Leonardo Di Costanzo
Nel
bellissimo Ariaferma
di Leonardo Di Costanzo, in un
vetusto carcere in chiusura il trasferimento degli ultimi detenuti
viene sospeso; ne rimangono tredici, fra cui il vecchio boss Lagioia
(Sivio Orlando), sorvegliati da quindici guardie comandate
dall'anziano ispettore Gargiulo (Toni Servillo). Carcerati gli uni e
gli altri, dice amaro e ironico Lagioia a Gargiulo (che se la
prende). “L'ordine
di trasferimento potrebbe arrivare anche domani” è il refrain di
questa situazione sospesa come un Deserto dei Tartari carcerario.
Quando le tensioni
minacciano di esplodere con lo sciopero della fame dei detenuti (la
cucina è stata chiusa e da una ditta esterna arriva pessimo cibo
precotto), Lagioia fa una proposta: si riapra la cucina e lui, che è
figlio di un ristoratore, preparerà i pasti. Con stupore (e anche
scandalo) dei colleghi, Gargiulo accetta; lui stesso lo sorveglierà.
Sorretto da una doppia magistrale prova d'attore, fra questi due tipi
opposti nasce un rapporto – assai finemente descritto dalla
sceneggiatura di Di Costanzo, Bruno Oliviero e Valia Santella – che
passa dalla fredda cautela dell'inizio alla confidenza nel colloquio
finale. Ha senso che quest'ultimo colloquio, sui genitori e la memoria, si svolga nell'orto inselvatichito del carcere: una scena che si apre colpendoci con l'uscita all'aperto, una forte rottura con l'elemento claustrofobico del film. Peraltro Ariaferma, giocato sulla pluralità dei punti di vista, non si nasconde mai l'ambiguità della situazione (all'inizio della collaborazione un enigmatico
discorso di Lagioia sulle formiche sembra celare un guardingo
esperimento sulla corruttibilità, che Gargiulo tronca di brutto).
Al di là del rapporto
che si crea fra i due “capi” contrapposti, ma propiziato e come
liberato da esso, un rapporto inusuale fra detenuti e guardie emerge
nel momento “festivo” – una grande sequenza conchiusa – in
cui salta la luce e i detenuti hanno il permesso di cenare fuori
dalle celle facendo una tavolata al centro della rotonda su cui si
aprono (salta fuori anche una bottiglia clandestina di vino) e
invitano le guardie a mangiare con loro.
Infatti attorno ai due
protagonisti si svolge, fortemente empatico, un film corale. Dal lato
dei detenuti vanno menzionati almeno il giovane e smarrito Fantaccini
(che ha mandato in coma un vecchio durante una rapina), interpretato
da Pietro Giuliano, e il vecchio Arzano (Nicola Sechi), respinto
dagli altri come “infame” e in preda alla pazzia. Fra le guardie,
con il personaggio del duro ispettore Coletta, l'oppositore di
Gargiulo, si sfiora una dialettica buono-cattivo che rischia di
apparire drammaturgica, o addirittura cinematografica; però questo è
riscattato dall'eccellente interpretazione di Fabrizio Ferracane, coi
suoi occhi cupi e la sua capacità mimica di rendere il molto col
poco (certe espressioni alla “Io l'avevo detto” sono memorabili).
Scandito da desolate
inquadrature del carcere semi-abbandonato, con la fotografia di Luca
Bigazzi, Ariaferma è un racconto di vita carceraria di totale
veridicità. Non c'è buonismo o sociologismo facile nel film; non ci
sono anime belle in via di redenzione. Sempre in bilico sul dramma
potenziale, il film mostra bene come la vita in carcere sia un tiro
alla fune fra le guardie carcerarie e i detenuti, fatto di momenti di
sfida e di riaffermazione dell'autorità – ove le guardie, come
domatori, devono sempre mostrare di essere il più forte: il tono di
comando nella voce, la calma come dimostrazione di superiorità. Ma
c'è un'umanità che esiste anche nel pozzo senza fondo che è la
galera, e la situazione peculiare fa nascere momenti di comprensione
imprevisti fra le due parti.
Tutto ciò dipinge il
film, con un senso umano che nasce, in modo quasi dostoevskiano,
dalla consapevolezza di un dolore universale.
1 commento:
Bel pezzo. Flavio
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