Dopo l'edizione solo
online, a causa della pandemia, dell'anno scorso, il Far East Film
Festival 2021 si è svolto a fine giugno in forma doppia: dal vivo
sul grande schermo, non al Teatro Nuovo Giovanni da Udine bensì ai
cinema Visionario e Centrale, e online sulla piattaforma MyMovies –
con alcune eccezioni da un lato e dall'altro.
La domanda da un
milione di dollari è: cosa ci aspetta per l'edizione 2022? E' certo
(toccando ferro) il ritorno sia alla collocazione a fine aprile sia
al Teatro Nuovo. Ma è altrettanto certo che al Visionario rimarrà
un ruolo centrale nel festival.
Inoltre c'è la
grande questione della trasmissione online. Su questo, è prematuro
discutere. Ma una cosa, a parere di chi scrive, è sicura, e vale per
tutti i festival cinematografici e non solo per il FEFF: la
dimensione online non è stata un semplice ripiego dovuto a un anno
di lockdown, ed è qui per restare.
Ecco uno sguardo ai
film, premettendo che ovviamente non li ho visti tutti. Di una
ventina ho pubblicato una recensione o una scheda breve sotto il
presente articolo.
Cominciamo dal
Giappone, che quest'anno è stato il più ricco – tallonato
da Hong Kong – sia come qualità sia come quantità. Vedi schede
sotto per Hold Me Back di Ohku Akiko, Ito di
Yokohama Satoko, Jigoku-no-hanazono OFFICE ROYALE di Seki
Kazuaki, Midnight Swan di Uchida Eiji.
Last
of the Wolves
di Shiraishi Katsuya è il seguito di The
Blood
of Wolves,
che
mostrava
una fantasia visuale barocca e un realismo naturalistico nella
narrazione. Vi ritorna il poliziotto Hioka (Matsuzaka Tori) che, dopo
la morte di Ogami (Yakusho Koji) in Blood,
ha ereditato la sua politica di immischiarsi fra le gang yakuza per
mantenere la pace. Ma deve vedersela con lo yakuza psicopatico
Uebayashi, appena uscito di prigione. Costui, la tradizionale figura
di super-villain debitamente ghignante e odioso, colpisce più di
Hioka: il film vorrebbe mostrare in quest'ultimo l'uomo che ha fatto
un patto faustiano e ne è travolto ma gli fa fare piuttosto una
figura barbina. Senza dubbio il film è spettacolare come Grand
Guignol yakuza-style.
Però lo danneggia gravemente, oltre alla necessità di appoggiarsi
sul film precedente, una dose di forzature e implausibilità che lo
rende inferiore al barocchismo di Blood.
Blue di
Yoshiha Keisuke è un buon esempio di cinema sportivo sulla boxe
(come Underdog, che non ho visto). Bello il montaggio, assai
netto e preciso, di una secca sobrietà, fra una scena e l'altra. Gli
incontri sul ring sono assai ben resi, con una chiarezza che si
oppone al gusto contemporaneo del racconto a flashes. Le
figure dei personaggi riprendono quelle di tanti film sul pugilato:
il campione che si ritrova il cervello danneggiato dai colpi
(Higashide Masahiro), la sua donna che soffre per questo (Kimura
Fumino), il bravissimo teorico del gioco che però sul ring perde
sempre (Matsudara Kenichi), il rookie in ascesa (Emoto Tokio,
che è il personaggio più originale, in parte per un paio di bei
tocchi di comedy, in parte per una faccia memorabile). Per
fortuna l'abilità del regista Yoshida non fa avvertire la
prevedibilità e guida il racconto con sicurezza fino a una bella
conclusione.
The Goldfish:
Dreaming of the Sea di Ogawa Sara: in una casa-famiglia per
orfani, una diciottenne di nome Hana si affeziona a una bambina
piccola, Harumi, che all'inizio sembra autistica – poi vediamo che
è shockata perché era picchiata dalla madre, cui è stata tolta. Ma
anche Hana ha un passato che le fa male. Che Ogawa Sara abbia
imparato da Kore-eda si vede. E' brava (alla Kore-eda) nel dare
concretezza a momenti significanti, come andare a mangiare sotto un
albero o correre a cercare un riparo perché piove. Inoltre Ogawa
(lei stessa attrice) ottiene buone interpretazioni, e non solo perché
i bambini rubano sempre la scena. La piccola Hanada Runa (Harumi è
eccezionale) anche per una capacità della regia di
cogliere/costruire la pregnanza di un'espressione. Un paio di sue
inquadrature nel film fanno veramente provare un brivido.
The
Wheel of Fortuna and Fantasy
di Hamaguchi Ryusuke, Orso d'Argento all'ultimo festival di Berlino,
è
un film intenso che si focalizza sul mondo femminile per esplorare
in tre episodi le “intermittenze del cuore”, con una delicatezza
di sguardo – come è stato scritto – quasi rohmeriana. Sono tre
episodi con quattro protagoniste femminili (l'ultimo episodio è a
due), splendidamente interpretati; ma vanno elogiate anche le figure
di contorno maschili e femminili: il regista Hamaguchi ha fra le sue
varie doti una particolare capacità di direzione degli attori.
Dentro il gioco del caso e dell'immaginazione... questo il
significato del titolo... si svolgono i tre incontri, ciascuno dei
quali insegna qualcosa sull'amore alle protagoniste – e a noi.
Lasciando
perdere il modesto You're
Not Normal, Either! di
Maeda Koji, segnalo in conclusione l'ottimo documentario SUMODO
– The Succcessors of Samurai
di Sakata Eiji, che non solo dà un quadro vivo e soddisfacente dello
sport del sumo ma potrebbe compiere il miracolo di trasformarci in
appassionati di questo sport!
Hong Kong è
la patria spirituale del FEFF, sempre nei nostri cuori. Vedi
schede sotto per Drifting
di Jun Li, Limbo
di Soi Cheang, Madalena
di Emily Chan, Shock Wave
2 di Herman Yau, Sugar
St. Studio di Sunny Lau,
Time
di Ricky Ko.
Girato
con abilità, The Way We
Keep Dancing di Adam
Wong è un seguito di The Way We Dance del 2013. E'
interessante l'argomento: il quartiere di Kowloon è diventato la
base per tutta la cultura di strada dello hip hop e adesso viene
travolto dalla gentrification con il conseguente aumento degli
affitti, per cui le varie band non hanno più dove andare. Senza
sorpresa, la polizia è al servizio delle grandi imprese edilizie.
Parte del gruppo protagonista viene convinta a mettere le loro
capacità al servizio di questo redevelopment con un progetto
chiamato Dance Street – e questo li pone in contrasto con le frange
più povere e radicali dei giovani che vi abitano. Segue un conflitto
di sentimenti fino all'ovvio pentimento finale, che però non cambia
le cose. E' interessante osservare come, sotto la novità concreta
della musica hip hop e della street dance, l'impianto sia molto
“vecchia Hollywood” (che vuol dire anche “vecchio cinema
hongkonghese”).
One Second
Champion di Chiu Sin-hang (co-regista di Vampire Cleanup
Department con Yan Pak-wing) riprende da Vampire la
nostalgia del vecchio cinema hongkonghese, sebbene in modo meno
evidente: One Second Champion si rifà al vecchio melodramma
sportivo made in Hong Kong (la figura del bambino, la sua sordità,
l'incidente, il bambino che assiste disperato mentre il padre
pugilatore ne prende un sacco). Tuttavia purtroppo il film è
piuttosto insoddisfacente. Il violentissimo incontro di boxe finale
può però essere una pagina di cinema sportivo interessante per gli
appassionati.
Assai migliore Hand
Rolled Cigarette di Chan Kin-long. Un prologo in b/n nel 1996
parla dei militari cinesi di HK che nello sciagurato Handover il
governo inglese abbandonò a se stessi, garantendo un passaporto solo
ai gradi alti. L'azione del film si svolge nel 2019, quando questo
gruppo è stato diviso dai fatti della vita. Chiu (Lam Ka Tung, aka
Gordon Lam) si barcamena come mediatore nell'ambiente della malavita.
A casa sua si rifugia, inseguito dagli uomini di un boss per ragioni
legate allo spaccio di droga, il giovane Mani che appartiene a una
minoranza di immigrati disprezzati. Il film è puro noir
hongkonghese; la fotografia di Rick Lau è moderna, col consueto uso
di colori acidi e alterati. Non è un film d'azione nel senso
isterico contemporaneo, anzi, si basa sulle atmosfere, ma i momenti
d'azione non mancano e il finale, come prevedibile, è un autentico
massacro. Il film si conclude con questa dedica: “A coloro che
continuano a lavorare duro per il cinema di Hong Kong – passando la
fiaccola alle future generazioni”. Questo dice tutto.
Zero
to Hero di Jimmy Wan è un film sportivo strappalacrime sulla
storia vera del campione hongkonghese delle Paralimpiadi So Wa Wai.
Nato con una paralisi cerebrale che gli inibisce i movimenti; cresce
e diventa un corridore grazie agli sforzi eroici di sua madre (Sandra
Ng, anche produttrice). E' il classico film di cui Dante direbbe “E
se non piangi, di che pianger suoli?” – ma tutta l'adesione umana
non può nasconderci l'evidenza della costruzione a effetto (del
resto, lo dichiara già il pomposo commento musicale).
Un'osservazione in margine. Il giovane attore che interpreta So Wa
Wai, con grande impegno naturalistico, presenta una prosthetic
che gli fa sporgere i denti in modo spaventoso. Chiaro che lo si
compiange lungo tutto il film. Poi sui titoli di coda appaiono le
foto del vero So Wa Wai; segue controllo su Internet; sorpresa, il
vero So Wa Wai aveva un aspetto molto più “normale”! Jacques
Rivette avrebbe avuto una o due cose da dire in proposito.
Nella
selezione hongkonghese svetta alto, insieme a Limbo,
Coffin
Homes
di Fruit Chan; ma questo film verrà recensito solo dopo la sua
uscita in sala. Infine: menzionare il cinema di Hong Kong significa
far salire immediatamente alla mente (e al cuore) un gruppetto di
grandi nomi, fra cui quello di Ann Hui. Ann Hui è la protagonista
del toccante documentario intimista Keep
Rolling
di Man Lim-chung, che ci illumina sulla sua personalità. E poi, come
non menzionare il film di chiusura, appena restaurato,
l'indimenticabile Infernal
Affairs
di Andrew Lauy e Alan Mak?
Taiwan.
Vedi schede sotto per
My Missing Valentine
di Chen Yu-hsun e per il restauro Execution
in Autumn di Lee Hsing.
Gatao:
The Last Stray di Ray
Jiang è uno spin-off della linea
narrativa di Gatao
e del suo seguito Gatao
2:
il protagonista non è Ren ma il suo vice Qing, ben interpretato da
Cheng Jen-shuo. “L'ultimo randagio” è Qing: il film narra del
tentativo di un villain
di introdurre la droga e mettere zizzania fra le due bande della
serie, e, in tale contesto, dell'amore fra Qing e una fotografa, Chi
(Hsieh Hsin-ying) che non appartiene al suo mondo. Francamente è un
po' uggiosa l'ingenuità di questa ragazza che non si rende conto di
cosa significhi la vita di un gangster – ma per fortuna il film ha
un buon montaggio veloce per cui non si sofferma oltremodo sul lato
sentimentale, tranne che alla fine. Meglio la descrizione della lotta
fra bande.
A
Man in Love di Yin Chen-hao è un melodramma sulla storia di
Cheng, un piccolo criminale attivo nel recupero debiti (Roy Chiu), e
del suo amore con una ragazza, Wu Ho-ting. Il film parte come comedy,
si trasforma in drama e finisce come puro mélo. Questo è uno
dei problemi principali: con questo trapasso non di generi ma di
sensibilità, il film appare poco o per nulla equilibrato (oltre che
piuttosto debole in sé). Certamente, ci si commuove nel finale
(anzi, nella proliferazione dei finali) – e chi non lo farebbe?
Cina
continentale. Vedi
schede sotto per Anima
di Cao Jinling, Endgame
di Rao Xiaozhi, Like
Father and Son di Bai
Zhiqiang.
Before Spring
Comes di Li Gen costruisce la narrazione prevalentemente per
scene brevissime, spesso impressionistiche, come a piccole
pennellate. Questo è funzionale al racconto, che, anche se gira
intorno al personaggio del giovane Li, mira a una dimensione
collettiva, quasi alla Altman. L'argomento è la vita degli immigrati
cinesi recenti in Giappone, e ruota intorno al piccolo ristorante
cinese a Tokyo dove lavora Li. Ci si affeziona a questi personaggi,
ciascuno con la sua storia, interpretati da buoni attori, fra cui un
cameo di Sylvia Chang.
Cliff Walkers
di Zhang Yimou, film di apertura del festival, è un'intricata storia
di spionaggio (comunisti cinesi contro gli occupanti giapponesi e i
collaborazionisti) ambientata negli anni Trenta. Il tema è
patriottico ma quella che soprattutto Zhang Yimou mette in scena è
la “nebbia del conoscere” connaturata a tutti film di spionaggio,
l'impossibilità di riconoscere amici e nemici. L'amico è un
traditore che fa il doppio gioco, dal finto nemico, in realtà amico
infiltrato, può venire un aiuto imprevisto. In questa nebbia si
sacrifica l'idealismo, in un film tragico e melodrammatico, ma ricco
altresì di splendide scene d'azione.
In The Eight
Hundred di Guan Hu invece chi è il nemico è chiarissimo: è di
fronte, in un film di guerra: l'epopea della resistenza di un
battaglione di soldati cinesi contro forze giapponesi soverchianti in
un magazzino militare a Shanghai nel 1937. Un fiume divide la zona di
combattimento da quella “pacifica” delle Concessioni occidentali,
e questa doppia partizione – con i cittadini dell'altra sponda che
osservano da fuori, ma sempre più coinvolti, la battaglia sull'altra
riva, dà a questo film assai ben realizzato una particolare
originalità.
E siamo alla Corea.
Vedi schede sotto per
Seobok
di Lee Yong Zoo e il restauro Suddenly
in Dark Night di Go
Yeong-nam.
Night of the
Undead di Shin Jung-won, vacuo titolo anodino (o ironico?) che
può trarre in inganno, è una gustosa commedia demenziale. So-hee,
sposata a un bellone innamoratissimo che sembra essere l'uomo
perfetto, sospetta che costui la tradisca e si rivolge a un
investigatore privato. Salta fuori dapprima che il marito se la
intende con una quantità inverosimile di donne in giro per tutta la
città in uno stesso giorno – al che noi spettatori possiamo solo
ammirare la sua resistenza. Ma poi si scopre che è un invasore
alieno (infatti gli piace bere benzina). Di qui nasce una farsa
scatenata con tentativi reciproci di ammazzarsi fra marito e moglie
(che arruola due sue amiche), col detective preso in mezzo, con
equivoci e rovesciamenti, e una gustosissima cattiveria (e no, alla
fine non si ricompongono). Un gran vantaggio del film sono le
interpretazioni. La protagonista Lee Jung-hyun (So-hee) ha una
capacità rimarchevole di passare da un'espressione all'altra –
cosa necessaria in un film sulla finzione e l'imbroglio reciproco –
nel giro di un secondo; le sue due sodali, la durissima Se-ra (Seo
Young-hee) e l'ingenua Yang-sun (Lee Mi-do), sono perfette spalle
comiche. Da menzionare anche il gelido Kim Sun-oh (l'alieno) e lo
stralunato Yang Dong-geun (il detective).
Deliver
Us from Evil
di Hong Wong-chan è un action
gangsteristico di medio livello, che però si lascia seguire
volentieri finché non si dà a esagerazioni eccessive. Un sicario
compie l'ultima missione uccidendo un boss della yakuza e progetta di
ritirarsi a Panama. A impedirglielo, due sviluppi che si intrecciano:
in Thailandia la sua ex moglie viene uccisa e sua figlia di nove anni
rapita; il fratello dello yakuza assassinato, un killer psicopatico,
gli dà la caccia per vendicarsi. Il protagonista (Hwang Jung-min)
attraversa il film con un aspetto desolato che gli cattura le
simpatie del pubblico; però sul piano spettacolare è più
interessante il killer, una buona interpretazione “inumana” di
Lee Jung-jae. Ci sono alcune ingenuità di sceneggiatura (Hwang
Jung-min che dopo essere stato pugnalato due volte corre come un
centometrista). Il comic relief è affidato alla figura di un
trans che collabora col protagonista, e l'idea sarebbe interessante,
se fosse appesantita da una recitazione stile Il vizietto. Bello, comunque, veder massacrare i trafficanti di bambini.
In
Voice
of Silence
di Hong Eui-jong (che non nasconde ispirazioni alla Coen) una “strana coppia”, Kim e Kang, smaltisce
cadaveri per la malavita. Kim (Yoo Ah-in di Burning)
è muto ed è il classico bruto obbediente; Kang (Yoo Jae-myung), che
lo ha allevato, mescola senza problemi il loro mestiere con una
fervida religiosità. Sono due buone interpretazioni ma in
particolare colpisce Yoo Ah-in, dovendo esprimersi solo con le
espressioni del viso. Un giorno vengono incaricati di occuparsi di
una bambina rapita per chiedere un riscatto. Ma poi il boss viene
ucciso e i due si trovano fra la bambina (cui Kim si affeziona) e una
banda di spietati venditori di bambini. Il film varia di registro,
andando dallo humour nero all'inevitabile patetico alla suspense
della parte finale.
Non vale molto la
commedia Ok! Madam di Lee Cheol-ha, con caos su un aereo in
volo e agenti nordcoreani. A tal proposito, interessante invece la
produzione americana Assassins di Ryan White. Nel
febbraio 2017 Kim Jong-nam, fratellastro (e pericoloso concorrente? O
informatore della CIA?) del dittatore nordcoreano Kim Jong-un, viene
assassinato all'aeroporto di Kuala Lumpur (Malaysia) da due donne che
gli spruzzano in faccia del gas velenoso sotto gli occhi di tutti.
Arrestate e a rischio di una condanna a morte, le due si difendono
così: erano state ingaggiate da qualcuno per fare a quello
sconosciuto quella che credevano fosse una burla innocua, genere
Scherzi
a parte.
Il documentario di Ryan White cerca di tracciare i contorni di questa
storia incredibile. Se fosse la trama di un film di spionaggio i
critici direbbero che è inverosimile.
Infine
ricordo la retrospettiva di quattro titoli sull'importante regista
Yoon Jong-bin (Beastie
Boys,
Nameless
Gangster,
Kundo:
Age of the Rampant,
The
Spy Gone North).
Thailandia.
Vedi scheda sotto per
The Maid
di Lee Thongkham.
Il titolo di The
Con-Heartist di Mez Tharatorn è un gioco di parole che incrocia
“rubacuori” e “re della truffa”. Ina è stata truffata da un
bellone che l'ha corteggiata, le ha chiesto un prestito e l'ha
ridotta in povertà. Quando incontra Tower, altro truffatore, un
bellone anche lui, lo costringe a farsi aiutare a recuperare i soldi.
Di qui parte la classica girandola di piani truffaldini sempre più
complicati e di fregature reciproche, che coinvolge altri complici.
E' un film un po' lungo forse, ma non c'è (quasi) momento che non
sprizzi vivacità. Colpisce l'eccellente recitazione: la protagonista
Pimchanok Luevidadpaibul ha una mimica deliziosa, Nadech Kugimiya
(Tower) fa un George Clooney thailandese con humour e convinzione, e
anche gli altri interpreti rendono il massimo. Personalmente, mi ha
fatto impazzire Pongsatorn Jongwilas nel ruolo di Jone, il fratello
(d'elezione) di Tower.
Indonesia.
L'horror Death Knot
è il dignitoso esordio come regista del noto attore indonesiano
Cornelio Sunny. Una donna si suicida impiccandosi e i suoi due figli,
Hari ed Eka, vanno al villaggio di lei, accompagnati dal marito di
Eka, Adi. Non la vedevano da anni; anche il padre l'aveva
abbandonata. Al villaggio scoprono che la gente la odiava perché
aveva fama di essere una strega. Da notare che la casa della madre
non è la solita casa piena di oggetti antichi dell'“horror
antiquario”ma una casa di campagna di una modernità povera, un
anonimato tetro. Molto atmosferico, il film si muove in
maniera decisa ed è capace di vivacizzare la narrazione inserendo
dove conviene delle immagini-shock. La storia parla di misteriosi
istinti suicidi per impiccagione che colpiscono la popolazione
locale. Molto bello, inquietante, il folle ghigno che compare sulla
faccia dei posseduti.
Malaysia
Hail,
Driver!
di Muzzamer Rahman: first
things first,
la fotografia in b/n (di Fairuz Ismail & Hafiz Rashid) è
senz'altro bella e si impone con notevoli inquadrature di Kuala
Lumpur, fra inquadrature architettoniche e veloci lampi di vita
cittadina. Il protagonista è un giovane malese, scrittore fallito
(ormai le riviste hanno chiuso perché le gente legge solo online),
che per sopravvivere fa il tassista abusivo. Fa amicizia con una
ragazza cinese che si prostituisce e va ad abitare con lei – non
come convivenza d'amore (i sentimenti sono inespressi fino alla fine)
ma d'amicizia e necessità. Per
inciso, lui non vede i colori, e ciò vuol porre un'analogia
(un
po' goffa) con la foto in b/n. La
fotografia
è più decisa della sceneggiatura: che è programmaticamente
impressionistica, tutta fatta di momenti, e in verità piuttosto
esile, anche se ciò rientra nel programma decisamente minimalista
del regista-sceneggiatore. Non mancano peraltro i riferimenti volanti
alla realtà malaysiana (le elezioni politiche, i difficili rapporti
fra malesi e cinesi, l'invidia degli indonesiani per il più
progredito vicino malaysiano).
Il
bel documentario Life
in 24 Frames a Second
di Saw Tiong Guan intervista quattro registi – l'indiano
Anurag Kashyap, il filippino Lav Diaz, il cambogiano Rithy Panh, e
John Woo (emigrato a Hong Kong da bambino coi genitori – che hanno
alcune cose in comune. La prima, un'infanzia o tragica da subito o
diventata tale: abusi sessuali, guerra, povertà, malattie infantili.
Si capisce che la storia più terribile è quella di Rithy Panh, che
ha vissuto da bambino l'auto-genocidio cambogiano dei Khmer Rossi. La
seconda: un amore nato già da bambini per il cinema, come territorio
dei sogni e dell'evasione, e in seguito diventato per loro (in forme
diverse) un modo per esprimere se stessi e cambiare il mondo. Queste
interviste sono assai interessanti sul piano biografico. Bello
sentire John Woo sostenere che i musical, che ama molto, hanno
ispirato il modo in cui dirige i suoi film d'azione; oppure Lav Diaz
affermare che i suoi film sono “emancipati” dalla regola delle
due ore e che lui non li considera lunghi, li considera liberi.
Soprattutto, c'è al fondo di tutto questo un'idea forte di
resistenza
che commuove.
Filippine.
Per ragioni diverse, non posso esprimere entusiasmo né per Son
of the Macho Dancer di
Joel C. Lamangan né per Fan
Girl di Antoinette
Jadaone (interessante però come volontaria autodistruzione del
protagonista Paulo Avelino, nel ruolo di se stesso, come figura
romantica). Assai meglio il bellissimo documentario di Grace
Pimentel Simbulan A Is for Agustin, che traccia un ritratto
del quarantenne Agustin, poverissimo carbonaio nella zona di
Zambales, il quale ha sempre avuto il desiderio di andare a scuola –
e così ci va, mescolandosi ai bambini (delizioso come questi a volte
non resistono al desiderio di guardare in macchina!). Agustin vive
con la moglie e il figliastro Nonoy, e il suo desiderio di studiare
si scontra con le esigenze della loro miseria, tanto più che Nonoy
deve andare alle superiori. Il documentario dà un quadro veramente
memorabile di vita quotidiana in questa famiglia e questo villaggio,
comprendente le uscite per andare a cantare in qualche fiesta
(Agustin è bravo con la chitarra) o magari per cantare in gruppo in
città a Natale davanti alle case in cerca di offerte. Il ritmo che
all'inizio appare un po' lento serve per entrare dentro queste vite,
e man mano l'adesione diventa tale che non si sente più lo scorrere
del tempo. A differenza del solito, le didascalie “di destino”
che appaiono alla fine non servono solo ad acquietare la curiosità
ma hanno anche un senso “poetico” commovente. Un film di grande
umanità.
Ricordo en
passant che il festival ha presentato una retrospettiva dedicata
al grande attore filippino Eddie Garcia, che intendeva onorare
nell'edizione 2020, e che è morto improvvisamente – a 90 anni,
ancora attivo – in un incidente sul set.
Infine, se non ci
sono stati film da Singapore, c'è una new entry del festival,
il Myanmar (Birmania). Vedi scheda sotto
per Money Has Four Legs
di Maung Sun. Ma anche in questa sede voglio ripetere che la
produttrice e co-sceneggiatrice del film, Ma Aeint (ospite a Udine
due anni fa), è stata arrestata dai militari e non se ne ha notizia
dal 5 giugno. Il regista Maung Sun attualmente si nasconde.
FREE MA AEINT!
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