martedì 21 luglio 2020

Watanabe Forever! La scoperta del Watanabeverse



La grande scoperta che il 22° FEFF ha offerto ai suoi spettatori, con quattro film, è il geniale Watanabe Hirobumi. Nato a Otawara (prefettura di Tochigi) nel 1982, ha fondato col fratello Yuji, compositore di musica per film, la casa di produzione Foolish Piggies Films nel 2013. Va detto subito che Yuji oltre che co-produttore è autore della colonna sonora di questi film: dire delle musiche sarebbe giusto ma riduttivo, poiché tutti i film dei fratelli Watanabe hanno un accuratissimo montaggio del suono.
Nella cittadina agricola di Otawara sono sempre ambientati i film di Watanabe, e questo senso filmico del genius loci è il primo elemento che contribuisce a creare – potremmo – il Watanabeverse. Da film a film ritornano i luoghi (cito solo una strada di campagna, teatro nei suoi film di interminabili camminate); le inquadrature filmate; e naturalmente i volti. Watanabe ama usare lo stesso gruppo di non professionisti, suoi amici e collaboratori, a volte col loro nome autentico, a volte no. Fra di essi, la nonna centenaria Hirayama Misao (scomparsa di recente a 102 anni) e la bambina Hisatsugu Riko, che assurge a protagonista dell'ultimo film, I'm Really Good (2020). E naturalmente c'è il regista, che interpreta i propri film come una sorta di se stesso visto in uno specchio un po' deformante.

Per dare un’idea a chi non ha visto questi film: pensate a Jim Jarmusch incrociato col David Lynch di Una storia vera – ma il regista dichiara anche altri numi tutelari, da Wenders ad Allen a Kaurismäki. In una parola, Watanabe Hirobumi è un poeta del quotidiano.
Parlando in generale, un film ha di solito uno sviluppo drammatico, ossia contempla un avvenimento “diverso” (comico o tragico che sia) che irrompe nella vita quotidiana e lo spinge lungo un nuovo percorso che desta la nostra meraviglia: peripezia.
Watanabe invece trova la meraviglia nella vita di ogni giorno. C'è qualcosa di arcano nel modo in cui i suoi film riescono a rendere appassionante la quotidianità più immediata e uneventful. I suoi piccoli avvenimenti ordinari (guardati attraverso la lente di una splendida fotografia in bianco e nero, firmata da Bang Woo-hyun) assumono un senso nuovo, una quieta emozione, una pregnanza: il calmo fluire della realtà si trasforma in cosa mirabile. Nella grande divisione del cinema fra una linea Lumière e una linea Méliès, i fratelli Watanabe (fratelli come i Lumière) si situano nella prima. Non fotografano semplicemente la realtà – non sono documentaristi – ma trovano nello svolgersi della realtà, non nella peripezia che la rompe, la meraviglia e la poesia.
I film di Watanabe si fondano quindi su un'estetica della ripetizione; dentro il film, ma anche da film a film. Perché la ripetizione è la base della nostra vita – ma il cinema è nato per eliderla; e invece Watanabe la porta in primo piano. Si direbbe che lui sì riesca a concretizzare il vacuo programma del rumoroso Zavattini. Certo, c'è dietro un accorto lavoro di preparazione: i film di Watanabe sono piccoli gioielli accuratamente sfaccettati. Dove l'attenzione al mondo naturale (per esempio le ricorrenti inquadrature delle nuvole) non offusca il fatto che il grande elemento di esplorazione alla base di tutto il suo cinema è l'uomo.
La voce over della radio accompagna vari film come una colonna sonora laterale. In Poolside Man (2016) attenta alla sanità mentale del protagonista con le notizie ossessive di un mondo sconvolto da guerre e terrorismo. In Party 'Round the Globe (2018) mantiene questo aspetto inquietante ma incrociandolo con l'evento felice della visita di Paul McCartney in Giappone. In I'm Really Good consente – come vedremo – una specie di allusione politica.
La cosa più importante: sono, questi film, attraversati da un bizzarro senso dell'umorismo, che raggiunge il suo vertice nelle folli tirate polemiche di Watanabe (la vita, la politica, il rock, gli anime, il cinema) in auto, seduto vicino a uno stoico guidatore che ascolta impassibile e perpetuamente muto (Poolside Man, Party 'Round the Globe, Life Finds a Way [2018]). Ciò non impedisce che in Poolside Man, dopo uno dei suoi monologhi, il personaggio di Watanabe lo elogi dicendo che è uno con cui si può discutere.

Andiamo ora a vedere brevemente i quattro film di Watanabe presentati dal FEFF. Il bellissimo Party 'Round the Globe (dove il globe è un mappamondo che compare più volte e il party è quello per i cento anni della nonna che conclude il film) si potrebbe definire: vita quotidiana di due bizzarri fan dei Beatles. Si apre con i disegni a colori di un libro per bambini (per inciso, l'autore è il padre del protagonista Imamura Gaku). Come in Poolside Man, e con lo stesso protagonista, Imamura, il film racconta la routine quotidiana di un personaggio tampinato da un collega irruento (Watanabe). In questo caso, il collega è un appassionato dei Beatles e i due finiscono al concerto di Paul McCartney a Tokyo.
Fra l'altro il film trova modo di rispondere a una domanda che ci siamo sempre posti: sognano i cani? Qui il cane del protagonista Honda (Imamura), che appropriatamente si chiama Ringo, sogna in flashback una passeggiata in campagna con lui, e una donna e una bambina (che sono la piccola Riko, regular watanabiana, e sua madre). Ma qual è il rapporto fra Honda e le due? Sembra davvero una famiglia – ma lui nel film vive una vita solitaria col cane. Cos'è successo? Non lo sapremo mai – e questo introduce una sottile drammaticità.

Life Finds a Way invece è l'Otto e mezzo di Watanabe. Lui, pienamente nel ruolo di se stesso, sta preparando un film ma è in crisi creativa – e così non risponde alle telefonate, dorme, guarda i Mondiali, pesca gamberi con la piccola Riko, si fa ammonire invano dalla dottoressa che vorrebbe metterlo a dieta, fa una spudorata scena di paura dalla dentista, si fa cazziare in biblioteca perché è rumoroso, e naturalmente fa polemici e lamentosi monologhi in auto con lo stoico aiutante Kurosaki, altra “spalla” impassibile e divertentissima.
Il film è superbo nel suo sense of humour. La lettera di una non-ammiratrice (quale progressio ad infinitum in questo attaccone!); l'incontro del regista col sindaco di Otawara, cui chiede un finanziamento di due milioni di yen; la preghiera al Dio della Montagna al tempio, con la richiesta di non dare idee ai suoi rivali – sono pagine assolutamente esilaranti.
A un certo punto, verso la fine del film, Watanabe si avvicina a Godard (nella sezione intitolata Interview), e forse la seconda metà di questa sezione (Interview Part II) mostra un'ombra di eccessiva consapevolezza – ma temperata dalla simpatia personale e dall'umorismo del regista.

Cry si distacca alquanto dagli ultimi film della Foolish Piggies, riprendendo come concetto il vecchio 7 Days: là si trattava di un allevamento di mucche, qui di maiali. Girato in uno stupendo b/n contrastato, è un film privo di dialoghi, ma con un grande lavoro sul suono. Cry è scandito da cartelli che annunciano i giorni della settimana ed è una tranche de vie – che nel ripetersi delle azioni ritorna continuamente su se stessa – di un personaggio anonimo (chiamiamolo X) cui dà volto Watanabe.
X dunque lavora in un allevamento di maiali. In una ossessiva ripetizione di immagini vediamo i maiali che si accalcano nei recinti, X che li nutre e dà loro da bere oppure pulisce i corridoi tra i recinti, X che cammina inquadrato di schiena lungo una strada o un viottolo erboso. Tutto questo è intervallato da scene in cui X mangia in silenzio, in un triste panorama con sul fondo una fila di tralicci, col rumore dei teli di plastica sbattuti dal vento; e la sera cena con la nonna, ripresi in un'inquadratura sempre identica “all'altezza del tatami” alla Ozu; poi lava i piatti e la dentiera della nonna, poi aspetta di addormentarsi.
Le azioni si svolgono in brani di tempo reale – e, come sappiamo, è una caratteristica del cinema che il tempo reale si trasformi automaticamente in un tempo sospeso e dilatato. In questa quotidianità malinconica, sempre uguale a se stessa, X ci appare prigioniero quanto i maiali nei loro recinti. Anzi, si potrebbe osservare che questi maiali luridi nei recinti sovrappopolati portano nel film un elemento di individualità e di movimento (le loro azioni, il loro nervosismo, la stessa differenza di età, dagli adulti ai lattonzoli) che è assente nella ripetizione congelata delle azioni di X. A un certo punto la loro cacofonia di grugniti sembra elevarsi a un canto suino.
E' vero che in una delle giornate vediamo X cambiare luogo e andare al cinema. Ma il film cui assiste nella sala vuota è – grande tocco di umorismo – uno di quelli di Watanabe (per la precisione I'm Really Good), e nel contesto sembra contenere lo stesso senso di astrazione della vita quotidiana di Cry. Ad ogni buon conto, X si addormenta. Il giorno seguente riprende il moto perpetuo sempre uguale.
Cry non è documentaristico. Il documentario cerca di presentare un “qui ed ora” e sottintende una sorta di spiegazione. Qui abbiamo una ripetizione di atti identici che implica di per sé una sorta di cupa astrazione – e sembra postulare una coazione a ripetere che fa pensare a una rassegnazione davanti alla grande macchina della vita.

I'm Really Good è il più recente film di Watanabe, che ha voluto presentarlo al FEFF in prima mondiale. E' dedicato alla bambina Riko. Sempre girato in uno splendido b/n (ma il regista stesso ha sostituito Bang Woo-hyun alla mdp), si apre con un prologo a colori girato con lo smartphone, su di lei – una forza della natura – che buffoneggia (“Come state tutti? Io sto benissimo!”).
Poi I'm Really Good racconta in un'ora di durata una semplice giornata della bambina. E' piccola vita quotidiana: Riko dorme, si sveglia, si lava, va a scuola con la sua migliore amica Nanaka e il fratello Keita; i tre giocano a un gioco di parole (è la scena che il protagonista guardava al cinema in Cry); vediamo la scuola, i giochi in cortile, i compiti a casa, vicino al fratello e a un memorabile gatto bianco. Siccome per sbaglio ha il quaderno di Nanaka, Riko fa la lunga camminata fino a casa sua, non la trova, torna indietro (in inquadrature identiche); a casa sente che Nanaka è passata, così ritorna da lei; gioca con lei in casa e fuori; poi a cena in casa con la madre, mentre il padre poliziotto è al lavoro, Riko ride delle buffonerie di Keita, cerca di convincere la madre a non farle finire il piatto, si lava i denti, va a dormire. L'unico evento non quotidiano del film è la visita in entrambe le case di un venditore ambulante di libri scolastici piuttosto losco (interpretato da Watanabe) che trovandole da sole cerca di spennarle, ma se la fila quando sente che Riko è figlia di un poliziotto, e idem quando se la ritrova in casa di Nanaka.
Nel corso del film sentiamo da una radio o tv fuori campo un polemico dibattito con il primo ministro giapponese Abe Shinzo sulle pensioni; e ciò volutamente non può non farci a pensare a quale sarà il lontano futuro di questi bambini. Questo modo pacato e indiretto di introdurre il tema politico è ammirevole.
Mi sono dilungato sulla trama per dare un'idea della mancanza assoluta di sviluppo drammatico – i bambini sono impersonati da loro stessi, al pari della madre – che potrebbe dare l'idea di un film vuoto; mentre invece è vivace, intenso, pervaso di un calmo fluire della realtà che crea – tocca ripeterrsi – un autentico effetto di quieta emozione. Anche queste lunghe camminate sono belle e significative quanto le inquadrature vuote di Ozu. Si può dire che questo film illustra al massimo grado il concetto giapponese di wabi (sobrietà).

1 commento:

Unknown ha detto...

Grazie, ho gradito molto la tua analisi con cui concordo pienamente. Questi 4 film ci hanno aperto un mondo e portato una ventata di aria fresca. A presto