sabato 7 novembre 2020

Trieste Science+Fiction Festival 2020

 

Il 2020 è un annus horribilis anche per i festival, che ha cacciato in gran parte nella dimensione online. Chi lo nega. Però un piccolo lato positivo nel grande male è che ciò permette di seguirli anche a chi non può recarcisi. E' il caso del Trieste Science+Fiction Festival per quanto mi riguarda; non ho avuto modo di vedere tutti i film, ma una dozzina sì, ed eccone le schede, in ordine alfabetico.
Nota: di Peninsula pubblicherò una recensione estesa nel prossimo futuro, quando uscirà distribuito dalla Tucker Film.

Alone di Johnny Martin (USA)

Non fa piacere pensarci, ma l'attuale pandemia (e ancor più le ipotesi su come potrebbe ancora essere, o un'altra in futuro – che non sono più un esercizio astratto) ha portato “giustificato” i film di zombi, li ha portati nella realtà. I film di zombi, che hanno un doppio aspetto interdipendente: la paura degli altri e l'isolamento. Ovvero, agorafobia e claustrofobia si danno la mano.
Fra parentesi: è quasi inutile ricordare che alla base di tutto c'è il capolavoro narrativo di Richard Matheson Io sono leggenda, conosciuto anche come I vampiri.
Questo film di Johnny Martin viene particolarmente in taglio per il discorso, perché assume un'angolatura realistica. Da un lato i suoi zombi, chiamati screamers nei titoli di coda, per l'appunto non sono zombi, non sono cadaveri ambulanti, ma persone vive colpite da una malattia vagamente simile alla rabbia; così si perde anche quel piccolo (rassicurante) aggancio al fantastico che era provvisto dal paradosso dei “morti viventi”. Con un'eccellente invenzione, il film vuole che questi screamers ripetano continuamente una singola frase, presumibilmente l'ultima che hanno detto o sentito prima di degenerare. Le loro inquadrature brulicanti (il terrazzo) spono veramente riuscite.
Dall'altro lato, e più importante, il film focalizza molto sull'aspetto “intimista”, quello del l'uomo sano prigioniero nella sua stanza – e protettivo nei riguardi della ragazza sana che vede dirimpetto. Così diventa una specie di cronaca della sopravvivenza quotidiana in un mondo impazzito; e in questo si ricollega direttamente al romanzo di Matheson citato.

Boys from County Hell di Chris Baugh (Irlanda-Gran Bretagna)

Una storia di vampiri non originalissima (a parte il fatto che il vampiro non succhia il sangue ma lo “attira” a sé, facendo sanguinare la gente da tutti gli orifizi), con la tradizionale tomba che si farebbe meglio a lasciare inviolata. Però il film, piacevole, è realizzato con gusto nell'impiegare come personaggi dei comunissimi lavoratori nord-irlandesi, facce quotidianissime che ci aspetteremmo in un film di Mike Leigh o di Stephen Frears. La cosa migliore del film potrebbe essere proprio questa tranche de vie popolare e paesana.
Naturalmente il film non manca di giocare su Bram Stoker e il suo romanzo Dracula (ne compare anche un'edizione con dedica, che – se non erro – o è autenticamente o imita bene una delle ristampe della prima edizione rilegata in giallo del 1897). Partendo dall'ipotesi di un'influenza su Stoker delle leggende irlandesi, il film mette in scena – potremmo dire – un “Ur-Dracula” locale; e i personaggi paragonano freneticamente i metodi anti-vampiro descritti nel romanzo con la realtà che stanno vivendo, per rendersi conto che non funzionano. Sempre in tema di citazioni (spunta anche Murnau!), vanno segnalati i piccoli ironici riferimenti a Un lupo mannaro americano a Londra all'inizio.

Coma di Nikita Argunov (Russia)

Matrix incontra Christopher Nolan incontra Leon Battista Alberti (la città ideale, rivista in chiave postmoderna, come meta e obiettivo dei personaggi) in questo film dall'eccellente CGI concepito e diretto da Nikita Argunov, esperto di effetti speciali passato con successo alla sceneggiatura e regia.
Il film si basa sul concetto di un mondo immaginario che sarebe il sogno al quale approdano i pazienti in coma, creato sulla base dei loro confusi ricordi. In questo mondo le leggi della fisica sono abolite, il che consente una ricchezza di immagini visualmente assai belle, che nel loro fondere il “sopra” e il “sotto” ricordano lo “spazio rovesciato” nolaniano ma vanno più in là.
Nel mondo del coma i personaggi del film si aggirano – cacciati da creature mostruose – come i sopravvissuti di un mondo post-apocalittico, e non hanno più memoria di chi erano nel mondo reale. Un tocco molto indovinato: su un sottomarino che fluttua in aria c'è una bandiera russa stracciata e un personaggio dice: “Maledetto coma – io la riconosco, è di qualche paese, ma non ricordo quale”.
Lo sviluppo narrativo, che all'inizio sembra destinato solo a sorreggere questa rutilante panoplia visuale, acquista sempre maggiore importanza col procedere del racconto e il delinearsi di una grande cospirazione. Una certa vena filosofeggiante del film ne viene potenziata ponendo le grandi domande che ne stanno alla base: è meglio questo mondo immaginario dove uno può raggiungere incredibili poteri o la realtà spesso tragica e squallida? E siamo sicuri che ci sia una differenza di rango fra il sogno e la realtà? Ecco una differenza con il cinema americano. Queste, che nel cinema americano sarebbero viste come astratte domande filosofiche, nel presente film sono presentate sotto il segno della tentazione. Nella cultura russa, permeata di cristianesimo ortodosso, c'è sempre la figura del tentatore.

Come True di Anthony Scott Burns (Canada)

Già vedendo Our House – un film povero, che usava anche una quantità di riprese col drone per rimpolpare, ma piacevole – si capiva che il canadese Anthony Scott Burns si poteva tener d'occhio. Quel film, racconta Burns, aveva avuto dei problemi con la casa di produzione. Come True (dove per inciso Burns è regista, sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore e co-autore delle musiche) è più direttamente autoriale.
Our House era una passabile aggiunta al cinema delle macchine per comunicare coi morti, e anche con Come True siamo nel campo della weird science. Una ragazza adolescente in fuga dalla madre – l'espressiva Julia Sarah Stone esibisce un musetto indimenticabile – accetta di partecipare come soggetto dormiente alla ricerca di un'équipe di scienziati che studiano il sonno in fase REM; di qui, entriamo disastrosamente in una “zona proibita”. Anthony Scott Burns ha inventato un modo specifico di rendere i sogni, con una particolare fotografia irreale e con una mdp avanti che “trascina” gli spettatori, col ritorno ossessivo di immagini di porte che si aprono e una costruzione surreale dell'ambiente, fino ad arrivare a una figura minacciosa che appare sempre alla fine.
Il film, con la sua natura allusiva, ha qualche momento di incertezza a livello di sceneggiatura, ma è indubbiamente assai atmosferico. Un ottimo esempio è la sequenza della camminata della protagonista sonnambula, nella città notturna paurosamente vuota e poi nei campi, seguita da due dei ricercatori che “vedono” le immagini del suo sogno sullo schermo del loro strumento, per cui viene messo in scena il doppio piano della realtà e del sogno – e produce di per sé un'autentica sensazione di ansietà. Ricordate in Twin Peaks di David Lynch l'apparizione della porta della Loggia Nera in campagna in mezzo agli alberi? C'è qualcosa in questa sequenza che ricorda quel momento profondamente unheimlich.

Dune Drifter di Marc Price (Gran Bretagna)

Dune Drifter ricorda i primi film di fantascienza di Roger Corman – oppure (più in piccolo come risultato) l'esordio Dark Star di John Carpenter. In altri termini, come budget è realizzato – potremmo dire – “con 14 dollari e mezzo, di cui otto per le birre”. L'incrocio fra l'evidente limitazione del budget e l'ambizione narrativa (all'inizio viene messa in scena un'autentica battaglia spaziale) produce un effetto non solo di simpatia ma di ammirazione per la capacità artigianale del regista Marc Price.
Girato in Islanda, che rappresenta il pianeta Erebus sul quale fanno naufragio tanto il caccia spaziale della protagonista quanto l'astronave dei nemici alieni, il film riduce la sua visuale all'esperienza immediata del soldato donna interpretato da Phoebe Sparrow: la morte della compagna e co-pilota (Daisy Aitkens), il terrore di essere abbandonata sul pianeta (con l'ossigeno che finirà in poche ore), la decisione di procurarsi il pezzo necessario per riparare il caccia – un “iniettore a plasma” – dall'astronave dei nemici, e conseguentemente lo scontro con questi ultimi. Sono elementi di base dei film di guerra e di naufragio, che Marc Price riesce a rendere con abilità grazie a una specie di fanatica adesione al narrato. L'esperienza umana della protagonista è convincente, e gli scontri durissimi con gli alieni possono emozionare. Un aspetto certamente positivo è l'assenza di retorica pacifista: la guerra è guerra, e l'imperativo della sopravvivenza ha la meglio su tutto. Con piccoli tocchi fantasiosi (le “fumarole” sotto i sassi) Marc Price trasforma un deserto desolato in un pianeta alieno: un'esperienza da cui c'è tutto da imparare.

Jumbo di Zoé Wittock (Francia-Belgio-Lussemburgo)

Siamo nel campo di quel cinema medio che mira all'arthouse, con ritmo lento, lunghi silenzi (non solo in relazione alla protagonista, che interpreta una ragazza borderline, e quindi sarebbe giustificabile), inquadrature spesso eleganti ma anche spesso algide, chiuse su se stesse.
Il problema però non è questo; il problema è che il film si basa su una singola idea, fortemente dilatata (forse avrebbe funzionato meglio come corto o mediometraggio)e soprattutto sviluppata in modo sbagliato: grossolano e artificioso sui rapporti umani, involontariamente ridicolo sull'idea fantascientifica base. Che è questa: la ragazza in questione, Jeanne, si innamora, ricambiata, di una grande giostra panoramica, di quelle con bracci mobili, in un luna park. Il concetto è che anche gli oggetti inanimati possono avere un'anima. Alla fine si sposano, sconfiggendo l'opposizione della madre.
Non sarebbe neanche una brutta idea, se non fosse per la mediocrità della sceneggiatura (firmata dalla regista). L'assoluta mancanza di umorismo, oltre a rendere plumbeo il film, porta in primo piano i suoi difetti.
Al cinema, capita talvolta di individuare (ipoteticamente, si capisce) la scena-base, quella da cui è nata tutta l'idea del film; non ha poi importanza se sia stata girata per prima o per ultima, ma tutto è nato di lì. Qui si direbbe che sia la sequenza in cui Jeanne fa sesso con Jumbo, che è questa enorme giostra (come fa sesso una giostra? Colando olio addosso alla partner): lei seminuda su uno sfondo innaturale bianco latte, con l'olio nero che avanza verso di lei in grandi pozzanghere e la ricopre, è un'immagine interessante, che avrebbe meritato di apparire in un film migliore.


Mortal di André Øvredal (Norvegia)


Øvredal è l'autore, fra l'altro, di Troll Hunter, che è un omaggio non solo alla mitologia dei troll ma alla Norvegia in generale, che si sente ama molto. Pure in Mortal l'aspetto migliore sembra legato alla natura e ai paesaggi norvegesi, con una fotografia efficace (di Roman Osin), e con grande uso – certo, un po' turistico – del drone.
E' la storia di un mortale americano in Norvegia che ha strani poteri sul fuoco e l'elettricità che non sa controllare e gli producono bruciature quando li esercita sotto emozione. Braccato dalla polizia (e dai soliti americani cattivissimi), viene aiutato da una giovane psicologa innamorata di lui. Il film tira fuori misteriose sottolineature mistiche; non si capisce perché di fronte a fenomeni paranormali come il suo un poliziotto parli subito di Dio; o meglio, si capisce alla fine, perché è funzionale alla rivelazione: per essere capitato un giorno sopra un'antichissima cripta, il giovane è l'erede del martello di Thor e dei suoi poteri.
Il film non è particolarmente soddisfacente, con un ritmo iniziale volutamente lento, romanticismi vari, qualche forzatura di dialogo, una musica enfatica e una recitazione non particolarmente espressiva da parte del protagonista Nat Wolff (meglio la sua partner norvegese Iben Akerlie). Ma forse gli spettatori potrebbero apprezzare questo tentativo di rinnovare un materiale narrativo già visto molte volte facendo ricorso alla mitologia norrena.


Post Mortem di Péter Bergendy (Ungheria)

Nel 1918, subito dopo la guerra e l'epidemia di spagnola, un fotografo di morti (Viktor Klem) e una bambina (Fruzsina Hais, una piccola attrice con una notevole efficacia visuale) si trovano in un villaggio popolato di fantasmi infuriati. Questo horror molto cupo è particolarmente atmosferico grazie un'ottima messa in scena: il tetro villaggio dai muri imbiancati a calce, e dentro i poveri arredi contadini di una volta, alla Pupi Avati, è un'ambientazione che colpisce davvero.
Ma soprattutto a far correre un brivido di autentico raccapriccio è la specializzazione del fotografo, le foto post mortem, che nel passato esisteva davvero: fotografare i morti composti e truccati per fare una finta foto da vivo, magari assieme ai parenti vivi in una macabra messa in scena, in modo che potessero averne un ricordo. Le scene relative a questa attività (l'uomo è lì per fotografare i morti del villaggio, ancora insepolti perché la terra è gelata) fanno più impressione di tutti i fantasmi. Tanto più che vediamo un “catalogo” di foto prese nella sua attività che sono così realistiche che potrebbero essere autentiche. Qualcosa di esattamente simile accadeva in The Others.
Pertanto non è sbagliato dire che The Others sia una delle fonti d'ispirazione del film, ma ancora di più Operazione paura di Mario Bava, e non manca in una sequenza una versione primo Novecento di Paranormal Activity. Ma questo non è per dire che sia un film derivativo, anzi, è un'opera di piena dignità – col suo realismo contadino dei visi e degli ambienti – e anche dai buoni valori produttivi. Il concetto generale di questo film si può considerare non necrofilo ma necromane: guarda in modo morbosamente affascinato ai cadaveri. I morti (terribilmente realistici) sono manipolati per metterli in posa, giacciono abbandonati nei loro sudari in un gelido granaio-deposito, vengono scossi da improvvise convulsioni – e a un certo punto vengono scoperti che si sono disposti assurdamente tutt'a un tratto come per un selfie infernale.


Relic di Natalie Erika James (Australia-USA)


La vecchia Edna soffre di Alzheimer e quando scompare dalla sua casa in mezzo ai boschi australiani la figlia Kay e la nipote Sam si trasferiscono nella casa durante le ricerche. E' una casa piena di tracce inquietanti – che non sono i classici segni dei fantasmi, non necessariamente, bensì i segni della disintegrazione della memoria: i post-it sulle cose minime da fare (ma anche messaggi più ambigui: “Don't follow it”). Poi Edna ricompare, senza dare spiegazioni; ma dice che le due parenti non sono più loro, ha comportamenti inspiegabili (seppellisce un album di fotografie) e soprassalti di aggressività, mentre la casa diventa sempre più sinistra e ci si stende sopra l'ombra di oscure cose passate. Edna ha sul petto una macchia nera che si allarga sempre di più.
Lento, atmosferico, giocato su segnali ambigui e angosciosi, Relic è una ghost story tradizionale che si trasforma in una grande metafora dell'Alzheimer come territorio sconosciuto da ambo le parti: di chi ne soffre e degli altri che lo vedono nella persona vicina (fra le tre attrici, spicca specialmente Robyn Nevin nel ruolo di Edna). A fronte di una concezione “positivistica” (per esempio le storie di vampiri), l'horror contempla una possibile dimensione oscura, costruita su un montare dell'enigmaticità; è il caso di questo film, del quale non sarebbe giusto svelare il sorprendente finale.


Sputnik di Egor Abramenko (Russia)


Una regia sicura, autorevole, ci dà la versione russa di Alien, con una feroce creatura parassita che si introduce nel corpo di un astronauta. La bellissima realizzazione dell'alieno, sia come concezione grafica sia come esecuzione, conferisce al film un realismo stupefacente.
Mentre i film della serie Alien mettevano in scena un'invasione del corpo (tipicamente l'uscita dell'alieno coincideva con la morte dell'ospite), Sputnik mette in scena una simbiosi. L'alieno e il suo ospite umano finiscono per essere la stessa cosa, provano a distanza le stesse sensazioni, e dal legame sensoriale si avviano verso una sintonia sul piano morale.
Il racconto avrebbe potuto benissimo essere ambientato al giorno d'oggi, ma invece il film sceglie il 1983. Cioè quando l'URSS esisteva ancora, benché in declino. Questo consente uno sguardo critico sul totalitarismo, all'interno del quale s'inserisce la rivendicazione del libero arbitrio in opposizione ai mostri e ai codardi – i primi essendo gli operatori di male (il colonnello che nutre l'alieno dandogli in pasto i prigionieri) e i secondi i complici dell'ingranaggio perché dicono di non poter fare altrimenti (il dottore). Una moralità che trova il punto massimo (senza fare spoiler) nel pre-finale; mentre il finale getta una luce di speranza, con la soluzione di un piccolo inganno di sub-plot, sempre sotto il segno della scelta individuale.


The Trouble with Being Born di Sandra Wollner (Austria)


Fra quelli che ho visto al festival, questo di Sandra Wollner è il migliore. Poetico, lento, meditabondo, anch'esso parte da uno spunto fantascientifico ma esce dalle coordinate del cinema di genere e come Jumbo di Zoé Wittock mira al campo dell'arthouse – ma stavolta con successo: la sua raffinatezza non ha niente a che vedere con la grossolanità di Jumbo.
La narrazione è allusiva e volutamente indeterminata ma comprensibile. La protagonista è una bambina androide che un uomo – il “padre”, vedovo – ha (presumibilmente) costruito per rimpiazzare una figlia scomparsa, che rivediamo in un flashback. Questa bambina, Elli, ha un'individualità vicaria: come uno specchio si appropria dei ricordi narrati, e la sua coscienza diventa quella della figlia scomparsa. Ma un giorno un uomo la trova che vaga nel bosco, la porta via, comprendendo la sua natura, e la regala alla propria vecchia madre: la bambina Elli viene trasformata nel bambino Emil (la somiglianza dei nomi naturalmente non è casuale), il fratellino della donna, morto in circostanze tragiche 60 anni prima. Ora i ricordi di Emil, narrati dalla donna, entrano nella coscienza dell'androide, ancora confondendosi con quelli di Elli che sono segnati da una lancinante nostalgia del padre.
Qui c'è un tratto particolarmente interessante del film: il rapporto del padre con questo sostituto robotico della figlia è, da un lato, paterno, con tutta la tenerezza del rapporto padre-bambina; ma dall'altro si tinge di ambiguità (abilmente segnalate dalla regia: Elli nuda in un “déjeneur sur l'herbe”) confinanti con la pedofilia, come quando fotografa Elli in un'inquadratura alla Lewis Carroll, o quando lei si cala la vestaglia sulle spalle in atteggiamento seduttivo.
E' eccezionale e inquietante, pur con l'aiuto del trucco, Lena Watson nella doppia parte di Elli ed Emil. Il suo viso, specie quello femminile, ha tutta la grazia dei bambini e tuttavia nella sua impassibilità mantiene un'aria di artificialità robotica incredibilmente autentica.
La regista ha detto che il suo film vuole essere un'anti-versione di Pinocchio ma io penserei – anche in riferimento al triste finale – che il nome di Hans Christian Andersen potrebbe essere più adatto per questo importante film.


Yummy di Lars Damoiseaux (Belgio)


Nel campo dell'horror, i film di zombi sono particolarmente adatti per elucubrazioni barocche e variazioni ripugnanti, un voler ricercare un sempre maggior estremismo della visione; e siccome di qui al comico non c'è che un passo, ecco il perché della grande quantità di commedie nella filmografia di questo genere di mostri.
Anche qui abbiamo un mix di horror puro e di tocchi di comedy grottesca. La folle scena sul pene del cantante, per esempio, potrebbe averla girata Edgar Wright. C'è anche un elemento satirico abbastanza originale nell'inscenare questa esplosione di zombismo in un centro di chirurgia estetica (in cui la protagonista si è recata con la madre milf e il fidanzato nerdish, non per farsi ingrandire le tette ma per farsele ridurre!).
Un aspetto negativo è che pressoché tutti questi film consistono in una serie di fughe nei corridoi (o da un vagone all'altro di un treno...) con gli zombi che ti barcollano dietro. Non per nulla la maggiore differenza fra i vari zombie cinematografici è semplicemente quella tra lenti e veloci. Gli aspetti positivi di Yummy però sono assai di più: il ritmo è vivace, i personaggi sono divertenti, gli zombi sono ben realizzati (e quindi è bello guardare le loro malefatte), e quell'estremismo cui alludevo sopra, sviluppandosi in modo sempre crescente, rende il film degno di essere ricordato. In particolare l'ultima mezzora è eccellente, con una costruzione in crescendo molto ben organizzata e una conclusione disastrosa che ricorda – in piccolo – la negatività assoluta di Night of the Living Dead.









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