Hamaguchi Ryusuke
Il maestro giapponese
Hamaguchi Ryusuke è regista di forte impronta teatrale (i tre
episodi del suo recente Il gioco del destino e della fantasia
si possono definire tre atti unici): fra i classici in area
giapponese come maestri del cinema parlato quali Ozu e Naruse, ma
anche come Ingmar Bergman, col quale ha in comune la potenza del
dialogo (parole e silenzi) accompagnato dall'uso delle fisionomie in
una scansione magistrale delle inquadrature.
Tutto ciò è portato
al calor bianco nell'appassionante Drive My Car, tratto da due
racconti di Murakami Haruki, che approda adesso nelle sale italiane
distribuito, come il film precedente, dalla Tucker Film. La
fotografia è di Shinomiya Hidetoshi, con le luci di Takai Taiki, il
montaggio di Yamazaki Azusa.
Questo film di tre ore
è un'opera alta e straziante sul dolore umano (ma anche,
tipicamente, sulla responsabilità), sulla sua persistenza e sulla
sua necessaria consolazione: “Noi vivremo”. Questo è Čechov –
il sublime discorso finale di Sonja in Zio Vanja – ed è
appunto il capolavoro čechoviano che il regista teatrale Kafuku
(Nishijima Hidetoshi) mette in scena dopo una tragedia familiare. In
Drive My Car Hamaguchi (che firma la sceneggiatura con Oe
Takamasa) elabora armoniosamente una pluralità di temi, dall'amore
alla conoscenza, che permetterebbero mille discorsi; e se il dramma
di Čechov faceva capolino pure in Murakami, Hamaguchi ne fa il
fulcro del film. Le psicologie ferite del protagonista e di Misaki
(Miura Toko), la ragazza che gli fa da autista sulla sua Saab rossa,
si stagliano nel contesto della preparazione di una rappresentazione
di Zio Vanja a Hiroshima.
L'ambientazione durante
la costruzione di uno spettacolo teatrale consente a Hamaguchi di
realizzare il suo personale Paradosso dell'attore. La
recitazione viene dal profondo del cuore. Fuori dal palcoscenico, è
recitazione (come in Murakami) pure il rapporto fra Kafuku e
Takatsuki (Okada Masaki), l'amante di sua moglie morta, in una
situazione ambigua in cui il secondo ignora che il primo sa. E'
interessante notare che anche sul personaggio fantasmatico della
bambina Sachi che conosciamo di scorcio attraverso il racconto di
Misaki nel finale – una “seconda personalità” della madre
violenta di lei – si stende il sospetto della recitazione.
Quella che Kafuku mette
in scena a Hiroshima è una rappresentazione multilingue, con
l'ausilio del solito schermo per la traduzione che si usa per le
produzioni in lingua straniera. A sorpresa, fra il coreano, il
mandarino e il Tagalog filippino, è compreso anche il linguaggio dei
sordomuti, per l'attrice muta che interpreta Sonja (la bravissima
interprete è la coreana Park Yoo-rim). Sembra un paradosso, ma nel
finale del film la sua resa del già menzionato discorso finale in
questo linguaggio gestuale raggiunge una potenza da brividi.
In tutto il suo cinema
Hamaguchi insiste moltissimo sul potere delle parole – che
viene ancora accresciuto da quelle potentissime di Čechov, che
incarnano la vita stessa. “Čechov è terrificante. Quando dici le
sue battute, tira fuori il vero da te”. Questa
osservazione di Kafuku è la chiave per intendere il complesso
rapporto fra il testo teatrale e la sceneggiatura del film.
Le
parole di Čechov assumono una risonanza profonda in Drive
My Car. Ma più che un
rispecchiamento dell'azione, le battute che la voce della moglie
morta recita nell'audiocassetta ascoltata in macchina suonano come un
memento.
Beninteso, non mancano delle raffinate “rime”, ma non è questo
che importa a Hamaguchi, tanto che esse sembrano pertinenti piuttosto
all'eleganza di montaggio che a una vera corrispondenza ideale.
Ovvero, a Hamaguchi non interessa che il testo čechoviano
duplichi l'azione drammatica del plot (sarebbe troppo facile), bensì,
piuttosto, rispecchi il complesso della vita umana quale emerge
attraverso quest'azione drammatica. Hamaguchi si unisce a
Čechov per parlare, con una stessa voce, di tutti noi.
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