Cary Fukunaga
Avviso (è anche troppo
frequente nelle mie recensioni, ma stavolta è più necessario che
mai – lo metto in apertura e staccato, per dargli più rilievo
possibile): contiene spoiler radicali e va assolutamente letta solo
dopo aver visto il film.
Demitizzazione
è la parola chiave per gli ultimi James Bond, quelli interpretati da
Daniel Craig. Con essi al personaggio viene data una particolare
concretezza umana (anche recuperando alcuni tratti dei romanzi di Ian
Fleming) e viene immerso in una dimensione temporale, anzi,
biografica (No Time to Die
è il seguito diretto di Spectre).
Finora ciò ha ridefinito il mito Bond ma non l'ha intaccato in
profondità. Adesso, questa demitizzazione No Time to Die
di Cary Fukunaga la porta
all'estremo. Ecco che Bond è andato in pensione; scopre di essere
padre di una bambina di cinque anni; e, somma ingiuria, il numero 007
è stato passato a un altro agente, che senza sorpresa è una donna
nera. Ma l'operazione si spinge ancora più avanti. Non c'erano
riusciti Gert Froebe e Donald Pleasence, Lotte Lenya e Christopher
Lee; ci sono riusciti un gruppo di sceneggiatori hollywoodiani
dell'era del politically correct
– ad ammazzare James Bond. Alla fine del film Bond muore, anzi, si
suicida, rinunciando a lasciare l'isola su cui stanno piovendo i
missili inglesi. Del resto, è stato avvelenato dai “nanobot” del
villain, che gli
impedirebbero per sempre di avvicinarsi alla donna che ama e a sua
figlia: le ucciderebbe.
E'
vero che alla fine una didascalia avverte che James Bond tornerà
(con un volto nuovo, questo già si sapeva). Ma la speculazione è
sul come. Non certo nella linea vitale del personaggio presente (se
Daniel Craig si fosse salvato all'ultimo momento, metti, tuffandosi,
sarebbe un trucco ingenui da cliffhanger
di una volta, alla Perils of Pauline,
di quelli che Stephen King prende in giro in una bella pagina di
Misery). Si prepara un
reboot radicale?
Ora,
demitizzare è un'operazione lecita, e quasi de rigueur
in questi tempi piccini in cui gli eroi sono stanchi e anche un po'
impopolari. Era già stato fatto assai abilmente – come
decostruzione e ricostruzione del mito – nell'ottimo Skyfall
di Sam Mendes. Non è questo il caso della schiera di sceneggiatori
di No Time to Die: il
film mostra un'operazione vagamente simile ma meccanica ed esteriore
– e proprio per questo pesantemente retorica. Quanto poi all'idea
di far morire Bond... Dio benedica Danny Boyle, che doveva dirigere
il film e – apprendo dal web – aveva abbandonato il progetto
definendo la trovata “ridiculous”.
Un problema del film è che questo personaggio “umano, troppo umano”, invecchiato e depresso, che combatte sempre stracciato e pesto secondo i canoni dell'action di oggi, tuttavia mantiene ancora certe caratteristiche dell'invincibilità bondiana: dal che risulta una sensazione di ingenuità. Un esempio è la sua ascesa verso il centro di comando della base dei cattivi: assomiglia a quei western italiani in cui Giuliano Gemma o Anthony Steffen camminavano e sparavano con le loro pistole inesauribili facendo fuori due dozzine di banditi senza riportare nemmeno un graffio (ma là c'era una deliziosa naïveté di messa in scena, cui per definizione non può aspirare un film “revisionista” come questo). In una parola, gli sceneggiatori vogliono insieme un Bond ultra-umanizzato e il bondismo classico: la botte piena e la moglie ubriaca.
C'è molta azione in No Time to Die, ma di qualità non eccelsa per lo standard bondiano. Niente di paragonabile, per esempio, all'apocalisse esplosiva a Città del Messico all'inizio di Spectre di Mendes. Anche le scene più spettacolari, come quella a Matera, sono inferiori a ciò che sa fare, col budget adeguato, un buon regista asiatico (sto pensando per esempio a Line Walker 2: Invisible Spy di Jazz Boon). Sono più emozionanti le sparatorie di John Wick – o 6 Underground di Michael Bay. In questo film lavora più il montatore che il regista; la regia di Cary Fukunaga è piuttosto piatta, di servizio. In due ore e quaranta minuti c'è una sola buona idea di regia: quando, verso la fine, Bond si trova – inquadrato a distanza – in una galleria dalle pareti circolari, spara con la pistola verso la mdp come nella sigla classica della serie. Inevitabile pensare con rimpianto a molta possibile bellezza cinematografica sprecata. Un giardino di piante velenose! Ian Fleming era talmente incantato dall'idea che nel romanzo Si vive solo due volte rischia di sacrificare ad essa l'azione drammatica, Qui c'è un giardino del genere, ma sembra l'orto della nonna.
Quanto
al villain, tutti i
cattivi di 007 amavano monologare, ma avevano sceneggiatori migliori
a scrivere i loro discorsi. Qui il supercattivo Lyutsifer Safin (il
modesto Rami Malek) è tanto vacuo quanto è sciocco il suo nome, e i
suoi discorsi seriosi sono una scocciatura; mentre il mad
doctor alle sue dipendenze
(David Dencik) è un tentativo alquanto penoso di fare dell'umorismo.
Il film si sente anche in obbligo di sviluppare alla fine con una
lunga tirata un concetto che era già chiarissimo fin dal
tradizionale prologo con la vendetta del killer mascherato; ove –
con un equivoco in effetti interessante – lo spettatore è
incoraggiato a chiedersi se l'assassino di cui questo killer vuole
vendicarsi non possa essere James Bond stesso. Il concetto è che
Safin sia un doppio di Bond, essendo entrambi assassini
professionisti (il defunto Ian Fleming obietterebbe che 007 è “al
servizio segreto di Sua Maestà” – ma non sono tempi).
Il personaggio
migliore, e la sorpresa migliore nel reparto attoriale, è la
bellissima Paloma (l'attrice cubana Ana De Armas), agente CIA alleata
di Bond, in un'interpretazione vivace e spiritosa, oltre che
piacevolmente muscolare. Surclassa la letargica e impacciata Lashana
Lynch, la 007 sostitutiva, che ha il carisma di un monopattino. Se il
film è un esperimento per una possibile futura Bond donna, siamo
messi male.
In conclusione... non per il revisionismo in sé ma per il suo revisionismo artificioso, goffo e spompato, nonché per il ritmo incerto e la regia piatta... qualunque sia il destino futuro di 007 No Time to Die non è solo il peggior Bond di Daniel Craig ma uno dei peggiori in assoluto.
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