domenica 12 gennaio 2025

Maria

 Pablo Larraín

Pablo Larraín è un regista dell’idealismo: nel senso che la mente crea la realtà – da Neruda, sull’universo di Neruda più che sulla biografia del poeta, a Jackie (Kennedy) che nei tristi giorni dopo l’assassinio del marito crea il mito di Camelot, da Tony Manero, ossessionato da John Travolta, a Spencer che tratta col fantasma di Anna Bolena. Tanto più in Maria, ove la Callas nella sua ultima settimana di vita non vede più distinzione alcuna tra la vita vera e le visioni; la realtà quotidiana viene riorganizzata e stravolta dall’irrompere dell’illusione. Con preoccupazione dei fedelissimi camerieri (Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher): “Questa troupe televisiva [che deve venire]… è reale, vero?” E che reale non sia lo capiamo subito quando l’intervistatore quando si presenta: “Mi chiamo Mandrax” (sono le pastiglie di cui Maria abusa). Questa intervista con una visione fa da filo rosso al film.
Maria a Parigi, passeggiando con l’intervistatore fantasma, passa per l’area del Trocadéro, con la Torre Eiffel sullo sfondo, e gli dice “Sono gli altri ad esibirsi”: ecco che tutta la folla casuale e anonima si avvicina, si schiera, si trasforma in un coro d’opera, per intonare il cosiddetto Coro delle incudini del Trovatore. Più tardi, un palazzo davanti al quale Maria rifiuta di cantare si riempie di comparse in rosso della Butterflyche circondano lei in kimono bianco – e poi la visione cessa, torna il vuoto, lei si allontana.
Il film inizia con un’inquadratura incorniciata, che mostra la scena tragica fra i battenti della porta aperti ai due lati, con un lentissimo movimento avanti della mdp; questo non solo allude all’inevitabile elemento voyeuristico del cinema (e specialmente del biopic) ma abilmente dichiara lo stesso film come cinema. Vale lo stesso per i ciak dell’“intervista” che dichiarano i capitoli (nella grana da superotto dei filmini familiari). Così, in Maria Larraín instaura un gioco di specchi a tre: la realtà, l’illusione e la finzione cinematografica.
Ancora una volta Larraín traccia con partecipazione un ritratto di donna che si dibatte nel cuore della crisi. Qui la voce di Maria è in declino, lei si è ritirata, il suo fisico sta per cedere. Con intelligenza e con un dialogo brillante il film ci porta dentro la sua soggettività: il carattere aggressivo verso il mondo esterno e il peso della realtà, il dolore del mondo interiore, con i suoi ricordi e i suoi fantasmi, come un volgare Onassis privo di fascino.
Naturalmente bisogna passare per un primo momento di shock nel sentire la voce della Callas uscire dalle labbra di Angelina Jolie. Questo va oltre il normale processo dei film storici onde “per” Napoleone vediamo Albert Dieudonné o Marlon Brando o Rod Steiger e così via. Quella è una sostituzione mimetica. Questa è una fusione di due corpi, cinema-Frankenstein che all’inizio turba; e così assai giustamente Larraín la fa entrare in modo impositivo nell’inizio in b/n, segnato dalla morte.
La mia vita è l’opera – non c’è ragione nell’opera”. Questa dichiarazione di Maria, che arriva subito prima della parte finale, è la chiave del film. Sul palcoscenico Maria Callas è stata sublime interprete di melodrammi. Ma la sua stessa vita è stata un melodramma; potrebbe assai bene essere trasposta in un libretto d’opera (se sulla contemporaneità John Adams e la librettista Alice Goodman hanno realizzato un bellissimo Nixon in China, perché non immaginare un Maria Callas nei teatri futuri?). Con scelta molto appropriata, Pablo Larraín organizza il suo stesso film in forma di melodramma. E proprio come nell’opera Maria muore cantando.

Nessun commento: