Maung Sun
Il nostro cuore sta col
popolo birmano oppresso dal colpo di Stato, e questo sentimento
coincide con la presenza al FEFF di un film che, come avverte una
didascalia all'inizio, celebra i 100 anni del cinema birmano. Money
Has Four Legs è una commedia disinvoltamente cinefila, in cui il
regista esordiente Maung Sun ha riversato un elemento autobiografico
ispirato alla sua vita di cineasta indipendente. Non per nulla il
film inizia con il regista protagonista Wai Bhone (Okkar Dat Khe) che
ascolta il monologo del dirigente della censura: troppo fumo, troppe
parolacce, troppo sesso, i cattivi devono costituirsi o morire alla
fine, ci vuole un messaggio pro-polizia – dopo di che il censore
ammazza una mosca sbattendoci sopra la Legge sul Cinema del 1996.
Wai Bhone è un giovane
regista, figlio di un premiato maestro defunto, alle prese col suo
primo lungometraggio dopo dei filmetti straight-to-video. Sta
girando il remake di un classico film di gangster birmano del 1940,
Bo Aung Din (che fu diretto da Shwe Done Bi Aung, con Khin
Maung Yin nel ruolo del protagonista). Wai è pieno di guai personali
e professionali: la famiglia non ha un soldo ma la moglie Sleazir
(Khin Khin Hsu) vuole mandare la figlioletta Meemi a lezioni private;
sul set, in aggiunta ai problemi con la censura (eterno flagello del
cinema birmano), gli attori fanno quello che vogliono, mancano i
permessi per le location, e Wai è in lite col produttore – amante
di un'attrice incapace – che vuole più scene d'amore perché
costano meno di quelle d'azione. Peggio ancora, suo cognato Zaw Myint
(Ko Thu), un ex galeotto ubriacone preso come comparsa, gli rompe la
macchina da presa, e Wai non sa come fare a ripagarla.
Nella disperazione, Wai
decide di rapinare assieme a Zaw una banca disonesta che sta per
chiudere dopo aver rovinato i correntisti. Inutile raccontare tutto
lo svolgimento tragicomico che segue... Il finale coi soldi che
volano via ha un sapore alla I soliti ignoti (si sa, i “colpi”
dei poveracci non possono riuscire). È molto intelligente
l'accostamento di questa scena in montaggio parallelo con il rito
buddhista che si svolge in contemporanea per benedire la casa: la
preghiera sulla condivisione dei meriti si applica pure a queste
banconote disperse per strada e raccolte dalla gente. Molte banconote
finiscono anche nell'acqua del fiume: l'inanità del desiderio nella
forma gentilmente ironica del film, dove i riferimenti al buddhismo
non sono rari.
Michel Hazanavicius
(The Artist) è accreditato come consulente alla
sceneggiatura. In sintonia con l'ambientazione cinematografica, il
racconto si consente un paio di scherzi metanarrativi gustosi. A un
certo punto, per esempio, vediamo il “finale”, con tanto di fermo
immagine sul protagonista e credits che cominciano a scorrere
– ma solo per scomparire subito, perché arriva una telefonata, il
film riprende e la storia continua per altri quindici minuti. Con un
uso ripetuto di canzoni che fanno da commento alla situazione (ma il
più divertente coinvolge l'opera teatrale Ramayana), il film
ha qualcosa di cordiale nella sua semplicità; si vede con
piacere e se ne apprezzano i dettagli, compreso lo sguardo fugace sui
dirimpettai del protagonista. La bella fotografia, non lirica,
firmata Thaiddhi restituisce realisticamente una Rangoon povera e
affollata.
Catalogo FEFF 23
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