domenica 5 gennaio 2025

Nosferatu

Robert Eggers

Non si può negare che Robert Eggers abbia del fegato. Fare una terza versione di Nosferatu vuol dire confrontarsi con uno dei massimi geni del cinema, F.W. Murnau (1922), e con un grande quale Werner Herzog (1978). In verità, non li eguaglia; ma realizza un ottimo film in sé – molto atmosferico, stilisticamente raffinato, non privo di suggestioni e citazioni pittoriche, teso e risolto sul piano drammatico, innovativo nell’approccio.
Com’è noto, siamo a Wisborg nella Germania del 1838. L’ambizioso giovane impiegato Thomas Hutter (Nicholas Hoult) viene mandato dal suo equivoco padrone Knock nei Carpazi per trattare l’acquisto di una casa – nella loro città – da parte del conte Orlok (“Nosferatu”, cioè vampiro). La moglie Ellen lo implora di non andare, ricordandogli gli incubi che l’hanno afflitta in passato su un matrimonio con la morte. Se, dopo una criptica apertura, l’inizio appare un po’ “ricostruttivo”, già l’incontro di Hutter con Knock fa serpeggiare una soddisfacente aura di maligna ambiguità sotto i complimenti esagerati e i riferimenti alla Provvidenza – e nota l’intelligente dettaglio murnauiano di quella lettera con segni cabalistici che Knock copre in fretta. L’improvvisa pioggia quando si passa a parlare del conte Orlok certo non sorprende (al cinema la pioggia è sinonimo di sventura) ma fa subito risaltare uno dei punti di forza del film, il bellissimo montaggio di Louise Ford. Nel mentre, consente alla fotografia di Jarin Blaschke un’elegante immagine delle vie cittadine invase da ombrelli neri mentre Thomas bagnato si affretta verso casa.
Quando poi Hutter si trova fra le inospitali balze dei Carpazi, il film prende decisamente in mano il suo argomento. La sceneggiatura di Eggers riprende quella di Henrik Galeen per il Nosferatu di Murnau, ma non manca un ricordo di quello di Herzog, né Eggers dimentica il testo originale di Bram Stoker, Dracula, come rivela l’episodio del colpo di piccone. Il film si compiace di ripescare anche riferimenti folklorici autentici ma raramente visti al cinema, come il rito degli zingari per scoprire la tomba di un vampiro. La stessa caratterizzazione fisica del vampiro, ha detto Eggers in un’intervista, vuole ritornare alla base folklorica; in questo ritorno alle origini rientra anche l’abitudine di Nosferatu di succhiare il sangue dal cuore. Dimenticatevi il gelido e risecchito Max Schreck di Murnau o il disperato e romantico Klaus Kinski di Herzog; qui Bill Skarsgård è un cadavere semidecomposto (la cui enunciazione visiva è reticente, e consegnata solo a poco a poco nel film). Ha senso che l’edificio da lui comprato a Wisborg si chiami Schloss Grünewald: il pittore della miseria del corpo morto. Per inciso, i baffi che hanno sconcertato qualcuno sono storicamente appropriati, tant’è vero che anche Bram Stoker ne fornisce il conte Dracula nel suo romanzo. Ai suoi tratti inquietanti – le mani dalle unghie come artigli e il respiro affannoso – si accompagna una feroce hauteur nobiliare di cui fa esperienza subito l’ingenuo Hutter.
Il viaggio di Hutter verso il castello e la sua permanenza colà si svolgono su un doppio piano, autentico (le beffe degli zingari) eppure onirico; è “sveglio ma in sogno”, gli dice l’anziana donna ammonitrice alla locanda dove fa sosta (e nel suo parlare sentiamo, non trascritta in didascalia, la parola strigoi, altro nome dei vampiri). La bellissima scena dell’apparizione della carrozza fatata di Orlok, il cui sportello si apre da solo, sul fondo di uno spazio in fuga prospettica ricorda da vicino, se non direttamente, per lo spirito, l’opera di Alfred Kubin. Ma anche Ellen nella passeggiata nel cimitero con l’amica Anna dirà che non ci sente realmente presenti. È una perdita, un obnubilamento, uno spossessamento dei sensi che colpisce tutti.
Ecco dunque che l’enunciazione ritardata e “distillata” del mostro non è semplicemente artificio espositivo, come la sua uccisione dei bambini di Anna risolta come ombra non è semplicemente autocensura. Nella concretezza drammatica delle uccisioni e della peste, Nosferatu appartiene al regno delle ombre e dell’inconscio. “Lui è l’infinità”, dice il pazzo complice Knock, “lui è il divoramento”. L’ombra della sua mano – estrema proiezione delle ombre autonome del Nosferatu di Murnau, poi riprese da Dreyer in Vampyr – che si allarga e si stende su Ellen e sulla città non è una metafora. Le scene della peste e dei topi tengono presente Herzog; mentre un’inquadratura del professor von Franz fra le fiamme ricorda fortemente London After Midnight, il perduto film di Lon Chaney ormai divenuto iconico.
A differenza delle altre versioni, qui è messa al centro Ellen (un’ottima Lily-Rose Depp), e il suo rapporto col vampiro produce un radicale cambio di paradigma rispetto ai Nosferatu precedenti. Parla Orlok: “Io sono un appetito, niente di più”. Se si muove fuori dalla sua tomba è perché Ellen anni prima lo ha evocato in passato attraverso la forza del desiderio, il che spiega l’apertura. Ellen (“Lo conosco bene”) cercava tenerezza, e così lo chiamò. In un dialogo con Thomas, dove risalta l’illuminazione dal basso, Ellen dice di portare in Nosferatu la sua vergogna. Orlok le ha parlato di Thomas come uno sciocco e un bambino (ricordiamo per inciso che sciocco e infantile era già lo Hutter di Murnau); e la scrittura magico-diabolica intravista nella lettera a Knock la rivediamo nel contratto che Hutter assai ingenuamente firma sulla fiducia, cedendo in realtà a Orlok la moglie. È interessante che quando il vampiro lo attacca per la prima volta Hutter abbia una visione flashing di Ellen nuda – ciò che precede l’episodio (un po’ residuale) del medaglione con l’immagine.
Non a caso, Orlok parla a Ellen come un innamorato deluso (“Davvero credevi che non sarei tornato?”). Verrebbe da domandarsi, alla Hitchcock, se tutti gli innamoramenti non siano che evocazioni.
Così il rapporto fisico sacrificale alla fine diventa qui esplicitamente sessuale – un rapporto sessuale nel quale la luce rivela più che mai il corpo di Nosferatu. C’è qualcosa di suggestivo in questa doppia funzione della luce del giorno, inedita rispetto al simbolismo espressionista di Murnau e al realismo romantico di Herzog, una luce del giorno rivelatrice sul piano cinematografico e distruttrice sul piano del racconto. Ucciso dalla luce, Nosferatu non si dissolve in polvere nella luce ma muore e lentamente si trasforma in scheletro; la sua postura disteso su Ellen crea un quadro de “La morte e la fanciulla” come un’allegoria di Hans Baldung Grien in chiave romantica e decadente.
Se il Nosferatu di Murnau era un doloroso apologo sull’invincibilità del destino, in quello di Eggers non c’è il destino: ci sono le passioni umane, la loro implacabilità, la loro autopunizione. Il male nasce dentro di noi o viene da fuori?, si chiedono angosciati i personaggi. Come nel suo capolavoro The Witch (la wilderness esterna e la wilderness spirituale), Eggers intercetta la nostra incertezza esistenziale e i nostri oscuri sensi di colpa: il nostro male interiore apre la porta al male esterno. Negli attacchi di possessione di Ellen si ricorda il cinema degli esorcismi e si esprime la realtà del vampiro come potenza interiore.
E ci si può chiedere se attraverso questo concetto del male interiore e del suo insinuarsi nell’anima (non è semplicemente il languore della vittima!) Eggers non finisca per riallacciarsi a quel cinema che sembrerebbe le mille miglia lontano da lui: il cinema di Terence Fisher.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Perfetto e illuminante come sempre, grazie mille!

Alessandro.