Denis Villeneuve
Dune,
il romanzo di Frank Herbert del 1965, primo di una serie, è una
pietra miliare della fantascienza per la scrittura e la vastità del
disegno. Come Tolkien, Herbert costruisce un'intera civiltà nei suoi
dettagli antropologici; e riflette lo spirito “antisistema” di
quel decennio nella sua visione di un mondo umano crudele e tragico
(vi allude anche il nome Atreides) dov'è centrale il concetto di
cospirazione. Al centro sta la “spezia” del pianeta Arrakis/Dune,
che dilata la coscienza – un riflesso della “cultura della droga”
degli anni Sessanta – e consente i viaggi nello spazio, per cui
dalla sua estrazione dipende tutta la galassia. Chiaramente Herbert
ne fa una metafora del petrolio (anticipando nella minaccia di
distruggere tutta la “spezia” il grande shock petrolifero del
decennio seguente); ed è solo uno dei vari riferimenti alla cultura
arabo-musulmana, dalla quale Herbert è molto influenzato.
Romanzo
psicologico di formazione, racconto d'avventura fantastica, disegno gigantesco
di una civiltà futura e di una cultura che si situa al suo opposto,
cronaca della nascita di una religione, Dune ha
l'ambizione tipica della fantascienza degli anni '60 di innalzare il
genere a una dimensione “di pensiero” lavorando in profondità
sui suoi topoi. Una
parte fondamentale dell'apparato retorico della fantascienza è
l'introduzione di termini futuristico/esotici d'invenzione impiegati
con la stessa naturalezza di quelli usuali, dandone la spiegazione in
forma indiretta. Herbert porta all'estremo questo procedimento (tanto
da mettere in appendice un dizionario, anch'esso intradiegetico). Il
suo romanzo ha avuto un influsso capitale sul fantastico americano:
non si può concepire Guerre stellari
senza Dune, e i
suoi Sabbipodi sono i
veri Fremen herbertiani.
Per
la versione cinematografica di Dune, nacque in Francia e morì a Hollywood il progetto
ambiziosissimo di Alejandro Jodorowsky, del quale ci restano
affascinanti disegni e lo storyboard, visibili nel bel documentario
di Frank Pavich Jodorowsky's Dune
(del 2013 ma uscito in Italia sull'onda del Dune
di Villeneuve). La figlia di Dino De Laurentiis, Raffaella, si
rivolse a David Lynch, fresco del successo di Elephant Man.
Il suo Dune (1984)
estremamente innovativo fu però un flop di pubblico e di critica;
Lynch stesso ne parla come un fallimento. Eppure...
Frank
Herbert nel suo testo, a marcata focalizzazione interna, usa molto la
“voce di pensiero”, segnalandola in carattere corsivo, pur se
mantiene indicatori come “pensò”. Il Dune
di Lynch è geniale nell'uso della voce interiore over: la udiamo
anche nelle scene di dialogo, non solo per il protagonista Paul
Atreides ma per vari personaggi (quasi mai il villain
Barone Harkonnen, perché questi esprime a gran voce i propri
sentimenti, secondo una sorta di impudicizia
che lo caratterizza). Si può osservare che così, in un film che
inizia con una prova di telepatia (la sacerdotessa imperiale), gli
stessi spettatori diventano telepatici. Con le visioni di Paul,
inoltre, Dune amplia
perversamente i meccanismi del flash-forward e dell'anticipazione.
Tutto il film possiede una specie di sospensione straniata e onirica
molto lynchana.
Nel
cinema di Lynch ha un ruolo centrale l'aspetto scenografico; su
questo piano Dune è
sontuoso e spiazzante: le sue soluzioni visuali creano quel “tempo
misto” fra diverse epoche che caratterizza l'opera del regista. Il
suo Undicesimo Millennio è uno strano incrocio di stili arcaici,
ottocenteschi e futuristici. Basta pensare alle divise di gala – o
alla navetta con cui il Duca Leto esplora per la prima volta il
deserto: è più vicina a Jules Verne e al Nautilus che al modernismo
della fantascienza dei Cinquanta e Sessanta.
Il
difetto peggiore – come segnala Michel Chion nel suo bellissimo
libro su David Lynch – è che Lynch come regista è
irreparabilmente a disagio nel dirigere scene di massa, specie nei
combattimenti. Anche il grande attacco finale alla capitale è
deludente. E tuttavia quando ci spostiamo all'interno del Palazzo,
con la grande scena finale dove l'ultima parola spetta
all'inquietante bambina Alia (così aliena
che sarebbe degna della Loggia Nera), ne usciamo risarciti. In ultima
analisi il Dune di
Lynch era un film più avanti del suo tempo.
Ora
è arrivato sugli schermi il Dune
di Denis Villeneuve, o meglio la sua Part One (mi scuso di non conoscere le miniserie tv di John Harrison e Greg Yaitanes).
Tagliando un po' con l'accetta per chiarezza, nel passaggio dal
letterario al filmico vi sono trasposizioni di tipo prevalentemente
illustrativo, trasposizioni dove prevale un aspetto interpretativo,
e vi sono “tradimenti” (spesso proficui). Questa di Villeneuve
(sceneggiatura di Villeneuve, Eric Roth e John Spaihts) è una
trascrizione di tipo eminentemente illustrativo – il che non va
assolutamente inteso in senso negativo. L'acribia di Villeneuve nel
materializzare sullo schermo il testo di Herbert si spinge ai minimi
particolari (le palme in fiamme); il suo impegno in questo senso fa
sì che il suo Dune
possa essere interamente goduto solo da chi ha letto il romanzo
(altrimenti, per esempio, il personaggio di Thufir Hawat resta poco
comprensibile). Detto in margine, qui va segnalato un difetto di
sceneggiatura: lo spettatore resta un po' spiazzato se ignora che
nell'universo di Dune
non esistono i computer, in seguito a un'antica guerra di religione
contro le “macchine pensanti”; e sarebbe stato opportuno un
accenno in merito nel film.
E'
una partita di inganno e di violenza tra la Casa Atreides e i Fremen da
un lato, gli Harkonnen e l'Imperatore dall'altro. Gli Atreides si
muovono in una “selva oscura” di minaccia e tradimento (la stessa
concessione imperiale del pianeta Dune, prima posseduto dagli
Harkonnen, è una trappola). Anche sull'amore fra il Duca Leto e
Jessica (Rebecca Ferguson), che gli ha dato Paul, si stende l'ombra
dell'appartenenza di Jessica all'ordine delle Bene Gesserit, che
cerca di manovrare nell'ombra i destini dell'umanità. Paul Atreides
(Timothée Chalamet) è un frutto (imprevisto) del secolare programma
genetico delle Bene Gesserit che mira a produrre il Kwisatz Haderach,
la mente che unisce lo spazio e il tempo: è tormentato dalle
visioni, incerto sul suo ruolo, tormentosamente smarrito circa se
stesso (in una scena del film accusa la madre: “Voi Bene Gesserit
avete fatto di me un mostro!”). Basta questo accenno per vedere
come Dune sia il
romanzo perfetto per Villeneuve per esprimere interessi e ossessioni
che hanno attraversato tutto il suo cinema.
Nelle caratteristiche
psicologiche dei personaggi viene trascritto con agilità il romanzo.
Una dignità dolorosa caratterizza la famiglia degli Atreides,
segnata dalla consapevolezza di camminare su un terreno minato dal
tradimento. Anche il linguaggio segreto dei segni cui ricorrono
Jessica e Paul rende un universo cospirativo dove l'insicurezza e la
diffidenza sono la norma. Dall'altro lato dello spettro morale,
Villeneuve trae buon effetto dalla capacità di levitare (grazie a
sospensori antigravitazionali) del malvagio Barone Harkonnen (Stellan
Skarsgard). La scena in cui, sfuggito per un pelo all'attentato col
gas velenoso, viene scoperto che tossisce attaccato al soffitto come
un insetto è più efficace che nel romanzo.
Villeneuve
è un pittore del cinema, un maestro del paesaggio. Sul piano visuale
Dune, con la
fotografia di Greig Fraser, è incredibilmente spettacolare: i
panorami (dalle onde di sabbie del deserto su Arrakis all'umida
distesa con le tombe degli Atreides su Caladan), le architetture, le
macchine, i riti (la scena dei Sardaukar su Calusa Secundus, che non
esiste nel romanzo), i costumi (ottimo l'aspetto “cerimoniale”,
necessario per un film che si svolge fra l'aristocrazia dell'anno
10191), inseriscono l'enfasi dell'azione in una scenografia magica e
teatrale. La musica martellante di Hans Zimmer serve in alcuni punti
a un vero effetto ipnotico, mentre altrove, in accordo con la
dimensione colossale del racconto, non è priva di richiami
wagneriani.
Star
Wars è un riferimento
obbligato. Se Villeneuve si autocita nelle astronavi, che ricordano
Arrival, è puro Star
Wars l'arrivo della navetta al
castello degli Harkonnen, o lo schieramento che accoglie il Duca Leto
Atreides al suo sbarco su Arrakis. Peraltro, già lo abbiamo detto,
Frank Herbert sta alla base di Star Wars in
generale.
A
questa sua “tavolozza sensoriale” Villeneuve si accosta sul piano
strettamente registico con una sorta di classicità. La sua regia si
fa invisibile – e così pone in primo piano lo spettacolo
(non inteso solo nel senso puramente visivo ma come una specie di
dimensione walshiana dell'avventura). L'azione essendo emozionante,
produce uno dei suoi film migliori in assoluto. Si può osservare che
Villeneuve è un regista che “si getta” totalmente, con vero
entusiasmo, nelle sue sceneggiature; questo è un pregio, ma anche un
difetto quando le sceneggiature hanno dei limiti (per esempio –
riconosco che questa è un'opinione di minoranza – quando scrive
Taylor Sheridan), creando quell'impressione contraddittoria, “bella
regia vs. sceneggiatura” che si trova a volte nei suoi film.
Anche in base a questa
scelta di classicismo Villeneuve trascura, contrariamente a Lynch,
l'aspetto della voce interiore così presente nel romanzo. Invece
punta ancora di più sul paradosso temporale vivente che è Paul
Atreides, il quale vede il futuro, o meglio le varie possibilità
future: prima ancora che per le proprietà allucinogene della
“spezia”, che agisce da catalizzatore, perché Paul è
effettivamente il Kwisatz Haderach.
Dune
(il romanzo) pone un concetto fruttuosamente ambiguo col quale i vari
progetti cinematografici hanno dovuto fare i conti. L'ambiguità fra
razionalismo e misticismo. L'assurgere di Paul a Messia dei Fremen:
credenza impiantata dalle Bene Gesserit o profezia autentica? Paul
Atreides: frutto di una lunga selezione genetica o realizzatore del
disegno divino? O entrambe le cose contemporaneamente.
Lynch
e specialmente Jodorowsky spingono verso il polo del misticismo,
contrariamente a quello più razionalista del romanzo. Per
Villeneuve, è presto per dirlo. Non dimentichiamo che il suo Dune
è solo il “primo tempo” dell'opera. A questo Villeneuve fa
alludere Chani (Zendaya) con una sorta di strizzata d'occhio
metanarrativa: le ultime parole che sentiamo nel film, pronunciate da
questa ragazza Fremen, sono “Questo è solo l'inizio”.
In conclusione, si può
dire che David Lynch nella sua versione si sia maggiormente
avvicinato al substrato mitico presente nel romanzo. Ma la versione
di Villeneuve ne dà un'illustrazione sfarzosa che non è solo un
piacere per gli occhi ma di più.
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