Paolo Sorrentino
Parthenope, la
protagonista del film di Paolo Sorrentino... Parthenope che ha lo
stesso nome della sirena suicida il cui corpo fu trovato là dove
sorge la città di Napoli... Parthenope, dicevo, all'inizio del film
viene partorita nell'acqua. Questo è l'elemento che contraddistingue
il film di Sorrentino: Parthenope è un film d'acqua. Dell'acqua ha
la fluidità, l'irriducibilità a una forma, nella quale si allarga,
e così la nega.
Parthenope segue la
vita di Parthenope (Celeste Dalla Porta), misteriosa e bellissima
come la Gioconda, tanto sguardo irraggiungibile quanto oggetto dello
sguardo amoroso (il film ha un momento bellissimo sulle ragazze che
camminano, decise, sorridenti, solari, e gli occhi degli uomini le
accarezzano). C'è una sorta di castità di Sorrentino, per il quale
il sesso si identifica con lo sguardo, in modo quasi mistico. Basta
ricordare i nudi meravigliosi di Madalina Ghenea in Youth o di Luisa
Ranieri in È stata la mano di Dio (un film che per molti versi
assomiglia a questo). La bellezza di Parthenope si diffonde nell'aria
come il fumo delle sigarette, che sono molto presenti in questo film;
e Sorrentino è uno dei pochi registi (ecco che mi torna in mente lo
splendido cameo di Shu Qi in Just One Look di Riley Ip) a riconoscere
e trasmettere la bellezza di una giovane donna che fuma.
A parte una parentesi
in cui medita di fare l'attrice (nel che, peraltro, sempre lo sguardo
e gli occhi sono chiamati in causa!), la sua scelta di vita è
l'antropologia, sotto l'ala del caustico professor Marotta (Silvio
Orlando), che emerge come vero padre putativo – mentre altre figure
del film, come il padre vero, sono troppo umbratili per lasciare
traccia. La domanda che come un tormentone attraversa il film, “che
cos'è l'antropologia?”, trova alfine per bocca del professore la
perfetta definizione: l'antropologia è vedere. Precisamente questo è
lo sguardo di Parthenope: uno sguardo che vede e ci fa vedere: onde
Parthenope diventa attraverso i suoi occhi un grande ritratto della
città di Napoli. Nella sua bellezza solare (ancora l'acqua) e nel
suo ventre – il grottesco sorrentiniano, che traspare nel
matrimonio camorrista consumato sotto gli occhi di tutti ed esplode
nell'episodio del “mostrino”.
La letterarietà dei
dialoghi, molto sorrentiniana, è generalmente ben costruita e ben
gestita (ora dirò una bestemmia: bizzarramente, il solo a uscirne
con un'aria trombonesca è il personaggio di Gary Oldman). Vediamo la
storia di Parthenope nel corso del tempo – l'uomo davanti al tempo
è un caposaldo del cinema di Sorrentino – e Celeste Dalla Porta è
bravissima nel fondare e trasmettere le sfaccettature della vita che
scorre, non semplicemente come mimica del volto, ma nel senso
esistenziale che si riflette nel corpo intero. Questo adottare la
forma biografica, per cui gli avvenimenti, come per una locomotiva in
corsa, balzano incontro “da soli”, dà a Sorrentino la
possibilità di svincolarsi da una costruzione drammaturgica.
Beninteso, ha diritto
Sorrentino, come ha rivendicato, di non nutrire un eccessivo
interesse per la trama, in senso appunto drammaturgico; abbiamo
diritto noi spettatori di giudicare il risultato. Il costo
dell'operazione è che il film appare episodico, perfino un po'
slegato. Parthenope è fatto di pezzi assai alti, fra i migliori del
cinema di Sorrentino, frammisti a momenti (specie nella prima parte)
che lasciano una sensazione di incertezza sul piano artistico. Ciò
non toglie che il film, per quanto faticoso nell'articolazione del
racconto, componga un grande affresco pieno di fascino sulla città
di Napoli. Il suo impatto emotivo è indubitabile.
Menziono solo il
capitolo che a mio parere è il vertice del film: l'incontro di
Parthenope, antropologa che studia il miracolo di San Gennaro, con
l'arcivescovo Tesorone (Peppe Lanzetta). Capitolo perfetto ed
enigmatico (altro che il forzato The Young Pope!), culminante nella
soluzione geniale per cui il sangue di San Gennaro – che non aveva
voluto sciogliersi nella cattedrale affollata e isterica – si
scioglie in segreto al momento nell'orgasmo nel rapporto a due nella
cattedrale deserta.
La melancholia
sorrentiniana, che ben conosciamo, attraversa il film, dove al fondo
resta la consapevolezza amara del carattere transeunte della gioventù
e dell'amore. Interpretati da tre eccellenti giovani attori, i tre
personaggi giovani – Parthenope, il fratello Raimondo (Daniele
Rienzo) e il primo fidanzato Sandrino (Dario Aita) – partono tutti
per l'esilio; e l'esilio è sempre stato un filo rosso del cinema di
Sorrentino, incrociandosi – senza contraddizione – con un altro,
quello della persona che si è costruita intorno una barriera, in un
“tempo bloccato”. Forse questo primo tema è diventato, col
tempo, prevalente rispetto al secondo? Ma forse neanche tanto, se
pensiamo alla grigia predizione che Parthenope fa a Sandrino quando
questi le rivela la sua decisione di partire per andare al Nord
(un'osservazione molto interessante fatta dell'attore in sede di
presentazione del film: a Napoli sarebbe sempre rimasto un
diminutivo). Per Raimondo, invece, è l'amarezza dell'amore. La scena
“bertolucciana” dell'abbraccio a tre a Capri fissa il personaggio
come in un bassorilievo. È innamorato della sorella? È innamorato
di Sandrino? È troppo sensibile in assoluto? Comunque, non
diversamente dalla sirena, muore suicida; sceglie l'esilio più
totale e definitivo (unde negant redire quemquam). Poi,
all'improvviso, senza spiegazioni, la stessa Parthenope – che è
andata a insegnare antropologia a Trento dov'è previsto che resti un
paio d'anni per poi vincere la cattedra a Napoli – rimane a Trento
fino alla pensione. Senza spiegazioni: il suo “Mi sono innamorata
dello speck” ha la stessa potenza enigmatica e ironica del “Sono
andato a letto presto” di Proust/Medioli/Leone (C'era una volta in
America). Ma quando ritorna a Napoli a 73 anni, col volto di Stefania
Sandrelli, al confronto imprevisto con l'allegra chiassosità dei
tifosi napoletani, sorride.
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