Pablo Larraín
Pablo
Larraín è un regista dell’idealismo: nel senso che la mente crea
la realtà – da Neruda, sull’universo di Neruda più che sulla
biografia del poeta, a Jackie (Kennedy) che nei tristi giorni dopo l’assassinio del marito crea il mito di Camelot, da
Tony Manero, ossessionato da John Travolta, a Spencer che tratta col
fantasma di Anna Bolena. Tanto più in Maria, ove la Callas nella sua
ultima settimana di vita non vede più distinzione alcuna tra la vita
vera e le visioni; la realtà
quotidiana viene riorganizzata e stravolta dall’irrompere
dell’illusione. Con
preoccupazione dei fedelissimi camerieri (Pierfrancesco Favino e Alba
Rohrwacher): “Questa troupe televisiva [che deve venire]… è
reale, vero?” E che reale non sia lo
capiamo subito quando l’intervistatore
quando si presenta: “Mi chiamo Mandrax” (sono le pastiglie di cui
Maria
abusa). Questa intervista con una visione fa
da filo rosso
al film.
Maria
a Parigi, passeggiando
con l’intervistatore fantasma, passa
per l’area del Trocadéro, con
la Torre Eiffel sullo sfondo, e gli dice “Sono gli altri ad
esibirsi”: ecco che tutta
la folla casuale e anonima
si avvicina, si schiera, si
trasforma in un coro d’opera,
per
intonare
il cosiddetto
Coro
delle incudini del
Trovatore. Più tardi, un
palazzo davanti al quale Maria rifiuta di cantare si
riempie di comparse in rosso della Butterfly – che
circondano lei in kimono bianco – e poi la visione cessa, torna il
vuoto, lei si allontana.
Il
film inizia con un’inquadratura incorniciata, che mostra la scena
tragica fra i battenti della porta aperti ai due lati, con un
lentissimo movimento avanti della mdp; questo non solo allude
all’inevitabile elemento voyeuristico del cinema (e specialmente
del biopic) ma abilmente dichiara lo stesso film come cinema. Vale
lo stesso per i ciak dell’“intervista” che dichiarano i
capitoli (nella grana da superotto dei filmini familiari). Così, in
Maria Larraín
instaura un gioco di specchi
a tre: la realtà,
l’illusione e la
finzione cinematografica.
Ancora
una volta Larraín
traccia con partecipazione
un ritratto di donna che
si dibatte nel cuore della
crisi. Qui la voce di
Maria è in declino, lei si
è ritirata, il suo
fisico sta per cedere. Con
intelligenza e con un dialogo brillante il film ci porta dentro la
sua soggettività: il carattere aggressivo verso il mondo esterno e
il peso della realtà, il dolore del mondo interiore, con i suoi
ricordi e i suoi fantasmi, come
un volgare Onassis privo di
fascino.
Naturalmente
bisogna passare per un primo momento di shock nel sentire la voce
della Callas uscire dalle labbra di Angelina Jolie. Questo va oltre
il normale processo dei film storici onde “per” Napoleone vediamo
Albert Dieudonné o Marlon Brando o Rod Steiger e così via. Quella è
una sostituzione mimetica. Questa è una fusione di due corpi,
cinema-Frankenstein che all’inizio turba; e così assai giustamente
Larraín
la fa entrare in modo
impositivo nell’inizio in b/n, segnato dalla morte.
“La
mia vita è l’opera – non c’è ragione nell’opera”. Questa
dichiarazione di Maria, che arriva subito prima della parte finale, è
la chiave del film. Sul
palcoscenico Maria Callas è stata
sublime interprete di
melodrammi. Ma la sua stessa vita è stata un melodramma;
potrebbe assai
bene essere trasposta in un
libretto d’opera (se sulla
contemporaneità John Adams
e la librettista Alice Goodman hanno
realizzato un bellissimo
Nixon in China,
perché non immaginare
un Maria Callas nei teatri futuri?).
Con scelta
molto appropriata,
Pablo Larraín
organizza il suo stesso film in forma di melodramma. E
proprio come nell’opera
Maria muore cantando.
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