Kornél Mundruczó
Con Martin Scorsese in
veste di produttore esecutivo, il bellissimo Pieces of a Woman
è il primo film in lingua inglese del regista ungherese Kornél
Mundruczó, un habitué di Cannes, scritto dalla sua
collaboratrice e moglie Kata Wéber da una loro pièce del 2018.
Sviluppandosi in una serie di scene nel corso di un tragico inverno
in una Boston gelata, la storia racconta della morte di una neonata
durante un parto in casa andato male; i genitori Martha e Sean,
sospinti dalla madre di lei, mandano a processo la levatrice Eva per
negligenza criminale; ma la famiglia va a pezzi. Solo una conclusione
aperta lascia spazio a un'ipotesi di superamento della disperazione.
La materialità psicologica e la fisicità della lunga scena del
parto – realizzata in un piano sequenza di 24 minuti che la rende
ancora più potente – arrivano come uno shock emotivo. Quando si
profila il sospetto che le cose comincino ad andar male, l'angoscia
che sorge dalla preoccupazione sul viso muto della persona in carica,
la levatrice, è di raggelante autenticità.
Pur essendo – come
dichiara l'autore – un film volutamente americano, Pieces of a
Woman ricorda da vicino l'opera del grande polacco Krysztof
Kieslowski. Come in Decalogo, parla dell'imponderabile tragico
della vita (metaforizzato nel racconto di un ponte crollato per bocca
di Sean, che lavora nell'edilizia): un imponderabile cui nulla può
far fronte, non la scienza (“La medicina non è in grado di
spiegare tutto”) e men che mai l'iper-giuridicizzazione che è una
delle piaghe del nostro tempo. Parla del lutto: della sua
lacerazione, del suo effetto sulla psiche, della diversità tra
uomini e donne nel modo di viverlo. E parla del generale impasto di
dolore della vita (la madre sta diventando senile e comincia a
dimenticare le cose).
A interni dove spiccano
alcuni splendidi surcadrages si alternano tristi esterni col
bianco sporco della neve di città. E' magistrale la gestione del
campo/controcampo nella scena del discorso di Martha nell'aula del
tribunale: al suo primissimo piano si contrappone l'inquadratura
della madre con l'altra sorella da un lato e lo spazio vuoto lasciato
da Martha dall'altro (il segno di un allontanamento morale prima che
fisico), ma un avvicinamento della mdp taglia ai lati la sorella e
quel vuoto, fino al primissimo piano della madre – e quando Martha
sorride al pubblico, quel sorriso di pacificazione è rivolto a lei.
La costruzione è
attentissima, piena di dettagli significativi e di rimandi nascosti.
Un giorno di riunione di famiglia in cui vengono alla luce le
tensioni più o meno celate (nonché la backstory della madre,
in una bella prova recitativa di Ellen Burstyn) non per caso è
aperto da immagini del disgelo della neve. Nota che anche questa
scena è in larga parte un magnifico piano sequenza. In un film che
non ha paura di appoggiarsi sulla metafora, se il tocco dei semi che
germogliano appare un po' retorico, arriva un incantevole finale
assolato (non privo di ambiguità) a rappresentare la continuità
della vita.
Vanessa Kirby, com'è
noto, ha vinto la Coppa Volpi per la miglior attrice alla Mostra di
Venezia 2020 con il ruolo di Martha. Ma accanto a lei, in un film
pieno di buoni attori, va citata in particolare Molly Parker (Eva),
che è addirittura magnetica nel convogliare le emozioni (il suo
sguardo dal fondo quando entra in aula Martha all'inizio del
processo!) con un massimo di semplicità.
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