Robert Eggers
Non
si può negare che Robert Eggers abbia del fegato. Fare una terza
versione di Nosferatu vuol dire confrontarsi con uno dei massimi geni
del cinema, F.W. Murnau (1922), e con un grande quale Werner Herzog
(1978). In verità, non li eguaglia; ma realizza un ottimo film in sé
– molto atmosferico, stilisticamente raffinato, non privo di
suggestioni e citazioni pittoriche, teso e risolto sul piano
drammatico, innovativo nell’approccio.
Com’è
noto, siamo a Wisborg nella Germania del 1838. L’ambizioso giovane
impiegato Thomas Hutter (Nicholas Hoult) viene mandato dal suo
equivoco padrone Knock nei Carpazi per trattare l’acquisto di una
casa – nella loro città – da parte del conte Orlok (“Nosferatu”,
cioè vampiro). La moglie Ellen lo implora di non andare,
ricordandogli gli incubi che l’hanno afflitta in passato su un
matrimonio con la morte. Se, dopo una criptica apertura, l’inizio
appare un po’ “ricostruttivo”, già l’incontro di Hutter con
Knock fa serpeggiare una soddisfacente aura di maligna ambiguità
sotto i complimenti esagerati e i riferimenti alla Provvidenza – e
nota l’intelligente dettaglio murnauiano di quella lettera con
segni cabalistici che Knock copre in fretta. L’improvvisa pioggia
quando si passa a parlare del conte Orlok certo non sorprende (al
cinema la pioggia è sinonimo di sventura) ma fa subito risaltare uno
dei punti di forza del film, il bellissimo montaggio di Louise Ford.
Nel mentre, consente alla fotografia di Jarin Blaschke un’elegante
immagine delle vie cittadine invase da ombrelli neri mentre Thomas
bagnato si affretta verso casa.
Quando
poi Hutter si trova fra le inospitali balze dei Carpazi, il film
prende decisamente in mano il suo argomento. La sceneggiatura di
Eggers riprende quella di Henrik Galeen per il Nosferatu di Murnau,
ma non manca un ricordo di quello di Herzog, né Eggers dimentica il
testo originale di Bram Stoker, Dracula, come rivela l’episodio del
colpo di piccone. Il film si compiace di ripescare anche riferimenti
folklorici autentici ma raramente visti al cinema, come il rito degli
zingari per scoprire la tomba di un vampiro. La stessa
caratterizzazione fisica del vampiro, ha detto Eggers in
un’intervista, vuole ritornare alla base folklorica; in questo
ritorno alle origini rientra anche l’abitudine di Nosferatu di
succhiare il sangue dal cuore. Dimenticatevi il gelido e risecchito
Max Schreck di Murnau o il disperato e romantico Klaus Kinski di
Herzog; qui Bill Skarsgård è un cadavere semidecomposto (la cui
enunciazione visiva è reticente, e consegnata solo a poco a poco nel
film). Ha senso che l’edificio da lui comprato a Wisborg si chiami
Schloss Grünewald: il
pittore della miseria del corpo morto. Per inciso, i baffi che hanno
sconcertato qualcuno sono storicamente appropriati, tant’è vero
che anche Bram Stoker ne fornisce il conte Dracula nel suo romanzo.
Ai suoi tratti inquietanti – le mani dalle unghie come artigli e il
respiro affannoso – si accompagna una feroce hauteur nobiliare di
cui fa esperienza subito l’ingenuo Hutter.
Il
viaggio di Hutter verso il castello e la sua permanenza colà si
svolgono su un doppio piano, autentico (le beffe degli zingari)
eppure onirico; è “sveglio ma in sogno”, gli dice l’anziana
donna ammonitrice alla locanda dove fa sosta (e nel suo parlare
sentiamo, non trascritta in didascalia, la parola strigoi, altro nome
dei vampiri). La bellissima scena dell’apparizione della carrozza
fatata di Orlok, il cui sportello si apre da solo, sul fondo di uno
spazio in fuga prospettica ricorda da vicino, se non direttamente,
per lo spirito, l’opera di Alfred Kubin. Ma anche Ellen nella
passeggiata nel cimitero con l’amica Anna dirà che non ci sente
realmente presenti. È una perdita, un obnubilamento, uno
spossessamento dei sensi che colpisce tutti.
Ecco
dunque che l’enunciazione ritardata e “distillata” del mostro
non è semplicemente artificio espositivo, come la sua uccisione dei
bambini di Anna risolta come ombra non è semplicemente autocensura.
Nella concretezza drammatica delle uccisioni e della peste, Nosferatu
appartiene al regno delle ombre e dell’inconscio. “Lui è
l’infinità”, dice il pazzo complice Knock, “lui è il
divoramento”. L’ombra della sua mano – estrema proiezione delle
ombre autonome del Nosferatu di Murnau, poi riprese da Dreyer in
Vampyr – che si allarga e si stende su Ellen e sulla città non è
una metafora. Le scene della peste e dei topi tengono presente
Herzog; mentre un’inquadratura del professor von Franz fra le
fiamme ricorda fortemente London After Midnight, il perduto film di
Lon Chaney ormai divenuto iconico.
A
differenza delle altre versioni, qui è messa al centro Ellen
(un’ottima Lily-Rose Depp), e il suo rapporto col vampiro produce
un radicale cambio di paradigma rispetto ai Nosferatu precedenti.
Parla Orlok: “Io sono un appetito, niente di più”. Se si muove
fuori dalla sua tomba è perché Ellen anni prima lo ha evocato in
passato attraverso la forza del desiderio, il che spiega l’apertura.
Ellen (“Lo conosco bene”) cercava tenerezza, e così lo chiamò.
In un dialogo con Thomas, dove risalta l’illuminazione dal basso,
Ellen dice di portare in Nosferatu la sua vergogna. Orlok le ha
parlato di Thomas come uno sciocco e un bambino (ricordiamo per
inciso che sciocco e infantile era già lo Hutter di Murnau); e la
scrittura magico-diabolica intravista nella lettera a Knock la
rivediamo nel contratto che Hutter assai ingenuamente firma sulla
fiducia, cedendo in realtà a Orlok la moglie. È interessante che
quando il vampiro lo attacca per la prima volta Hutter abbia una
visione flashing di Ellen nuda – ciò che precede l’episodio (un
po’ residuale) del medaglione con l’immagine.
Non
a caso, Orlok parla a Ellen come un innamorato deluso (“Davvero
credevi che non sarei tornato?”). Verrebbe da domandarsi, alla
Hitchcock, se tutti gli innamoramenti non siano che evocazioni.
Così
il rapporto fisico sacrificale alla fine diventa qui esplicitamente
sessuale – un rapporto sessuale nel quale la luce rivela più che
mai il corpo di Nosferatu. C’è qualcosa di suggestivo in questa
doppia funzione della luce del giorno, inedita rispetto al simbolismo
espressionista di Murnau e al realismo romantico di Herzog, una luce
del giorno rivelatrice sul piano cinematografico e distruttrice sul
piano del racconto. Ucciso dalla luce, Nosferatu non si dissolve in
polvere nella luce ma muore e lentamente si trasforma in scheletro;
la sua postura disteso su Ellen crea un quadro de “La morte e la
fanciulla” come un’allegoria di Hans Baldung Grien in chiave
romantica e decadente.
Se
il Nosferatu di Murnau era un doloroso apologo sull’invincibilità
del destino, in quello di Eggers non c’è il destino: ci sono le
passioni umane, la loro implacabilità, la loro autopunizione. Il
male nasce dentro di noi o viene da fuori?, si chiedono angosciati i
personaggi. Come nel suo capolavoro The Witch (la wilderness esterna e la wilderness spirituale), Eggers intercetta la nostra
incertezza esistenziale e i nostri oscuri sensi di colpa: il nostro
male interiore apre la porta al male esterno. Negli attacchi di
possessione di Ellen si ricorda il cinema degli esorcismi e si
esprime la realtà del vampiro come potenza interiore.
E
ci si può chiedere se attraverso questo concetto del male interiore
e del suo insinuarsi nell’anima (non è semplicemente il languore
della vittima!) Eggers non finisca per riallacciarsi a quel cinema
che sembrerebbe le mille miglia lontano da lui: il cinema di Terence
Fisher.
1 commento:
Perfetto e illuminante come sempre, grazie mille!
Alessandro.
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