sabato 6 novembre 2021

Ariaferma

Leonardo Di Costanzo

Nel bellissimo Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, in un vetusto carcere in chiusura il trasferimento degli ultimi detenuti viene sospeso; ne rimangono tredici, fra cui il vecchio boss Lagioia (Sivio Orlando), sorvegliati da quindici guardie comandate dall'anziano ispettore Gargiulo (Toni Servillo). Carcerati gli uni e gli altri, dice amaro e ironico Lagioia a Gargiulo (che se la prende). L'ordine di trasferimento potrebbe arrivare anche domani” è il refrain di questa situazione sospesa come un Deserto dei Tartari carcerario.
Quando le tensioni minacciano di esplodere con lo sciopero della fame dei detenuti (la cucina è stata chiusa e da una ditta esterna arriva pessimo cibo precotto), Lagioia fa una proposta: si riapra la cucina e lui, che è figlio di un ristoratore, preparerà i pasti. Con stupore (e anche scandalo) dei colleghi, Gargiulo accetta; lui stesso lo sorveglierà. Sorretto da una doppia magistrale prova d'attore, fra questi due tipi opposti nasce un rapporto – assai finemente descritto dalla sceneggiatura di Di Costanzo, Bruno Oliviero e Valia Santella – che passa dalla fredda cautela dell'inizio alla confidenza nel colloquio finale. Ha senso che quest'ultimo colloquio, sui genitori e la memoria, si svolga nell'orto inselvatichito del carcere: una scena che si apre colpendoci con l'uscita all'aperto, una forte rottura con l'elemento claustrofobico del film. Peraltro Ariaferma, giocato sulla pluralità dei punti di vista,
non si nasconde mai l'ambiguità della situazione (all'inizio della collaborazione un enigmatico discorso di Lagioia sulle formiche sembra celare un guardingo esperimento sulla corruttibilità, che Gargiulo tronca di brutto).
Al di là del rapporto che si crea fra i due “capi” contrapposti, ma propiziato e come liberato da esso, un rapporto inusuale fra detenuti e guardie emerge nel momento “festivo” – una grande sequenza conchiusa – in cui salta la luce e i detenuti hanno il permesso di cenare fuori dalle celle facendo una tavolata al centro della rotonda su cui si aprono (salta fuori anche una bottiglia clandestina di vino) e invitano le guardie a mangiare con loro.
Infatti attorno ai due protagonisti si svolge, fortemente empatico, un film corale. Dal lato dei detenuti vanno menzionati almeno il giovane e smarrito Fantaccini (che ha mandato in coma un vecchio durante una rapina), interpretato da Pietro Giuliano, e il vecchio Arzano (Nicola Sechi), respinto dagli altri come “infame” e in preda alla pazzia. Fra le guardie, con il personaggio del duro ispettore Coletta, l'oppositore di Gargiulo, si sfiora una dialettica buono-cattivo che rischia di apparire drammaturgica, o addirittura cinematografica; però questo è riscattato dall'eccellente interpretazione di Fabrizio Ferracane, coi suoi occhi cupi e la sua capacità mimica di rendere il molto col poco (certe espressioni alla “Io l'avevo detto” sono memorabili).
Scandito da desolate inquadrature del carcere semi-abbandonato, con la fotografia di Luca Bigazzi, Ariaferma è un racconto di vita carceraria di totale veridicità. Non c'è buonismo o sociologismo facile nel film; non ci sono anime belle in via di redenzione. Sempre in bilico sul dramma potenziale, il film mostra bene come la vita in carcere sia un tiro alla fune fra le guardie carcerarie e i detenuti, fatto di momenti di sfida e di riaffermazione dell'autorità – ove le guardie, come domatori, devono sempre mostrare di essere il più forte: il tono di comando nella voce, la calma come dimostrazione di superiorità. Ma c'è un'umanità che esiste anche nel pozzo senza fondo che è la galera, e la situazione peculiare fa nascere momenti di comprensione imprevisti fra le due parti.
Tutto ciò dipinge il film, con un senso umano che nasce, in modo quasi dostoevskiano, dalla consapevolezza di un dolore universale.

1 commento:

Unknown ha detto...

Bel pezzo. Flavio