sabato 23 settembre 2023

El Conde

Pablo Larraín

Fra i tanti tiranni sudamericani del Novecento, il generale cileno Pinochet è quello che ha incarnato di più come immagine, quasi come forma grafica, la rappresentazione del male. Per questo i voli sopra la città di un Pinochet vampiro (inquadrato di schiena e, come da tradizione, simile a un pipistrello nel suo mantello di generale) forniscono l'immagine generatrice del film di Pablo Larraín El Conde, passato all’ultima Mostra di Venezia e ora su Netflix.
L’idea satirica è bellissima, anche se il film non si può dire pienamente riuscito. Pinochet è in realtà un vampiro di 250 anni, che ha solo messo in scena la sua morte e ora sta in un ritiro nel deserto – nel bellissimo bianco e nero della fotografia fredda e pittorica di Edward Lachman – assieme alla moglie che, ci informa la voce narrante, è “ancora più perversa di lui” (e c’è tutto un macchinoso subplot su di lei che è l’amante del maggiordomo-vampiro ma vorrebbe farsi vampirizzare dal marito). Ancora Pinochet si aggira in volo a caccia di cuori umani, da mettere nel frullatore; ma è stanco, è incerto, forse vuol morire davvero, forse un’ambigua giovane (una suora infiltrata come complice) gli fa cambiare idea… Quel ch’è certo è che intanto i familiari, come avvoltoi, si assiepano in vista dell'eredità. Secondo una metafora che risale addirittura a Voltaire, i succhiasangue esistono ma il sangue lo succhiano sfruttando i poveri. Perché Pinochet, anche se non vuole ammetterlo (“Chiamatemi assassino ma non ladro!”), si è arricchito con la famiglia a spese del Cile, e questa gigantesca corruzione sta al centro dei maneggi familiari e del film stesso.
Il difetto numero uno del film è una certa difficoltà a organizzare il discorso. Basta vedere la pesantissima intromissione di una voce narrante femminile in inglese che dopo averlo introdotto continua a rientrare continuamente sostituendosi in modo “radiofonico” all’azione scenica. Ora: una voce narrante può essere astratta o può appartenere a un personaggio. Dall’inizio, El Conde trasmette la netta impressione che si dia il primo caso; e per questo tale voce narrante è insopportabile. Nell’ultima parte del film arriva la sorpresa: appartiene a un personaggio che entra in scena (e ciò giustifica l’inglese, ma inutile fare spoiler). Tuttavia dal punto di vista artistico questa soluzione è sbilenca, perché si ha la stridula impressione di un cambio di statuto (Larraín avrebbe potuto facilmente risolvere mettendo un'inflessione personale, bastava un “io”, all’inizio).
Non è l’unica pecca. Stranamente Larraín (sceneggiatore con Guillermo Calderón) dà l’impressione di perdersi nelle minuzie; sfiora ma senza incidere i giganteschi problemi che il presupposto consentirebbe, in primo luogo il rapporto fra il potere e la storia, che dovrebbe essere centrale per l’autore di Jackie. In verità la parte finale è dinamica e convincente (per inciso, è bellissimo il primo volo della ragazza vampirizzata); ma per arrivarci Larraín deve passare per una laboriosa preparazione, dove tengono desta l'attenzione soprattutto le belle immagini in b/n, non prive di una valenza citazionistica. In ultima analisi, e certamente contro le intenzioni, El Conde resta un esercizio di stile.


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