Park Hoon-jung
Nel bellissimo film
noir coreano Night in Paradise di Park Hoon-jung, presentato
alla Mostra del Cinema di Venezia
nel 2020 e ora disponibile online, si ritrovano i temi
classici del genere in Corea: la vendetta, l'inganno, il tradimento
dei capobanda, l'aspro romanticismo, la crudeltà che colpisce gli
innocenti, la corruzione. Park Hoon-jung è un cineasta sperimentato
(sceneggiatore di The Unjust e I Saw the Devil, del suo
lavoro registico ricordo New World e il notevole dramma in
costume The Showdown). In Night in Paradise la novità
non sta nella trama o nei personaggi, con la possibile eccezione
della bella figura della protagonista femminile interpretata dalla
bravissima Jeon Yeo-been, ma nell'abilità e nella verve con cui Park
è capace di rinnovare e vivificare una storia non inedita.
Tae-gu (Uhm Tae-goo) è
un membro di una gang che per lealtà rifiuta di passare a una banda
più forte. Per questo si vede uccidere la sorella, malata di cancro,
e la nipotina. La sua vendetta fa saltare la pax mafiosa a
Seoul. In attesa di emigrare, Tae-gu si nasconde nell'isola turistica
di Jeju presso un trafficante d'armi, e si lega a sua nipote Jae-yeon
che è malata terminale (nota il raddoppiamento con la sorella); ma
ormai è in moto una spirale di rivalse e tradimenti – in cui
vedremo che non tutto è quello che sembra. Anche il feroce boss Ma
(Cha Seung-won), senza smettere di rappresentare l'immagine del più
cattivo nel film, alla fine almeno è quello che ha più dignità.
Nonostante l'approccio drammatico, il film contiene una corrente di
umorismo, anche metacinematografico: quando il poliziotto corrotto,
che vuole mantenere la pace e non vuole guai, rimprovera un capobanda
per la guerra che ha scatenato osserva che non sono più i tempi
delle guerre di mafia e ringhia: “Cosa state combinando? State
girando un film?”
Fa parte del panorama
del genere l'incrocio di melodramma e film d'azione, che raggiunge
nel pre-finale un livello parossistico. E' senz'altro attraente il
rapporto fra Tae-gu e Jae-yeon, che, malata e sofferente, tuttavia è
tough as nails (una declinazione interessante della sassy
girl di tanto cinema coreano): lui ingenuo e lei scafata, con la
disperazione tenuta bravamente in sottofondo. Molto bello l'uso
ritornante di un piccolo dialogo molto hard-boiled (sulla
domanda “Stai bene?”) in puro stile Bogart-Bacall. Il loro timido
– sotto aria da duri – semicorteggiamento fra lui e lei, in cui
non fanno altro che dirsi “Non sei il mio tipo”, non si
dimentica.
Quell'“essere per la
morte” che sta al fondo del noir coreano (e non solo) qui è
portato all'estremo – i due protagonisti sono condannati in
partenza – definendo un destino di morte che si stende su tutto il
film. C'è un romanticismo malinconico nell'immagine di Tae-gu che,
costretto a consegnarsi ai nemici, fuma l'ultima sigaretta guardando
il prato dove pascolano tranquillamente le mucche e poi il cielo.
Alla fine c'è spazio solo per la vendetta, in una resa dei conti
solennemente preparata da un gioco di variazioni d'inquadratura sul
viaggio di Jae-yeon in scooter verso lo showdown. L'ultima
scena sulla riva del mare cita all'inizio Truffaut, ma richiama
esplicitamente il “cinema suicida” di Kitano.
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