Marco Bellocchio
La famiglia, la
religione, la ribellione, la follia, i punti nodali del cinema di
Marco Bellocchio, ruotano, si sa, attorno a una dimensione
marcatamente autobiografica. Bellocchio non solo trasfonde
nell'elaborazione artistica singole esperienze e traumi della sua
vita, come il suicidio del fratello, ma vi porta tutto un insieme di
ricordi, atmosfere, suggestioni. E' questo uno dei vari tratti che lo
accomunano a Luis Buñuel e ai suoi tocchi di reminiscenza “privata”,
potremmo chiamarli micro-biografici (per esempio i tamburi di
Calanda). La figura ricorrente del pazzo che urla o bestemmia (L'ora
di religione) rimanda al fratello maggiore psicotico – e I
pugni in tasca è costruito sull'evocazione del desiderio
inconscio e inammissibile della sua morte. L'ossessione per la
religiosità tradizionale cattolica è legata, prima che
all'educazione dai Barnabiti, all'atmosfera familiare e alla figura
della madre (“La mamma era ossessionata dall'Inferno e dal
Paradiso”, sentiamo in Marx può aspettare). Da incrociare
con la figura del padre che rifiuta i conforti religiosi (“Va via
pretaccio!”) sul letto di morte. Dell'antipatia di Bellocchio per
le strutture formali del cattolicesimo, per la pompa (per fare
due titoli su un lungo arco temporale si va da In nome del padre
a Sangue del tuo sangue), si capisce il background
biografico ed emozionale. Nota in margine: ho detto antipatia e va
bene, ma – Bellocchio essendo un autore barocco – in questa c'è
anche un'attrazione oscura.
Non ignoto già prima,
ora questo background biografico si precisa nell'abbacinante
Marx può aspettare. Bellocchio, che ha già usato molto la
forma del documentario familiare (Sorelle), si apre come non
mai, costruendo il film sulla figura del fratello gemello Camillo,
morto suicida nel 1968.
“Si sentiva un
fallito”, tra la mancanza del successo scolastico e l'incertezza su
cosa fare nella vita – e questo in una famiglia colta con figure
brillanti come i fratelli Pier Giorgio (Quaderni Piacentini)
e Marco, giovane regista premiato a Locarno e Venezia. Camillo,
apprendiamo qui, aveva anche scritto una lettera a Marco chiedendogli
un parere sulla possibilità di cercare anche lui una carriera nel
cinema. Chissà se ha un senso che ne La Cina è vicina
(1966) il personaggio dello studente maoista che rovina in modo
farsesco il discorso del candidato socialista abbia nome Camillo?
Dopo aver fatto l'ISEF Camillo sembrava aver trovato una
sistemazione; ma, racconta Marco parlando dell'ultimo incontro nel
1968, “era molto scontento”. Al suo malessere Marco rispose con
“quattro cazzate rivoluzionarie”, al che Camillo replicò “Marx
può aspettare”. “Voi eravate talmente occupati a salvare il
mondo... – parla la sorella dell'allora fidanzata di Camillo, la
cui presenza educatamente ma fermamente critica nel film di
Bellocchio è implicitamente autocritica – che non vi siete accorti
che avevate in famiglia una persona assolutamente fragile”. Però
Marco, (che era andato a Roma) poco prima è stato ancora più duro:
“Io proprio mi annullai”.
E quando a proposito di
Camillo sentiamo “Percepiva che non avevate stima di lui”,
colpisce molto ritrovare nella sua vicenda umana, effettuale, quella
domanda di riconoscimento impossibile che accomuna i
personaggi bellocchiani – e la sua mancata soddisfazione come causa
ultima del suo suicidio.
Con questo suicidio
Bellocchio aveva già drammaticamente fatto i conti in forma traslata
ne Gli occhi, la bocca (che pure contiene la frase “Marx può
aspettare”), il quale naturalmente compare tra i brani che vediamo
nel presente film. Ma qui lo prende di petto, in forma documentaria,
senza mediazioni.
Della necessità della
maschera “per difendersi, sopravvivere, e vivere” parlava
Bellocchio in una vecchia intervista sul suo Enrico IV nel
1984. Ci si potrebbe chiedere se la rielaborazione artistica di una
tragedia personale non sia essa stessa un modo sottile, e necessario,
di mettere una maschera – una protezione, una pellicola, uno
spessore – tra la propria pelle nuda e il fatto terribile. In Marx
può aspettare non ci sono più maschere. E' un processo rivolto
a se stesso, anche in presenza dei figli Pier Giorgio ed Elena, non
meno coraggioso che impietoso. Di qui l'obbligo di scavare non solo
nel groviglio delle responsibilità ma nelle cose più minute, nei
dettagli più minuti. Il tragico è che comprendiamo le cose solo
dopo che sono successe: prima vige l'ignoranza pigra del quotidiano.
E', quello di Bellocchio, un mettersi a nudo quasi chirurgico (e non
dimentichiamo la lunga esperienza di Bellocchio con la psicoanalisi,
sebbene non ortodossa) sul suo essere mancato, al pari degli altri familiari: un'analisi del passato che diventa
un'autoanalisi, e mette in luce l'aspetto più tremendo delle
questioni morali: l'irreparabilità del tempo. Qualsiasi ricerca del
genere è un rito di espiazione.
Questo termine ci porta
direttamente all'aspetto religioso. L'impressionante racconto, da
parte della cognata Pia, della scoperta e della deposizione di
Camillo morto è appunto una Deposizione. Il racconto è denso di
immagini religiose (“C'era la mamma – crocefissa proprio”), con
un senso che va oltre la soggettività di chi parla. Anche
Bellocchio, come Don Luis, è “ateo per grazia di Dio”; ma,
potremmo aggiungere, con più inquietudine. Assai intelligentemente
padre Virgilio Fantuzzi, il gesuita qui intervistato, dice a
Bellocchio che lo riconosce come un suo penitente, e lo potrebbe
assolvere, avendo visto i suoi film che sono tappe della sua
confessione: lo schermo al posto della grata del confessionale.
In uno di quei grandi
finali bellocchiani, immaginari e simbolici, che non si dimenticano,
Marco incrocia un uomo – per noi di spalle – che corre in
direzione inversa; dalla tuta ISEF “riconosciamo” il fratello
morto; Marco si volta a guardarlo mentre quello corre e si allontana.
E' un senso di pacificazione. Quest'assunzione di responsabilità,
seguita a questo scavo nel passato, ora consente di lasciar
andare.
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