Pupi Avati
Se
l'argomento del film di Pupi Avati Lei
mi parla ancora fosse un
dipinto barocco, si chiamerebbe Il
Trionfo della Memoria sul Tempo.
Ma la persistenza della memoria, il suo radicarsi e intrecciarsi nel
nostro presente, è sempre stato uno dei temi costitutivi del cinema
di Pupi Avati. Come in quella Gita
scolastica di tanti anni
fa, il ricordo diffonde un profumo che arriva all'oggi: sicché il
passato non è realmente passato. Il libro di Giuseppe Sgarbi (Nino)
sul suo matrimonio durato 65 anni con Rina Cavallini (sono i genitori
di Elisabetta e Vittorio) offre ad Avati l'opportunità di un
grande film “finale”: non perché sia (speriamo) l'ultimo, ma nel
senso che aspira a una parola definitiva su quella poetica del
ricordo che il maestro ha perseguito in tutta la sua carriera. Lei
mi parla ancora non
è un film sul tempo che passa, bensì sulla distruzione del tempo
attraverso la memoria. Per questo il concetto di immortalità è
l'asse portante, concretizzato nella misteriosa lettera che Rina
scrive a Nino il giorno delle nozze e che non conosceremo mai per
intero (e viene seppellita con lui). “Saremo immortali”.
E' il racconto che il
coniuge sopravvissuto Nino (Renato Pozzetto) scrive in collaborazione
col giornalista Amicangelo (Fabrizio Gifuni), e che si distende nei
suoi tempi (grande metteur en scène, Avati ha sempre una
capacità evocativa pressoché magica: utilizza il repertorio
antiquario di usi ed oggetti per costruire un “ritratto parlante”
del passato). Non sono solo flashbacks: nella lunga durata del
racconto vediamo i protagonisti in diverse età (Isabella Ragonese e
Stefania Sandrelli, Lino Musella e Renato Pozzetto), e queste età
istituiscono una compresenza. A un certo punto del film, i
giovani protagonisti guardano Il settimo sigillo in una
proiezione all'aperto (nostalgica rievocazione, questa proiezione con
dibattito finale condotto dal sacerdote!); ora, ritroviamo molto del
concetto di Bergman sul tempo passato e presente (si pensi a Fanny
e Alexander) nel film. Per Avati il presente è un continuum
con il passato. Questa concezione fa sì che con fresca libertà
Avati possa mescolare le età e che i morti materialmente si
incrocino coi vivi, e ci parlino; il volto di Rina da giovane si
accosta fisicamente a quello di Nino da vecchio. Il cognato Bruno
(Alessandro Haber), maestro di poesia, appare come mediatore fra le
due dimensioni: “Bruno... tornava dall'Orto dei Morti solo in
circostanze molto speciali”. Per inciso, appare coerente con questa
sorta di multidimensionalità lo status della voce narrante, che
entra in modo romanzesco (sempre il cinema di Avati si riporta
idealmente all'articolazione narrativa del romanzo classico) con la
perentorietà asseverativa della terza persona.
Il rapporto tra
Amicangelo e Nino, apertosi nell'ostilità educatamente burbera di
quest'ultimo, finisce per diventare una comprensione tale che
Amicangelo è in grado di scrivere da solo una pagina coerente con il
pensiero dell'altro. E tuttavia potremmo chiederci: è ancora
possibile una simile immortalità amorosa? Esiste il dubbio – nei
personaggi più giovani del film, non solo Amicangelo, che infatti a
un certo punto entra in crisi, ma forse anche la figlia Elisabetta
(Chiara Caselli) – che essa sia una magnifica cosa del passato, e
possa esistere solo a livello di insegnamento morale (Amicangelo
cercherà un nuovo rapporto con la figlia bambina) – o di
rimpianto. Una concretizzazione plastica di questa differenza di
epoche la vediamo nelle due camere da letto che compaiono nel film.
Quella di Amicangelo e della sua nuova compagna è elegante, sobria,
minimale: moderna. Quella di Nino e Rina è vecchia, ingombra,
pesante: vissuta. Ma accade che vedendo la camera di Nino possiamo
immaginare due persone che dormono insieme in un vecchio letto di
legno per sessantacinque anni; in quella di Amicangelo, anche se
potessimo concepire una durata simile, le persone sarebbero
interscambiabili.
Nella sua
interpretazione monumentale Renato Pozzetto è un vero Atlante che
regge il film con la sua maschera serio/placida/impassibile. E'
un'impassibilità senile (giustamente non ce l'ha Lino Musella, Nino
da giovane), che trasmette una sorta di paciosa dignità (ma a volte
anche di stanchezza e smarrimento). Qui conviene ricordare che
l'impassibilità, non eguale ma sorella di questa, è sempre stata
una componente fondamentale della maschera di Pozzetto, fin dai suoi
inizi nel cabaret in indimenticabile coppia con Cochi Ponzoni. A
fianco dei protagonisti, quell'affollarsi di figurette ed episodietti
laterali che Avati tanto ama, e che si potrebbe definire fiammingo,
qui non è assente ma è limitato. Perché la storia di Nino e Rina
attraverso la memoria di Nino ha una forza centripeta che attrae in
sé tutta l'opera. E' istruttivo, per più di un aspetto, un
passaggio nella seconda parte del film. Vediamo Rina piangere sulla
riva del fiume e Rino arrabbiarsi con la madre (“Che cosa le avete
fatto?”); poi la trova lì, ma non ci viene rivelato che cosa sia
successo: perché non è importante. Questo film mostra una grande
abilità nell'ellissi, ben servita dal montaggio preciso, quasi
secco, di Ivan Zuccon (Il Signor Diavolo).
E da questa scena si
passa, sul filo di un commento musicale drammatico, a un'inquadratura
aerea che ci porta al famoso straripamento del Po (e dell'Adige) del
1951. Ora, è da notare che l'inondazione è il solo riferimento a
fatti storici-cronachistici (mentre per quelli culturali c'è il
consueto amore di Avati per la musica e il ballo); vero che Giuseppe
e Rina si sposarono nel 1950, ma è egualmente interessante l'assenza
della guerra o del suo ricordo nei due protagonisti: l'intimismo
sembra avvolgerli come una bolla. Poi uno stacco ci porta subito a
loro due in bicicletta, e la voce narrante racconta in terza persona
che “trovano la loro casa”, quella che vediamo nel film.
Culminando
nell'acquisto del Guercino, la ricerca della bellezza artistica con
l'acquisto di opere d'arte (da cui nascerà la Collezione Cavallini
Sgarbi) si sposa a questo amore coniugale al di là del concetto
ovvio di passione condivisa: è un eternarsi attraverso la
paziente creazione di un'abitazione, coi suoi tempi lunghi e distesi
(ecco che è giusto richiamare quello stacco che chiudeva e
cancellava in uno sbocco di felicità la cupa scena brevissima
dell'inondazione).
Parlando con la sua
compagna, Amicangelo racconta di Nino come uno “che parla coi
morti”. Qui bisogna ricordare che l'illusione è uno dei grandi
tempi del cinema di Pupi Avati. I suoi personaggi per la maggior
parte sono creature che vivono in una bolla, persi in un progetto più
o meno chimerico. A questa armata degli illusi appartengono anche gli
imbroglioni, come per esempio il Christian De Sica de Il figlio
più piccolo o il viscido Gianni Cavina di Regalo di
Natale; e c'è una vaga ombra di questi personaggi nelle promesse
e bugie al telefono di Amicangelo, scrittore fallito e indebitato,
che tira avanti facendo il ghostwriter di autobiografie
altrui, e che accetta il lavoro con Nino sperando che Elisabetta
pubblichi il suo romanzo: il suo sogno. Ma nel caso presente bisogna
segnalare alcune cose. La prima è che il personaggio non possiede –
e forse questo è un difetto del film – quell'elemento di tenerezza
che caratterizza di solito tali eroi avatiani. La seconda è che
viene “inghiottito” dalla figura gigantesca di Nino. Ma forse che
lo stesso Nino è un altro di simili personaggi immersi
nell'illusione? Agli occhi del mondo, forse; ma solo per quelli:
perché l'autentica complicità fra lui e la moglie morta (il
loro continuare a vedersi, lei dice, “è un segreto fra me e te”)
non è illusione – è memoria, che, come il film ripete, ci rende
immortali.
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