venerdì 17 luglio 2020

Far East Film 2020


Fra i tanti danni (per non parlare dei dolori umani) di quest'anno innominabile va annoverato il disastro caduto sui festival cinematografici. Anche il FEFF ha passato la sua “ora più buia”. Ma se n'è tirato fuori brillantemente, non solo riuscendo a realizzare il festival online (in collaborazione con Mymovies.it) ma presentando una lineup di tutto rispetto.

Partendo col Giappone, la miglior cinematografia asiatica assieme alla Corea, molti sono i film notevoli che hanno impreziosito il FEFF. Schede a parte per A Beloved Wife, My Sweet Grappa Remedies, Romance Doll e il magnifico Labyrinth of Cinema di Obayashi. Eccoci sul terreno del musical con il piacevole Dance with Me di Yaguchi Shinobu, dove una donna ipnotizzata non può resistere all'impulso di lanciarsi in numeri alla Gene Kelly ogni volta che sente la musica, con risultati disastrosi per l'ambiente circostante. Nota bene: la protagonista Miyoshi Ayaka è molto brava, ma quella che fa innamorare a prima vista è Yashiro Yu nei panni della compagna di viaggio entusiasta, grassa, non bellissima. Una presenza schermica degna della leggendaria Eugene Domingo!
Restiamo nel campo del musical col gustoso Wotakoi: Love Is Hard for Otaku di Fukuda Yuichi, trionfo della cultura otaku (anche sul piano del linguaggio cinematografico), versione live-action di un anime televisivo tratto da un manga di Fujita Kazuhiro, con due otaku di tribù diverse che sul lavoro nascondono di esserle e si innamorano. Ancor più che le canzoni e coreografie (la migliore è quella al bar John Doe, un luogo reale, ma quella che si fa notare di più è il balletto a Shibuya), il suo punto di forza sono le interpretazioni. La protagonista Takahata Mitsuki (Narumi) è eccezionale: è cute ed espressiva come Audrey Tatou, ma più spiritosa. Se il suo co-protagonista Yamazaki Kento (Hirotaka) appare un po' legato (ma è il suo personaggio), si resta colpiti dalla comicità di Kaku Kento (Sakamoto, il collega di Hirotaka) e da quell'eccezionale figura di barista del John Doe incarnata da Muro Tsuyoshi, che comparirà per cinque minuti in tutto, ma cinque minuti che mandano alle stelle il film.
Più trascurabile il film sportivo-adolescenziale #HandballStrive di Matsui Daigo (l'autore di Afro Tanaka); mentre mi spiace di aver perso Minori, on the Brink di Ninomiya Ryutaro e One Night di Shiraishi Kazuya, autore dell'eccezionale The Blood of Wolves d'un paio di anni fa.

Passiamo in Corea. Schede a parte per Ashfall, Beasts Clawing at Straws e The Closet. Se Ashfall (di Lee Hae-jun e Kim Byung-seo) è un disaster movie vivace e intelligente, Exit dell'esordiente Lee Sang-geun si colloca un gradino sotto, specie per un mix piuttosto incerto di comedy e drammaticità (ma non tutti possono essere il Bong Joon-ho di The Host!). Si lascia guardare, comunque, e gli interpreti sono simpatici (in particolare, è molto spiritosa l'attrice e cantante Im Yoon-ah).
Il commovente The House of Us di Yoon Ga-eun è un “film per famiglie”, come si diceva una volta, che all'inizio sembra un po' prevedibile ma “cresce” molto durante la visione. Anche perché, c'è poco da fare, i bambini al cinema avvincono sempre, e qui le tre protagoniste – una ragazzina, una bambina e una bambina piccola – sono eccezionali. Hana, la ragazzina, vive una vita difficile: i suoi genitori litigano sempre e sono decisi a divorziare; il fratello maggiore, da buon adolescente, non serve a nulla se non a mugugnare. Hana fa amicizia con le sorelle Yoo-mi e Yoo-jin, che hanno anche loro i loro guai: i genitori sono partiti per lavoro lasciandole sole e pare che vogliano vendere la casa (le due bambine hanno alle spalle una lunga serie di trasferimenti). E' un film caldo, triste nel contenuto ma leggero nello svolgimento. Potremmo pensare a Nobody Knows di Kore-eda Hirokazu a un livello meno drammatico, e naturalmente non allo stesso livello artistico.
Lucky Chan-sil di Kim Cho-hee potrebbe essere il film migliore della selezione coreana. Tranche de vie di una produttrice, Lee Chan-sil, di film d'essai che si ritrova disoccupata dopo che il suo regista è morto improvvisamente, conquista fin dai titoli di testa in stile Ozu. La descrizione del mondo del cinema coreano serve da quadro per i problemi personali di Chan-sil, una donna che ha rinunciato a tutto per il cinema e ora se ne ritrova fuori. Con la complicazione di una cotta per un gentile insegnante di francese più giovane – che la vede come una sorella maggiore. C'è un urgente percorso di introspezione da fare; e in questo fa da stimolo un'umanissima figura di padrona di casa – l'anziana attrice Youn Yuh-jung – e soprattutto c'è un Virgilio nei panni (ridotti: canottiera e calzoncini anche se è inverno) del fantasma di Leslie Cheung! Lucky Chan-sil è una riflessione dolce e malinconica sull'importanza di vivere, credere e resistere. Siamo dalle parti di Hong Sang-soo (il quale, guarda caso, usa anche lui titoli alla Ozu), con cui la regista Kim ha collaborato. Ottimamente interpretata da Gang Mal-geum, Chan-sil è una figura che non si dimentica.
Il FEFF ha molto opportunamente unito due film dedicati all'assassinio del presidente-dittatore Park Chun-hee nel 1979 da parte del capo della KCIA (la CIA coreana): The Man Standing Next di Woo Min-ho, che è di quest'anno e The President's Last Bang di Im Sang-soo, che è del 2005 ed è già un piccolo classico (restaurato nel 2019).
Al di là della forza della narrazione, The President's Last Bang si fa notare per l'eleganza estrema dei movimenti di macchina, fra i più belli di tutto il cinema coreano del nuovo millennio (superba la carrellata multipla interno-esterno nel rifugio presidenziale!). Ma anche per l'umorismo nero che attraversa il racconto; cito solo la scena alla Il dottor Stranamore in cui il Capo di Stato Maggiore dell'esercito non viene riconosciuti dai giovani soldati di sentinella, che lo mandano a remengo.
Il bellissimo The Man Standing Next, che arriva all'uccisione dai 40 giorni precedenti, assume una scelta stilistica tanto inusuale da risultare quasi rivoluzionaria nel panorama del cinema d'oggi e ancor più in quello del cinema coreano. Rinuncia del tutto a giochi d'inquadratura, montaggio frenetico ed enfasi recitativa; ricorda in qualche maniera i vecchi film di spionaggio non-James Bond, come quelli tratti da Le Carrè. Anche sul piano della recitazione, come accennato, l'espressione delle emozioni è per lo più trattenuta e come in ghiaccio. Ciò finisce per produrre un'impressione come di astrazione, una sorta di concentrazione emotiva, che si rovescia in un'impressione di realismo paradossalmente maggiore di quella che avremmo se assistessimo alla stessa storia raccontata nel modo isterico che va di moda oggi.
Ovviamente, per gli stessi motivi, questa scelta stilistica esalta i momenti di violenza (molto bella la fuga dell'uomo rapito dai sicari) e quelli di “picco emotivo”: la scena in cui, spiato dal suo futuro assassino Kim (Lee Byung-hun), il presidente Park (Lee Sung-min) è rimasto per un attimo da solo nella stanza e canta a mezza voce una canzone enka di spirito buddhista sulla futilità della vita (la stessa canzone torna tre volte nel film, venendo anche cantata da due intrattenitrici al banchetto subito prima dell'uccisione)... ebbene, questa scena è un momento quasi tanto bello quanto la canzone del signore feudale che apprende la morte del suo nemico in Kagemusha di Kurosawa. Magnifica l'interpretazione di Lee Byung-hun (visto in un ruolo diversissimo anche in Ashfall) nel ruolo del capo della KCIA. Nel suo viso gelato si legge la disperazione dell'abbandono ma restano da interpretarsi per lo spettatore le motivazioni. The Man Standing Next è dichiaratamente shakespeariano: perché i personaggi di Shakespeare hanno una loro ambiguità (in senso poetico) che li rende irriducibili a una sola spiegazione del loro agire.

Hong Kong purtroppo ha attirato la nostra attenzione quest'anno per ben altro che per il cinema, con la sua eroica resistenza contro la Cina. Scheda a parte per la coproduzione hongkonghese-cinese Chasing Dream di Johnnie To. Mi spiace di avere perso My Prince Edward di Norris Wong e Suk Suk di Ray Yeung.
Ip Man 4: The Finale di Wilson Yip porta a conclusione la saga di Ip Man, ben interpretato da Donnie Yen, stavolta negli USA su invito di Bruce Lee (che però poi praticamente scompare dal film) e alle prese con i razzisti americani. A dispetto di una sceneggiatura piuttosto goffa, il film trasmette adeguatamente l'umanità di Ip Man e la sua indefettibile onorabilità.
Line Walker 2: Invisible Spy di Jazz Boon rientra nella miglior avventura classica hongkonghese e consegna pienamente quello che promette: adeguata suspense, ottimi attori, grande azione e soddisfacente morte dei villains ghignanti. Se la storia in alcuni momenti impone una particolare attenzione per seguirla, muovendosi fra “racconto primo” e flashback, anche chi si perdesse, in primo luogo verrà poi recuperato dalla narrazione, in secondo luogo non si annoierà, guardando l'azione martellante del film (l'action director è Chin Ka Lok). E la conclusione, con la trovata – di evidente derivazione bondiana – di ambientare il climax nella “corsa dei tori” a Pamplona non offre semplicemente al film la possibilità di un'angolatura inedita ma anche quella di sbizzarrirsi in alcune delle scene più folli che non si siano viste sul grande schermo del Teatro Nuovo Giovanni da Udine (rimpianto...).
Un gradino più sotto è The White Storn 2: Drug Lords di Herman Yau, che però, oltre al consueto bel gioco di attori (anche qui c'è Louis Koo!), contiene almeno una sequenza memorabile, quella finale nella metropolitana.

Taiwan ci ha dato quello che a parere di chi scrive (ma ripeto di non averli visti tutti) è il miglior film dell'intera competizione, I WeirDO di Liao Ming-yi (scheda a parte). C'è poi Detention, di John Hsu: in parte un horror (ragazzi in fuga, inseguiti da mostri, in una scuola infestata), in parte un film politico-metaforico che usa gli stilemi dell'horror. Si parla del “Terrore bianco” a Taiwan negli anni '50, con la feroce persecuzione di chi leggeva libri “sovversivi” (un concetto che comprendeva anche Tagore e perfino Padri e figli di Turgenev). Un gruppo di studenti e insegnanti ha creato un “club del libro” clandestino ma vengono scoperti, torturati e uccisi perché qualcuno ha tradito. A rispondere alla domanda chi abbia tradito serve tutta la parte irreale, appropriatamente intitolata “incubo”. Fra i riferimenti c'è in primo luogo il J-Horror per l'ambientazione nella scuola in rovina, ma si potrebbero nominare anche David Cronenberg (il libro estratto dalla ferita), Pink Floyd: The Wall (il mostro), Fahrenheit 451 (i libri copiati a mano), e naturalmente The Others per la situazione dei morti che non sanno di essere morti.
Sotto questo aspetto di “fusione” Detention è indubbiamente un esperimento interessante, anche se non direi completamente riuscito perché il film avrebbe dovuto essere asciugato un poco: questa serie di vagabondaggi fantasmatici diventa un po' ripetitiva. Il film è ispirato a un videogioco e questo si vede. In effetti la parte realistica è più apprezzabile dell'altra.
Ho perso We Are Champions di Chang Jung-chi. Ma appartiene a Taiwan anche un nuovo restauro offerto dal FEFF, Cheerful Wind (1982), il secondo film di Hou Hsiao-hsien. So che è banale tirar fuori la Nouvelle Vague. Ma c'è una freschezza, in questo film dichiaratamente commerciale, un gusto delle cose, dei sapori, degli odori, dell'immediatezza della vita, dell'innocenza orecchiabile delle canzoni, che non consente di passar oltre quell'ovvio riferimento.

Per le Filippine, vedi scheda a parte su Sunod di Carlo Ledesma (ho perso Edward di Thop Nazareno); e per la Malaysia, vedi scheda a parte su Soul di Emir Ezwan, mentre ho perso Victim(s) di Layla Ji.
L'Indonesia aveva la peculiarità di essere presente al festival con due film dello stesso regista, Joko Anwar (di cui ricordiamo l'horror Satan's Slaves). Anche Impetigore è un notevole horror, che s'impone fin dalla bella apertura sul casello autostradale, dove i colori verdi e rossi che bagnano le due cabine anticipa l'uso, nel corso del film, di una luce rossa innaturale in cui si immergono i personaggi (noi italiani non possiamo non pensare a Mario Bava). Spostandosi dall'ambiente urbano a un villaggio nella foresta, Impetigore è un film molto atmosferico. Il mercato coperto vuoto nella notte, popolato di manichini in chador; la corriera notturna durante il viaggio, tra sonno, stanchezza e fantasmi; e naturalmente il villaggio maledetto col suo carico di segreti e la distesa opprimente della giungla... Ha una particolare importanza nel film il wayang kulit, il teatro d'ombre giavanese con burattini – non solo per ragioni diegetiche: è vero che questo teatro di animazione dietro uno schermo ha un ruolo centrale nel racconto, ma Joko Anwar lo riprende anche come allusione: come un'uccisione che vediamo attraverso lo schermo come in una macabra copia umana del wayang, oppure nell'episodio delle bambine spettrali che quando vengono “liberate” svaniscono ma lasciano per un attimo ancora, come quelle sullo schermo, la loro ombra.
Due degli interpreti principali del film, Tara Basro e Ario Bayu, compaiono anche in Gundala, versione live-action del fumetto indonesiano di supereroi creato da Hasni. Un film di supereroi che comincia con una manifestazione politica non si vede tutti i giorni; e questo film racconta le origini del supereroe eponimo a partire da una situazione di estrema povertà e ingiustizia sociale. La stessa da cui emerge come forza del male il villain Pengkor; e questo elemento politico si mantiene lungo tutto il film, con riferimenti alla struttura di classe e alla corruzione nel Paese. Il film si pone come primo capitolo di una serie in prospettiva (nel finale appare solennemente un'altra supereroina dell'universo di Hasni) – anche se va detto che, a sorpresa, Impetigore lo ha battuto sul piano degli incassi in patria.

In chiusura, ecco la Cina continentale. Scheda a parte per Changfeng Town, il film migliore della selezione cinese. Bisogna poi menzionare il notevole An Insignificant Affair di Ning Yuanyuan, figlia d'arte che più non si potrebbe (suo padre è il grande regista Zhang Yuan, sua madre la sceneggiatrice Ning Dai). Orbene, c'è un film cecoslovacco di Jaromil Jireš che s'intitola Lo scherzo, in cui al tempo dello stalinismo un piccolo scherzo su una cartolina rovina tutta la vita di un giovane; ed è una delle più impressionanti descrizioni del totalitarismo che si possano vedere, proprio per la materia piccola da cui nasce lo svolgimento. In qualche modo questo film di Ning Yuanyuan lo può ricordare. In una scuola superiore cinese un ragazzo e una ragazza che si piacciono sono sorpresi dalla preside – una fanatica – a tenersi le mani, e da questa piccolezza nasce un caso che coinvolge tutta la scuola e cambia le loro vite (in questo film, lo svolgimento è malinconico, non tragico). Il film ruota intorno (non senza umorismo) alla lettera di autocritica che i due dovrebbero scrivere e che continuamente viene riscritta. Ma non finisce qui con la Cecoslovacchia: perché tutto il film ricorda molto la nova vlna ceca. In particolare (ma non solo) nella caratterizzazione del protagonista Xiaoshi, con quella sua ironia e quel senso ribelle. L'interprete, Dong Bowen, ha una faccia da impunito che incanta! Xiaoyu, la ragazza, è interpretata dalla stessa regista Ning Yuanyuan: che stupisce, oltre che per la bravura, perché sembra veramente una sedicenne. La sua interpretazione è tutta trattenuta, fatta di nuances, e si lega molto bene a quella più estroversa del partner.
Anche Better Days, il film vincitore del premio del pubblico, è diretto da un figlio d'arte, Derek Tsang, figlio del grande attore hongkonghese Eric Tsang (premio alla carriera al FEFF alcuni anni fa). Derek Tsang ha stoffa e per esempio rende molto bene all'inizio l'atmosfera di minaccia, ancora indefinita, che la protagonista sente fra i compagni di studio. Better Days ci porta nella piaga del bullismo scolastico. La protagonista sta vivendo il periodo che prelude ai severissimi esami di ammissione all'università; assiste al suicidio di una compagna bullizzata e finisce anche lei vittima di bullismo femminile istigato da una ragazza ricca. Non trova aiuto nelle istituzioni ma lo trova in una specie di teppista di buon cuore che la protegge – e questo legame fra i due “soli contro il mondo” può ben ricordare An Insignificant Affair.
Tutto questo non è fatto per far piacere alla censura di regime. Lo stress psicologico degli esami, il bullismo e l'incertezza delle istituzioni in merito, lo sguardo positivo su un giovane fuorilegge (in Cina queste figure possono apparire al cinema solo se muoiono o vengono punite alla fine)... Il film doveva partecipare al festival di Berlino quando è stato improvvisamente ritirato e poi è uscito in una versione pesantemente rieditata – con avvisi nei titoli di coda circa l'impegno del governo contro il bullismo e con la figura positiva di un giovane poliziotto.
Il filmone “ufficiale” patriottico-nazionalista è The Captain, un film ben riuscito che possiamo definire la risposta cinese a Sully di Clint Eastwood. Anche qui, un incidente di volo realmente avvenuto: durante un volo da Chongqing a Lhasa, sopra le montagne, una turbolenza fa volare via un finestrino della cabina di pilotaggio (minacciando di trascinarsi dietro il co-pilota, che finisce mezzo fuori dall'abitacolo). Anche qui, l'intelligenza e la determinazione del capitano Liu Changjang e dell'equipaggio salvano aereo e passeggeri. Diretto dall'hongkonghese Andrew Lau, il film è emozionante. Gli spettatori del FEFF ben conoscono lo stile di Andrew Lau e qui il suo estremismo, ovvero la sua retorica della visione, è al suo meglio (non succede così in tutti i suoi film). I voli della mdp intorno all'aereo in avaria, o l'apparizione “esplosiva” dell'aereo che salta fuori in volo da dietro un crinale innevato, sono spettacolari.
E' particolarmente interessante la diversità non semplicemente di approccio ma, a livello più profondo, di cultura che si può ritrovare fra i due film, quello di Eastwood e questo. Dei due capitani, Sully è il maverick, l'individualista, che produce il salvataggio seguendo il proprio intuito e la propria abilità, anche sfidando le autorità esterne. Liu è – potremmo dire – il dirigente, che coordina, dando l'esempio in prima persona, un equipaggio perfettamente disciplinato che agisce come un sol uomo. “Seguire le procedure!”, dice nel dramma.
Individualismo americano e organicismo orientale (non solo cinese) a specchio.

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