Mikael Håfström
La guerra del futuro
prossimo assomiglia molto a quella di oggi, solo che a fianco dei
soldati umani combattono dei robot chiamati Gump. E' il 2036 e siamo
nell'Est europeo con le truppe americane immischiate in una guerra
civile, che appoggiano gli indipendentisti contro un “signore della
guerra” filo-russo. Il film di fantascienza d'azione Outside the
Wire di Mikael Håfström, coproduzione statunitense-ungherese,
inizia con una buona, realistica scena di combattimento, che rende
tutta la concitazione e la paura – sotto la telecamera di un drone
da guerra armato di missili, controllato dal tenente Harp, che con un
contrasto di forte valenza simbolica vediamo mangiare caramelle
mentre segue la scena. Qui il film pone un elemento polemico che non
è fantascientifico ma riguarda l'oggi: il concetto di un soldato che
manovra le armi e dispensa la morte non sul campo ma seduto mille
miglia lontano. Forse perfino il cognome Harp, “arpa”, rimanda a
un senso di elegante distacco dalla polvere e dal terrore della
guerra?Disobbedendo
a un ordine diretto, Harp spara un missile contro una minaccia,
uccidendo due soldati americani non ricuperati – ma salvando gli
altri. Il dilemma (salvare 38 soldati al prezzo di due o lasciare che
probabilmente ne muoiano 40?) avrà una amplificazione nello sviluppo
finale. Viene trasferito per punizione in zona di combattimento, agli
ordini del capitano Leo, il classico militare tough
as nails, e con lui deve
compiere una missione fuori dal perimetro di sicurezza. Salta subito
fuori che Leo non è umano: è un avanzatissimo prototipo di androide
(diverso dai massicci e goffi Gump), con volto e comportamenti umani
– per ragioni (dice) di “guerra psicologica”.
Harp
è tutt'altro che entusiasta della situazione (certi suoi commenti
sono... come dire? Razzisti? Specisti? Biologisti?), e il film sembra
diventare un buddy movie,
quel tipo di cinema che accoppia in un lavoro pericoloso tipi opposti
(vecchio e giovane, bianco e nero, maschilista e donna) che prima si
detestano, poi diventano amiconi. A metà, però, cambia
improvvisamente strada; e a questo punto bisogna avvertire chi legge
che seguono degli importanti spoiler.
Infatti
l'androide ha un'agenda tutta sua (ormai si dice così anche in
italiano), ed essendo – parole dello stesso Harp – un grande
manipolatore, con l'inganno riesce a farsi togliere dal partner il
dispositivo di sicurezza che lo costringerebbe a obbedire a un ordine
diretto di un essere umano. Ombra di Isaac Asimov! A questo punto
comincia a precisarsi un suo piano, che modifica le coordinate morali
che davamo per acquisite nel film. Va detto però che questa svolta,
esposta in modo un po' fumoso, finisce per risolversi più secondo i
canoni del film di avventura che della “fantascienza filosofica”
verso la quale il regista e gli sceneggiatori (Rob Yescombe e Rowan
Athale) tentano un passo non eccessivamente convinto.
Così il meglio del
film restano le atmosfere, sulle quali Håfström è piuttosto bravo
(ricordiamo il bell'horror 1408), la messa in scena della
tensione (come quando un condominio che pare vuoto si popola di
nemici che sparano dalle finestre), gli scontri sia di gruppo sia
individuali (senza sorpresa, l'androide Leo mostra abilità di
combattimento nel corpo a corpo da fare invidia a Terminator).
Se nel ruolo piuttosto
ingrato di Harp, sempre in ritardo sulla comprensione, Damson Idris è
anodino, Anthony Mackie (il Falcon dei film Marvel) è convincente e
spiritoso nel ruolo di Leo, e trae il meglio da un dialogo
“super-macho” che sfiora la parodia involontaria. Emily Beecham
infine dà vita a una comandante degli indipendentisti non meno dura
di Leo, giustamente convinta che una canaglia diventa meno canaglia
quando ha una pallottola in testa.
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