martedì 23 novembre 2021

Ghostbusters: Legacy

Jason Reitman

Avviso: la maledizione di Gozer colpirà chiunque legga questa recensione senza prima aver visto il film. E' piena di spoiler.
Un sequel, specie di un film capitale come Ghostbusters, deve camminare su un ponte molto stretto, come quello del Paradiso nelle leggende islamiche. Da un lato deve evitare di allontanarsi eccessivamente dall'originale, perché altrimenti salta l'investitura emotiva; dall'altro deve evitare di sembrare una fotocopia. Ghostbusters: Legacy, diretto da Jason Reitman con il padre Ivan come produttore, è blandamente divertente nella prima parte, opportunamente emozionante nella seconda e adeguatamente commovente nel finale, che raggiunge infine il tono celebrativo dovuto. Nondimeno, riesce a sbagliare sia nel primo sia nel secondo dei registri sopra accennati. Non spiacevole in sé, tuttavia non è esaltante; non privo di simpatia, è lontano dal mordente dell'originale.
Il fatto è che il primo, e classico, Ghostbusters era una meravigliosa commedia horror – ed era in primo luogo una commedia di cialtroni, che aveva qualcosa di flastaffiano. Il nerd occhialuto, l'entusiasta infantile, l'egocentrico con una marcata tendenza all'imbroglio, più il neo-assunto, si trovano ad affrontare il paranormale più inquietante e salvano New York e il mondo. Il film è un percorso di crescita, dove i buffi difetti personali si assommano e si sublimano nell'azione eroica – ed eroicamente sboccata. “Mostrate alla troia preistorica come si lavora all'assessorato!” (il testo originale è meno flamboyant, ha “prehistoric bitch”, ma quella battuta di Bill Murray resterà per sempre nei nostri cuori). Ora, nella prima parte di Ghostbusters: Legacy c'è poca comedy, e niente cialtroneria. I giovanissimi protagonisti sono molto simpatici – in particolare Phoebe (Mckenna Grace, ottima) e Podcast (Logan Kim) – ma totalmente cute. La commedia di rapporti fra gli adulti Carrie e Gary è molto moderata. Il massimo di cattiveria è il rancore di Carrie verso il padre morto. L'idea che Gary – insegnante alla scuola estiva – si limiti a far vedere ai bambini vecchie videocassette di Cujo e Chucky potrebbe dargli una sfacciataggine alla Bill Murray, ma non viene sfruttata. E i due personaggi più spiritosi, Phoebe e Podcast, si fermano sempre un attimo prima della cattiveria. In questo senso, Ghostbusters: Legacy è un film staliniano: nel cinema di Stalin non era prevista la contraddizione all'interno del campo dei buoni.
Il riferimento generale è alle atmosfere dei tardi '70 e degli '80, nutrito con tutta una serie di riferimenti – anche la montagna che è il fulcro delle forze occulte fa pensare subito, benché con segno rovesciato, a Incontri ravvicinati del terzo tipo. Il modello che i realizzatori hanno in mente è con tutta evidenza Stranger Things, da cui peraltro proviene Finn Wolfhard (Trevor), ma molto ingentilito. Naturalmente non ci si poteva aspettare che un film che sposta l'età dei protagonisti all'adolescenza sposasse l'adorabile sfrontatezza dell'originale, ma certo poteva fare un po' di più (pensiamo a I Goonies o magari a Monster Squad). In realtà l'impressione è che il nuovo Ghostbusters nasca in un mondo peggiore di quello dell'ipotetico dominio di Gozer: il mondo del politically correct.
Nota in margine: questo crea una spaccatura fra i fantasmi comici (qui il mangiatore di metallo) e le vere forze maligne: due manifestazioni che nel film originale riuscivamo benissimo a stare insieme e qui paiono andare ciascuna per conto suo.
Anche il ritmo appare un po' troppo disteso, non è incalzante; probabilmente, una serie di piccoli terremoti come segni premonitori dell'apocalisse non valgono granché. Nella seconda parte del film, il gioco si ribalta e siamo in puro Ghostbusters classico (cosa interessante, è in questa parte che lo humour di Phoebe ha il suo momento migliore, quando si mette a raccontare terribili barzellette alla feroce dea Gozer seduta in trono). Ma qui il film sbanda dall'altra parte: decide di risolversi in un totale remake del Ghostbusters originale. In salsa campagnola (Oklahoma) invece che newyorkese, abbiamo la materializzazione della dea Gozer, il Mastro di Chiavi e il Guardia di Porta, i cani demoniaci, eccetera eccetera (c'è pure la ripresa con tenue gag di inversione della famosa domanda: “Sei tu un dio?”). Così, anche se questa seconda parte si vede volentieri e comprende dei bei momenti (come l'arrivo della dea Gozer attraverso il campo di mais – che peraltro è puro Stranger Things), invece del nuovo Ghostbusters stiamo rivedendo il primo. Anche l'incontro fra i “nuovi” Mastro di Chiavi e Guardia di Porta (Gary e Carrie) è ben realizzato ma gli manca quel carattere licenzioso propiziato dalla caratterizzazione di frustrato sessuale dello sfigato Rick Moranis nel primo film.
Poi c'è l'aspetto rituale e celebrativo – e quello funziona. L'apparizione dei tre Ghostbusters originari (Bill Murray, Dan Aykroyd, Ernie Hudson) cui si aggiunge il fantasma di Harold Ramis provoca uno sbocco di commozione e basta; non per nulla a Ivan Reitman è piaciuta molto; e alla fine la saldatura fra la vecchia e la nuovissima generazione è perfetta. Vediamo cosa salterà fuori al prossimo film.
Osservazione personale: a costo di far incavolare i fans, che non lo amano, chi scrive preferisce lo scanzonato Ghostbusters al femminile diretto da Paul Feig alcuni anni fa.

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