farà neanche una: Leo gli tronca la parola e si
getta nella dolorosa, spietata, masochistica rievocazione della
propria falsità e mediocrità. Non era scappato in Canada per
sottrarsi alle guerra, era già riuscito a farsi riformare (“coward!”,
gli lancia dietro l’ufficiale reclutatore), bensì per sfuggire
alle responsabilità familiari del matrimonio di allora e prolungare
una giovinezza sessantottina. Era diventato documentarista engagé
per caso. Sul piano personale era un egoista incapace di amare, che
abbandona un figlio infante per poi rinnegarlo quando si presenta
trent’anni dopo.
Leo
insiste che Emma (Uma Thurman), la sua ultima moglie, sia presente a
questo denudamento – “È più facile se lo dico a te” – e
s’instaura un bellissimo gioco di sguardi, mediato dall’immagine
sul monitor. Il cinema e i processi di riproduzione dell’immagine
sono sempre stati uno dei principali interessi schraderiani, condito
di diffidenza morale; qui sono compresi anche brevi frammenti dei
documentari di Leo. I flashback che concretizzano sullo schermo
questa sua confessione hanno i colori morbidi degli anni Sessanta.
Leo, dichiara, vuol dire alla sua splendida moglie che razza d’uomo
ha sposato. Il dolore e la stanchezza della malattia e la realtà
bassa della vita (la sacca da cambiare, le feci da pulire) appaiano
alla nudità dell’anima la miseria del corpo.
Riconosciamo
subito in Leo gli eroi autopunitivi, ossessivi, soverchiati dal peso
del passato, del cinema di Paul Schrader, grande regista e
sceneggiatore di formazione calvinista, che ci parla sempre di
solitudine, crocifissione, redenzione – traversare il deserto del
peccato e della colpa.
Il
secondo grande tema del film, in guerresca dialettica col primo, è
l’ambiguità. Durante l’intervista di Leo, la moglie Emma
protesta accoratamente che i suoi ricordi confondono realtà e
fantasia per colpa delle medicine; ovvero tende a stabilire Leo nella
nostra percezione come il classico “testimonio inaffidabile”, con
la conseguente falsità dei flashback. Invero Schrader non fa sforzo
alcuno per celare la soggettività del racconto. L’attore Jacob
Elordi che interpreta Leo da giovane non somiglia per struttura
fisica a Richard Gere, è più smilzo e più alto; inoltre talvolta
vediamo lo stesso Gere (non quello devastato dell’intervista ma
quello dei flashback di qualche anno prima) mescolarsi nei flashback
al posto del se stesso giovane, e almeno in un caso “sdoppiarsi”
spiandolo dalla finestra mentre fa l’amore.
Un
paio di passaggi mostrano un’obiezione di Malcolm a qualcosa che
Leo non ha detto ma abbiamo semplicemente visto nel flashback (il
fumare in aereo, i vestiti invernali rubati). Naturalmente possiamo
sempre pensare che le abbia menzionate prima – ma questa non è che
una possibile spiegazione a posteriori. In un momento diviso in due
nella narrazione, una forte luce bianca lo fa bloccare confuso – un
momento (inconsapevole omaggio funebre!) alla David Lynch – e
appaiono accanto a lui i personaggi della sua vita.
L’ambiguità
è aumentata dal fatto che il film si fonda su una ridda di voci:
quella narrante del figlio rifiutato di Leo, la voce “oggettiva”
di Leo nell’intervista, la voce over dei suoi pensieri, le proteste
di Emma che mettono in crisi lo statuto di verità. Alla fine la voce
over del figlio descrive la sua morte – e vediamo il giovane Leo al
confine con il Canada, in un film tempestato di scelte di direzione
(il che ci ricorda l’amore di Schrader per l’allegoria). “Oh,
Canada”: l’audace citazione dell’inizio di Quarto potere di
Welles, che Schrader mette alla fine, ci conferma che quello che
abbiamo visto è un viaggio nella sofferenza della vita di un uomo e
nell’impossibilità di penetrare una memoria.
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