Il 2020 è un annus
horribilis anche per i festival, che ha cacciato in gran parte
nella dimensione online. Chi lo nega. Però un piccolo lato positivo
nel grande male è che ciò permette di seguirli anche a chi non può
recarcisi. E' il caso del Trieste Science+Fiction Festival per
quanto mi riguarda; non ho avuto modo di vedere tutti i film, ma una
dozzina sì, ed eccone le schede, in ordine alfabetico.
Nota: di Peninsula
pubblicherò una recensione estesa nel prossimo futuro, quando uscirà
distribuito dalla Tucker Film.
Alone di
Johnny Martin (USA)
Non fa piacere
pensarci, ma l'attuale pandemia (e ancor più le ipotesi su come
potrebbe ancora essere, o un'altra in futuro – che non sono più un
esercizio astratto) ha portato “giustificato” i film di zombi, li
ha portati nella realtà. I film di zombi, che hanno un doppio
aspetto interdipendente: la paura degli altri e l'isolamento. Ovvero,
agorafobia e claustrofobia si danno la mano.
Fra parentesi: è
quasi inutile ricordare che alla base di tutto c'è il capolavoro
narrativo di Richard Matheson Io sono leggenda, conosciuto
anche come I vampiri.
Questo film di
Johnny Martin viene particolarmente in taglio per il discorso, perché
assume un'angolatura realistica. Da un lato i suoi zombi, chiamati
screamers nei titoli di coda, per l'appunto non sono zombi,
non sono cadaveri ambulanti, ma persone vive colpite da una malattia
vagamente simile alla rabbia; così si perde anche quel piccolo
(rassicurante) aggancio al fantastico che era provvisto dal paradosso
dei “morti viventi”. Con un'eccellente invenzione, il film vuole
che questi screamers ripetano continuamente una singola frase,
presumibilmente l'ultima che hanno detto o sentito prima di
degenerare. Le loro inquadrature brulicanti (il terrazzo) spono
veramente riuscite.
Dall'altro lato, e
più importante, il film focalizza molto sull'aspetto “intimista”,
quello del l'uomo sano prigioniero nella sua stanza – e protettivo
nei riguardi della ragazza sana che vede dirimpetto. Così diventa
una specie di cronaca della sopravvivenza quotidiana in un mondo
impazzito; e in questo si ricollega direttamente al romanzo di
Matheson citato.
Boys from County
Hell di Chris Baugh (Irlanda-Gran Bretagna)
Una storia di
vampiri non originalissima (a parte il fatto che il vampiro non
succhia il sangue ma lo “attira” a sé, facendo sanguinare la
gente da tutti gli orifizi), con la tradizionale tomba che si farebbe
meglio a lasciare inviolata. Però il film, piacevole, è realizzato
con gusto nell'impiegare come personaggi dei comunissimi lavoratori
nord-irlandesi, facce quotidianissime che ci aspetteremmo in un film
di Mike Leigh o di Stephen Frears. La cosa migliore del film potrebbe
essere proprio questa tranche de vie popolare e paesana.
Naturalmente il film
non manca di giocare su Bram Stoker e il suo romanzo Dracula
(ne compare anche un'edizione con dedica, che – se non erro – o è
autenticamente o imita bene una delle ristampe della prima edizione
rilegata in giallo del 1897). Partendo dall'ipotesi di un'influenza
su Stoker delle leggende irlandesi, il film mette in scena –
potremmo dire – un “Ur-Dracula” locale; e i personaggi
paragonano freneticamente i metodi anti-vampiro descritti nel romanzo
con la realtà che stanno vivendo, per rendersi conto che non
funzionano. Sempre in tema di citazioni (spunta anche Murnau!), vanno
segnalati i piccoli ironici riferimenti a Un lupo mannaro
americano a Londra all'inizio.
Coma di
Nikita Argunov (Russia)
Matrix
incontra Christopher Nolan incontra Leon Battista Alberti (la città
ideale, rivista in chiave postmoderna, come meta e obiettivo dei
personaggi) in questo film dall'eccellente CGI concepito e diretto da
Nikita Argunov, esperto di effetti speciali passato con successo alla
sceneggiatura e regia.
Il film si basa sul
concetto di un mondo immaginario che sarebe il sogno al quale
approdano i pazienti in coma, creato sulla base dei loro confusi
ricordi. In questo mondo le leggi della fisica sono abolite, il che
consente una ricchezza di immagini visualmente assai belle, che nel
loro fondere il “sopra” e il “sotto” ricordano lo “spazio
rovesciato” nolaniano ma vanno più in là.
Nel mondo del coma i
personaggi del film si aggirano – cacciati da creature mostruose –
come i sopravvissuti di un mondo post-apocalittico, e non hanno più
memoria di chi erano nel mondo reale. Un tocco molto indovinato: su un
sottomarino che fluttua in aria c'è una bandiera russa stracciata e
un personaggio dice: “Maledetto coma – io la riconosco, è di
qualche paese, ma non ricordo quale”.
Lo sviluppo
narrativo, che all'inizio sembra destinato solo a sorreggere questa
rutilante panoplia visuale, acquista sempre maggiore importanza col
procedere del racconto e il delinearsi di una grande cospirazione.
Una certa vena filosofeggiante del film ne viene potenziata ponendo
le grandi domande che ne stanno alla base: è meglio questo mondo
immaginario dove uno può raggiungere incredibili poteri o la realtà
spesso tragica e squallida? E siamo sicuri che ci sia una differenza
di rango fra il sogno e la realtà? Ecco una differenza con il cinema
americano. Queste, che nel cinema americano sarebbero viste come
astratte domande filosofiche, nel presente film sono presentate sotto
il segno della tentazione. Nella cultura russa, permeata di
cristianesimo ortodosso, c'è sempre la figura del tentatore.
Come True di
Anthony Scott Burns (Canada)
Già vedendo Our
House – un film povero, che usava anche una quantità di
riprese col drone per rimpolpare, ma piacevole – si capiva che il
canadese Anthony Scott Burns si poteva tener d'occhio. Quel film,
racconta Burns, aveva avuto dei problemi con la casa di produzione.
Come True (dove per inciso Burns è regista, sceneggiatore,
direttore della fotografia, montatore e co-autore delle musiche) è
più direttamente autoriale.
Our House era
una passabile aggiunta al cinema delle macchine per comunicare coi
morti, e anche con Come True siamo nel campo della weird
science. Una ragazza adolescente in fuga dalla madre –
l'espressiva Julia Sarah Stone esibisce un musetto indimenticabile –
accetta di partecipare come soggetto dormiente alla ricerca di
un'équipe di scienziati che studiano il sonno in fase REM; di qui,
entriamo disastrosamente in una “zona proibita”. Anthony Scott
Burns ha inventato un modo specifico di rendere i sogni, con una
particolare fotografia irreale e con una mdp avanti che “trascina”
gli spettatori, col ritorno ossessivo di immagini di porte che si
aprono e una costruzione surreale dell'ambiente, fino ad arrivare a
una figura minacciosa che appare sempre alla fine.
Il film, con la sua
natura allusiva, ha qualche momento di incertezza a livello di
sceneggiatura, ma è indubbiamente assai atmosferico. Un ottimo
esempio è la sequenza della camminata della protagonista sonnambula,
nella città notturna paurosamente vuota e poi nei campi, seguita da
due dei ricercatori che “vedono” le immagini del suo sogno sullo
schermo del loro strumento, per cui viene messo in scena il doppio
piano della realtà e del sogno – e produce di per sé un'autentica
sensazione di ansietà. Ricordate in Twin Peaks di David Lynch
l'apparizione della porta della Loggia Nera in campagna in mezzo agli
alberi? C'è qualcosa in questa sequenza che ricorda quel momento
profondamente unheimlich.
Dune Drifter
di Marc Price (Gran Bretagna)
Dune Drifter
ricorda i primi film di fantascienza di Roger Corman – oppure (più
in piccolo come risultato) l'esordio Dark Star di John
Carpenter. In altri termini, come budget è realizzato – potremmo
dire – “con 14 dollari e mezzo, di cui otto per le birre”.
L'incrocio fra l'evidente limitazione del budget e l'ambizione
narrativa (all'inizio viene messa in scena un'autentica battaglia
spaziale) produce un effetto non solo di simpatia ma di ammirazione
per la capacità artigianale del regista Marc Price.
Girato in Islanda,
che rappresenta il pianeta Erebus sul quale fanno naufragio tanto il
caccia spaziale della protagonista quanto l'astronave dei nemici
alieni, il film riduce la sua visuale all'esperienza immediata del
soldato donna interpretato da Phoebe Sparrow: la morte della compagna
e co-pilota (Daisy Aitkens), il terrore di essere abbandonata sul
pianeta (con l'ossigeno che finirà in poche ore), la decisione di
procurarsi il pezzo necessario per riparare il caccia – un
“iniettore a plasma” – dall'astronave dei nemici, e
conseguentemente lo scontro con questi ultimi. Sono elementi di base
dei film di guerra e di naufragio, che Marc Price riesce a rendere
con abilità grazie a una specie di fanatica adesione al narrato.
L'esperienza umana della protagonista è convincente, e gli scontri
durissimi con gli alieni possono emozionare. Un aspetto certamente
positivo è l'assenza di retorica pacifista: la guerra è guerra, e
l'imperativo della sopravvivenza ha la meglio su tutto. Con piccoli
tocchi fantasiosi (le “fumarole” sotto i sassi) Marc Price
trasforma un deserto desolato in un pianeta alieno: un'esperienza da
cui c'è tutto da imparare.
Jumbo di Zoé
Wittock (Francia-Belgio-Lussemburgo)
Siamo nel campo di
quel cinema medio che mira all'arthouse, con ritmo lento,
lunghi silenzi (non solo in relazione alla protagonista, che
interpreta una ragazza borderline, e quindi sarebbe giustificabile),
inquadrature spesso eleganti ma anche spesso algide, chiuse su se
stesse.
Il problema però
non è questo; il problema è che il film si basa su una singola
idea, fortemente dilatata (forse avrebbe funzionato meglio come corto
o mediometraggio)e soprattutto sviluppata in modo sbagliato:
grossolano e artificioso sui rapporti umani, involontariamente
ridicolo sull'idea fantascientifica base. Che è questa: la ragazza
in questione, Jeanne, si innamora, ricambiata, di una grande giostra
panoramica, di quelle con bracci mobili, in un luna park. Il concetto
è che anche gli oggetti inanimati possono avere un'anima. Alla fine
si sposano, sconfiggendo l'opposizione della madre.
Non sarebbe neanche
una brutta idea, se non fosse per la mediocrità della sceneggiatura
(firmata dalla regista). L'assoluta mancanza di umorismo, oltre a
rendere plumbeo il film, porta in primo piano i suoi difetti.
Al cinema, capita
talvolta di individuare (ipoteticamente, si capisce) la scena-base,
quella da cui è nata tutta l'idea del film; non ha poi importanza se
sia stata girata per prima o per ultima, ma tutto è nato di lì. Qui
si direbbe che sia la sequenza in cui Jeanne fa sesso con Jumbo, che
è questa enorme giostra (come fa sesso una giostra? Colando olio
addosso alla partner): lei seminuda su uno sfondo innaturale bianco
latte, con l'olio nero che avanza verso di lei in grandi pozzanghere
e la ricopre, è un'immagine interessante, che avrebbe meritato di
apparire in un film migliore.
Mortal di André Øvredal (Norvegia)
Øvredal
è l'autore, fra l'altro, di Troll Hunter, che è un omaggio
non solo alla mitologia dei troll ma alla Norvegia in generale, che
si sente ama molto. Pure in Mortal l'aspetto migliore sembra
legato alla natura e ai paesaggi norvegesi, con una fotografia
efficace (di Roman Osin), e con grande uso – certo, un po'
turistico – del drone.
E' la storia di un
mortale americano in Norvegia che ha strani poteri sul fuoco e
l'elettricità che non sa controllare e gli producono bruciature
quando li esercita sotto emozione. Braccato dalla polizia (e dai
soliti americani cattivissimi), viene aiutato da una giovane
psicologa innamorata di lui. Il film tira fuori misteriose
sottolineature mistiche; non si capisce perché di fronte a fenomeni
paranormali come il suo un poliziotto parli subito di Dio; o meglio,
si capisce alla fine, perché è funzionale alla rivelazione: per
essere capitato un giorno sopra un'antichissima cripta, il giovane è
l'erede del martello di Thor e dei suoi poteri.
Il film non è
particolarmente soddisfacente, con un ritmo iniziale volutamente
lento, romanticismi vari, qualche forzatura di dialogo, una musica
enfatica e una recitazione non particolarmente espressiva da parte
del protagonista Nat Wolff (meglio la sua partner norvegese Iben
Akerlie). Ma forse gli spettatori potrebbero apprezzare questo
tentativo di rinnovare un materiale narrativo già visto molte volte
facendo ricorso alla mitologia norrena.
Post Mortem
di Péter Bergendy (Ungheria)
Nel 1918, subito
dopo la guerra e l'epidemia di spagnola, un fotografo di morti
(Viktor Klem) e una bambina (Fruzsina Hais, una piccola attrice con
una notevole efficacia visuale) si trovano in un villaggio popolato
di fantasmi infuriati. Questo horror molto cupo è particolarmente
atmosferico grazie un'ottima messa in scena: il tetro villaggio dai
muri imbiancati a calce, e dentro i poveri arredi contadini di una
volta, alla Pupi Avati, è un'ambientazione che colpisce davvero.
Ma soprattutto a far
correre un brivido di autentico raccapriccio è la specializzazione
del fotografo, le foto post mortem, che nel passato esisteva
davvero: fotografare i morti composti e truccati per fare una finta
foto da vivo, magari assieme ai parenti vivi in una macabra messa in
scena, in modo che potessero averne un ricordo. Le scene relative a
questa attività (l'uomo è lì per fotografare i morti del
villaggio, ancora insepolti perché la terra è gelata) fanno più
impressione di tutti i fantasmi. Tanto più che vediamo un “catalogo”
di foto prese nella sua attività che sono così realistiche che
potrebbero essere autentiche. Qualcosa di esattamente simile accadeva
in The Others.
Pertanto non è
sbagliato dire che The Others sia una delle fonti
d'ispirazione del film, ma ancora di più Operazione paura di
Mario Bava, e non manca in una sequenza una versione primo Novecento
di Paranormal Activity. Ma questo non è per dire che sia un
film derivativo, anzi, è un'opera di piena dignità – col suo
realismo contadino dei visi e degli ambienti – e anche dai buoni
valori produttivi. Il concetto generale di questo film si può
considerare non necrofilo ma necromane: guarda in modo morbosamente
affascinato ai cadaveri. I morti (terribilmente realistici) sono
manipolati per metterli in posa, giacciono abbandonati nei loro
sudari in un gelido granaio-deposito, vengono scossi da improvvise
convulsioni – e a un certo punto vengono scoperti che si sono
disposti assurdamente tutt'a un tratto come per un selfie infernale.
Relic di Natalie Erika James (Australia-USA)
La vecchia Edna
soffre di Alzheimer e quando scompare dalla sua casa in mezzo ai
boschi australiani la figlia Kay e la nipote Sam si trasferiscono
nella casa durante le ricerche. E' una casa piena di tracce
inquietanti – che non sono i classici segni dei fantasmi, non
necessariamente, bensì i segni della disintegrazione della memoria:
i post-it sulle cose minime da fare (ma anche messaggi più ambigui:
“Don't follow it”). Poi Edna ricompare, senza dare spiegazioni;
ma dice che le due parenti non sono più loro, ha comportamenti
inspiegabili (seppellisce un album di fotografie) e soprassalti di
aggressività, mentre la casa diventa sempre più sinistra e
ci si stende sopra l'ombra di oscure cose passate. Edna ha sul petto
una macchia nera che si allarga sempre di più.
Lento, atmosferico,
giocato su segnali ambigui e angosciosi, Relic è una ghost
story tradizionale che si trasforma in una grande metafora
dell'Alzheimer come territorio sconosciuto da ambo le parti: di chi
ne soffre e degli altri che lo vedono nella persona vicina (fra le
tre attrici, spicca specialmente Robyn Nevin nel ruolo di Edna). A
fronte di una concezione “positivistica” (per esempio le storie
di vampiri), l'horror contempla una possibile dimensione oscura,
costruita su un montare dell'enigmaticità; è il caso di questo
film, del quale non sarebbe giusto svelare il sorprendente finale.
Sputnik di Egor Abramenko (Russia)
Una regia sicura,
autorevole, ci dà la versione russa di Alien, con una feroce
creatura parassita che si introduce nel corpo di un astronauta. La
bellissima realizzazione dell'alieno, sia come concezione grafica sia
come esecuzione, conferisce al film un realismo stupefacente.
Mentre i film della
serie Alien mettevano in scena un'invasione del corpo
(tipicamente l'uscita dell'alieno coincideva con la morte
dell'ospite), Sputnik mette in scena una simbiosi. L'alieno e il suo
ospite umano finiscono per essere la stessa cosa, provano a distanza
le stesse sensazioni, e dal legame sensoriale si avviano verso una
sintonia sul piano morale.
Il racconto avrebbe
potuto benissimo essere ambientato al giorno d'oggi, ma invece il
film sceglie il 1983. Cioè quando l'URSS esisteva ancora, benché in
declino. Questo consente uno sguardo critico sul totalitarismo,
all'interno del quale s'inserisce la rivendicazione del libero
arbitrio in opposizione ai mostri e ai codardi – i primi essendo
gli operatori di male (il colonnello che nutre l'alieno dandogli in
pasto i prigionieri) e i secondi i complici dell'ingranaggio perché
dicono di non poter fare altrimenti (il dottore). Una moralità che
trova il punto massimo (senza fare spoiler) nel pre-finale; mentre il
finale getta una luce di speranza, con la soluzione di un piccolo
inganno di sub-plot, sempre sotto il segno della scelta individuale.
The Trouble with Being Born di Sandra Wollner (Austria)
Fra quelli che ho
visto al festival, questo di Sandra Wollner è il migliore. Poetico,
lento, meditabondo, anch'esso parte da uno spunto fantascientifico ma
esce dalle coordinate del cinema di genere e come Jumbo di Zoé
Wittock mira al campo dell'arthouse – ma stavolta con
successo: la sua raffinatezza non ha niente a che vedere con la
grossolanità di Jumbo.
La narrazione è
allusiva e volutamente indeterminata ma comprensibile. La
protagonista è una bambina androide che un uomo – il “padre”,
vedovo – ha (presumibilmente) costruito per rimpiazzare una figlia
scomparsa, che rivediamo in un flashback. Questa bambina, Elli, ha
un'individualità vicaria: come uno specchio si appropria dei ricordi
narrati, e la sua coscienza diventa quella della figlia scomparsa. Ma
un giorno un uomo la trova che vaga nel bosco, la porta via,
comprendendo la sua natura, e la regala alla propria vecchia madre:
la bambina Elli viene trasformata nel bambino Emil (la somiglianza
dei nomi naturalmente non è casuale), il fratellino della donna,
morto in circostanze tragiche 60 anni prima. Ora i ricordi di Emil,
narrati dalla donna, entrano nella coscienza dell'androide, ancora
confondendosi con quelli di Elli che sono segnati da una lancinante
nostalgia del padre.
Qui c'è un tratto
particolarmente interessante del film: il rapporto del padre con
questo sostituto robotico della figlia è, da un lato, paterno, con
tutta la tenerezza del rapporto padre-bambina; ma dall'altro si tinge
di ambiguità (abilmente segnalate dalla regia: Elli nuda in un
“déjeneur sur l'herbe”) confinanti con la pedofilia, come
quando fotografa Elli in un'inquadratura alla Lewis Carroll, o quando
lei si cala la vestaglia sulle spalle in atteggiamento seduttivo.
E' eccezionale e
inquietante, pur con l'aiuto del trucco, Lena Watson nella doppia
parte di Elli ed Emil. Il suo viso, specie quello femminile, ha tutta
la grazia dei bambini e tuttavia nella sua impassibilità mantiene
un'aria di artificialità robotica incredibilmente autentica.
La regista ha detto
che il suo film vuole essere un'anti-versione di Pinocchio ma
io penserei – anche in riferimento al triste finale – che il nome
di Hans Christian Andersen potrebbe essere più adatto per questo
importante film.
Yummy di Lars Damoiseaux (Belgio)
Nel campo
dell'horror, i film di zombi sono particolarmente adatti per
elucubrazioni barocche e variazioni ripugnanti, un voler ricercare un
sempre maggior estremismo della visione; e siccome di qui al comico
non c'è che un passo, ecco il perché della grande quantità di
commedie nella filmografia di questo genere di mostri.
Anche qui abbiamo un
mix di horror puro e di tocchi di comedy grottesca. La
folle scena sul pene del cantante, per esempio, potrebbe averla
girata Edgar Wright. C'è anche un elemento satirico abbastanza
originale nell'inscenare questa esplosione di zombismo in un centro
di chirurgia estetica (in cui la protagonista si è recata con la
madre milf e il fidanzato nerdish, non per farsi ingrandire le
tette ma per farsele ridurre!).
Un aspetto negativo
è che pressoché tutti questi film consistono in una serie di fughe
nei corridoi (o da un vagone all'altro di un treno...) con gli zombi
che ti barcollano dietro. Non per nulla la maggiore differenza fra i
vari zombie cinematografici è semplicemente quella tra lenti e
veloci. Gli aspetti positivi di Yummy però sono assai di più:
il ritmo è vivace, i personaggi sono divertenti, gli zombi sono ben
realizzati (e quindi è bello guardare le loro malefatte), e
quell'estremismo cui alludevo sopra, sviluppandosi in modo sempre
crescente, rende il film degno di essere ricordato. In particolare
l'ultima mezzora è eccellente, con una costruzione in crescendo
molto ben organizzata e una conclusione disastrosa che ricorda – in
piccolo – la negatività assoluta di Night of the Living Dead.
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