domenica 21 novembre 2021

La persona peggiore del mondo

Joachim Trier

Chi sono io?” è la domanda che attraversa tutto il cinema del norvegese Joachim Trier (anche declinata in forma fantastica in Thelma); i suoi temi sono l'identità, l'amore e la perdita. Ne La persona peggiore del mondo la sua narrazione, assolutamente non giudicante, ed anzi simpatetica, ci presenta Julie (Renate Reinsve), cresciuta con la madre in opposizione a una figura di padre assente e ameboide, che ora ha quasi trent'anni. Julie è un'autentica figura dell'incertezza esistenziale. Oscilla tra due uomini, Aksel (Anders Danielsen Lie) ed Eivind (Herbert Nordrum), e li lascia entrambi; è intelligente, scrive bene (il suo saggio “Sesso orale all'epoca del #MeToo” ha successo online) ma non prosegue. Abilmente impressionistico, il film (diviso in dodici capitoli con un prologo e un epilogo) ha un tono di quasi distaccata commedia – ma procedendo vira sul tragico della vita.
Nell'irresolutezza di Julie c'è un minimo comun denominatore che è l'avvicinarsi sempre di più alla dimensione dello sguardo: prima vuole studiare chirurgia (i corpi), poi psicologia (le anime), infine fotografia (lo sguardo puro). Ma attenzione, guardare non è lo stesso che agire. La vita le scorre intorno: Julie vuole e non vuole; è del tutto sincera quando dice ad Aksel “Ti amo – e non ti amo”; si sente (parole sue) un personaggio secondario della sua stessa vita. Per questo attraversa il film con aria perplessa e un po' imbronciata: ora persona felice, ora rompiscatole maiuscola, allo stesso tempo. Non a caso, alla fine la ritroviamo fotografa di scena di un film: non la vita ma lo sguardo, e non sulla vita ma su una copia della vita.
Il film è molto attento al tema della fisicità, con la capacità di affrontare a viso aperto aspetti culturalmente tabuati relativi al corpo femminile, come il sangue mestruale (in una sequenza allucinatoria Julia tira un Tampax in faccia al padre, e si dipinge il viso col sangue). C'è una discussione indicativa in proposito verso l'inizio, con Julie che osserva polemicamente: “Se gli uomini avessero il ciclo non si parlerebbe d'altro”. Joachim Trier possiede una notevole penetrazione psicologica (ed eccelle nel raccontare certi momenti chiave come il lasciarsi), sorretta da una bella libertà narrativa. Vedi la scena in cui, un mattino, mentre guarda Aksel di spalle, Julie immagina di correre da Eivind – e il film rende questa fantasia con una memorabile corsa di lei per Oslo in mezzo alla gente immobile come in un fermo immagine. Oppure l'elegante anacronia nascosta nel capitolo su Eivind e sua moglie. O la compresenza, nella scena della separazione, fra la voce di Julie e quella voce narrante esterna femminile che nel film entra ed esce dal racconto ma se ne tiene per così dire ai margini, e però qui si intreccia con quella della protagonista fra ripetizioni e rimandi. Una voce, è interessante aggiungere, che assume un tono alquanto ironico nella descrizione dell'ecologismo assoluto cui si converte la moglie di Eivind: “Accanto a lui sedeva la somma di tutto il senso di colpa occidentale”.
Julie naturalmente non è un caso singolo ma rappresenta, con tratti forse più marcati, una generazione e un'epoca. Joachim Trier (sceneggiatore assieme al suo regular Eskil Vogt) pone con grande finezza e lucidità la contraddizione di uno stato psicologico: da un lato l'essere “liquidi” offre la libertà di svincolarsi dalle forme sociali consolidate; dall'altro, implica la perdita di un ubi consistam. Un tema ritornante del film è quello dell'avere figli, introdotto già all'inizio dalla visita a una casa piena di bambini: un tema trattato, una volta tanto, non in senso affettivo ma in quello del susseguirsi delle generazionali e della continuità storica; la voce narrante ci elenca le ave di Julie, secondo una genealogia femminile: tutte donne feconde, laddove la ripulsa di lei è una forma di sterilità. Non è questione dell'indiscutibile libera scelta individuale: è quasi un'allegoria di un'incertezza generale del vivere.
Si ha l'impressione di assistere a un'incapacità esistenziale di fare i conti con i nudi fatti, la dura materia della vita, muovendosi a lato della realtà invece che dentro. La rappresenta in forma comicamente surreale la discussione fra Julie ed Eivind al primo incontro; entrambi hanno un compagno e una compagna, si desiderano, e tentennano su quali rapporti fisici siano tradimento, da evitare, e quali siano consentiti, come annusarsi reciprocamente o guardarsi orinare: spostandosi burocraticamente dalla disposizione d'animo al dettaglio fisico (è anche vero che i giovani nordici non hanno letto San Paolo), così lasciarsi dicendo “Non siamo stati infedeli” – “No”. Anche le preoccupazioni relative al politically correct rientrano in questa fragilità idealistica: le parole (o i disegni) al posto delle cose. Ma arriva il momento in cui bisogna confrontarsi con un'altra fragilità, più profonda, del vivere, quella connaturata all'essere umano, ossia con la morte.
Ritratto “filosofico” di alcuni individui e di un'epoca, La persona peggiore del mondo è una perfetta descrizione di “anime liquide” nel quadro della crisi generale di una civiltà.



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