Fra
i tanti danni (per non parlare dei dolori umani) di quest'anno
innominabile va annoverato il disastro caduto sui festival
cinematografici. Anche il FEFF ha passato la sua “ora più buia”.
Ma se n'è tirato fuori brillantemente, non solo riuscendo a
realizzare il festival online (in collaborazione con Mymovies.it) ma
presentando una lineup
di tutto rispetto.
Partendo
col Giappone,
la miglior cinematografia asiatica assieme alla Corea, molti sono i
film notevoli che hanno impreziosito il FEFF. Schede
a parte
per A
Beloved Wife,
My
Sweet Grappa Remedies,
Romance
Doll e
il magnifico Labyrinth
of Cinema
di Obayashi. Eccoci sul terreno del musical con il piacevole Dance
with Me
di Yaguchi Shinobu, dove una donna ipnotizzata non può resistere
all'impulso di lanciarsi in numeri alla Gene Kelly ogni volta che
sente la musica, con risultati disastrosi per l'ambiente circostante.
Nota bene: la protagonista Miyoshi Ayaka è molto brava, ma quella
che fa innamorare a prima vista è Yashiro Yu nei panni della
compagna di viaggio entusiasta, grassa, non bellissima. Una presenza
schermica degna della leggendaria Eugene Domingo!
Restiamo
nel campo del musical col gustoso Wotakoi:
Love Is Hard for Otaku
di Fukuda Yuichi, trionfo
della cultura otaku
(anche sul piano del linguaggio cinematografico), versione
live-action di un anime televisivo tratto da un manga di Fujita
Kazuhiro, con due otaku
di tribù diverse che sul lavoro nascondono di esserle e si
innamorano. Ancor più che le canzoni e coreografie (la migliore è
quella al bar John Doe, un luogo reale, ma quella che si fa
notare di più è il balletto a Shibuya), il suo punto di forza sono
le interpretazioni. La protagonista Takahata Mitsuki (Narumi) è
eccezionale: è cute
ed espressiva come Audrey Tatou, ma più spiritosa. Se il suo
co-protagonista Yamazaki Kento (Hirotaka) appare un po' legato (ma è
il suo personaggio), si resta colpiti dalla comicità di Kaku Kento
(Sakamoto, il collega di Hirotaka) e da quell'eccezionale figura di
barista del John Doe incarnata da Muro Tsuyoshi, che comparirà per
cinque minuti in tutto, ma cinque minuti che mandano alle stelle il
film.
Più
trascurabile il film sportivo-adolescenziale #HandballStrive
di Matsui Daigo (l'autore di Afro
Tanaka);
mentre mi spiace di aver perso Minori,
on the Brink
di Ninomiya Ryutaro e One
Night
di Shiraishi Kazuya, autore dell'eccezionale The
Blood of Wolves d'un
paio di anni fa.
Passiamo
in Corea.
Schede
a parte
per Ashfall,
Beasts
Clawing at Straws
e The
Closet.
Se Ashfall
(di Lee Hae-jun e Kim Byung-seo) è un disaster
movie
vivace e intelligente, Exit
dell'esordiente Lee Sang-geun si colloca un gradino sotto, specie per
un mix piuttosto incerto di comedy
e drammaticità (ma non tutti possono essere il Bong Joon-ho di The
Host!).
Si lascia guardare, comunque, e gli interpreti sono simpatici (in
particolare, è molto spiritosa l'attrice e cantante Im Yoon-ah).
Il
commovente The House of Us di Yoon Ga-eun è un “film per
famiglie”, come si diceva una volta, che all'inizio sembra un po'
prevedibile ma “cresce” molto durante la visione. Anche perché,
c'è poco da fare, i bambini al cinema avvincono sempre, e qui le tre
protagoniste – una ragazzina, una bambina e una bambina piccola –
sono eccezionali. Hana, la ragazzina, vive una vita difficile: i suoi
genitori litigano sempre e sono decisi a divorziare; il fratello
maggiore, da buon adolescente, non serve a nulla se non a mugugnare.
Hana fa amicizia con le sorelle Yoo-mi e Yoo-jin, che hanno anche
loro i loro guai: i genitori sono partiti per lavoro lasciandole sole
e pare che vogliano vendere la casa (le due bambine hanno alle spalle
una lunga serie di trasferimenti). E' un film caldo, triste nel
contenuto ma leggero nello svolgimento. Potremmo pensare a Nobody
Knows di Kore-eda Hirokazu a un livello meno drammatico, e
naturalmente non allo stesso livello artistico.
Lucky
Chan-sil di Kim Cho-hee potrebbe essere il film migliore della
selezione coreana. Tranche de vie di una produttrice, Lee
Chan-sil, di film d'essai che si ritrova disoccupata dopo che il suo
regista è morto improvvisamente, conquista fin dai titoli di testa
in stile Ozu. La descrizione del mondo del cinema coreano serve da
quadro per i problemi personali di Chan-sil, una donna che ha
rinunciato a tutto per il cinema e ora se ne ritrova fuori. Con la
complicazione di una cotta per un gentile insegnante di francese più
giovane – che la vede come una sorella maggiore. C'è un urgente
percorso di introspezione da fare; e in questo fa da stimolo
un'umanissima figura di padrona di casa – l'anziana attrice Youn
Yuh-jung – e soprattutto c'è un Virgilio nei panni (ridotti:
canottiera e calzoncini anche se è inverno) del fantasma di Leslie
Cheung! Lucky Chan-sil è una riflessione dolce e malinconica
sull'importanza di vivere, credere e resistere. Siamo dalle parti di
Hong Sang-soo (il quale, guarda caso, usa anche lui titoli alla Ozu),
con cui la regista Kim ha collaborato. Ottimamente
interpretata da Gang Mal-geum, Chan-sil è una figura che non si dimentica.
Il
FEFF ha molto opportunamente unito due film dedicati
all'assassinio del presidente-dittatore Park Chun-hee nel 1979 da
parte del capo della KCIA (la CIA coreana): The Man Standing Next
di Woo Min-ho, che è di quest'anno e The President's Last
Bang di Im Sang-soo, che è del 2005 ed è già un piccolo
classico (restaurato nel 2019).
Al
di là della forza della narrazione, The President's Last Bang si
fa notare per l'eleganza estrema dei movimenti di macchina, fra i più
belli di tutto il cinema coreano del nuovo millennio (superba la
carrellata multipla interno-esterno nel rifugio presidenziale!). Ma
anche per l'umorismo nero che attraversa il racconto; cito solo la
scena alla Il dottor Stranamore in cui il Capo di Stato
Maggiore dell'esercito non viene riconosciuti dai giovani soldati di
sentinella, che lo mandano a remengo.
Il
bellissimo The Man Standing Next, che arriva all'uccisione dai
40 giorni precedenti, assume una scelta stilistica tanto inusuale da
risultare quasi rivoluzionaria nel panorama del cinema d'oggi e ancor
più in quello del cinema coreano. Rinuncia del tutto a giochi
d'inquadratura, montaggio frenetico ed enfasi recitativa; ricorda in
qualche maniera i vecchi film di spionaggio non-James Bond, come
quelli tratti da Le Carrè. Anche sul piano della recitazione, come
accennato, l'espressione delle emozioni è per lo più trattenuta e
come in ghiaccio. Ciò finisce per produrre un'impressione come di
astrazione, una sorta di concentrazione emotiva, che si rovescia in
un'impressione di realismo paradossalmente maggiore di quella che
avremmo se assistessimo alla stessa storia raccontata nel modo
isterico che va di moda oggi.
Ovviamente,
per gli stessi motivi, questa scelta stilistica esalta i momenti di
violenza (molto bella la fuga dell'uomo rapito dai sicari) e quelli
di “picco emotivo”: la scena in cui, spiato dal suo futuro
assassino Kim (Lee Byung-hun), il presidente Park (Lee Sung-min) è
rimasto per un attimo da solo nella stanza e canta a mezza voce una
canzone enka di spirito buddhista sulla futilità della vita
(la stessa canzone torna tre volte nel film, venendo anche cantata da
due intrattenitrici al banchetto subito prima dell'uccisione)...
ebbene, questa scena è un momento quasi tanto bello quanto la
canzone del signore feudale che apprende la morte del suo nemico in
Kagemusha di Kurosawa. Magnifica l'interpretazione di Lee
Byung-hun (visto in un ruolo diversissimo anche in Ashfall)
nel ruolo del capo della KCIA. Nel suo viso gelato si legge la
disperazione dell'abbandono ma restano da interpretarsi per lo
spettatore le motivazioni. The Man Standing Next è
dichiaratamente shakespeariano: perché i personaggi di Shakespeare
hanno una loro ambiguità (in senso poetico) che li rende
irriducibili a una sola spiegazione del loro agire.
Hong
Kong purtroppo
ha attirato la nostra attenzione quest'anno per ben altro che per il
cinema, con la sua eroica resistenza contro la Cina.
Scheda
a parte
per la coproduzione hongkonghese-cinese Chasing
Dream
di Johnnie To. Mi spiace di avere perso My
Prince
Edward
di Norris Wong e Suk
Suk
di Ray Yeung.
Ip
Man 4: The Finale
di Wilson Yip porta a conclusione la saga di Ip Man, ben interpretato da
Donnie Yen, stavolta negli USA su invito di Bruce Lee (che però poi
praticamente scompare dal film) e alle prese con i razzisti
americani. A dispetto di una sceneggiatura piuttosto goffa, il film
trasmette adeguatamente l'umanità di Ip Man e la sua indefettibile
onorabilità.
Line
Walker 2: Invisible Spy di Jazz Boon rientra nella miglior
avventura classica hongkonghese e consegna pienamente quello che
promette: adeguata suspense, ottimi attori, grande azione e
soddisfacente morte dei villains ghignanti. Se la storia in
alcuni momenti impone una particolare attenzione per seguirla,
muovendosi fra “racconto primo” e flashback, anche chi si
perdesse, in primo luogo verrà poi recuperato dalla narrazione, in
secondo luogo non si annoierà, guardando l'azione martellante del
film (l'action director è Chin Ka Lok). E la
conclusione, con la trovata – di evidente derivazione bondiana –
di ambientare il climax nella “corsa dei tori” a Pamplona non
offre semplicemente al film la possibilità di un'angolatura inedita
ma anche quella di sbizzarrirsi in alcune delle scene più folli che
non si siano viste sul grande schermo del Teatro Nuovo
Giovanni da Udine (rimpianto...).
Un
gradino più sotto è The White Storn 2: Drug Lords di Herman
Yau, che però, oltre al consueto bel gioco di attori (anche qui c'è
Louis Koo!), contiene almeno una sequenza memorabile, quella finale
nella metropolitana.
Taiwan
ci ha dato quello che a parere di chi scrive (ma ripeto di non
averli visti tutti) è il miglior film dell'intera competizione, I
WeirDO di Liao Ming-yi (scheda a parte). C'è poi
Detention, di John Hsu: in parte un horror (ragazzi in fuga,
inseguiti da mostri, in una scuola infestata), in parte un film
politico-metaforico che usa gli stilemi dell'horror. Si parla del
“Terrore bianco” a Taiwan negli anni '50, con la feroce
persecuzione di chi leggeva libri “sovversivi” (un concetto che
comprendeva anche Tagore e perfino Padri e figli di Turgenev).
Un gruppo di studenti e insegnanti ha creato un “club del libro”
clandestino ma vengono scoperti, torturati e uccisi perché qualcuno
ha tradito. A rispondere alla domanda chi abbia tradito serve tutta
la parte irreale, appropriatamente intitolata “incubo”. Fra i
riferimenti c'è in primo luogo il J-Horror per l'ambientazione nella
scuola in rovina, ma si potrebbero nominare anche David
Cronenberg (il libro estratto dalla ferita), Pink Floyd: The Wall
(il mostro), Fahrenheit 451 (i libri copiati a mano), e
naturalmente The Others per la situazione dei morti che
non sanno di essere morti.
Sotto
questo aspetto di “fusione” Detention è indubbiamente un
esperimento interessante, anche se non direi completamente riuscito
perché il film avrebbe dovuto essere asciugato un poco: questa serie
di vagabondaggi fantasmatici diventa un po' ripetitiva. Il film è
ispirato a un videogioco e questo si vede. In effetti la parte
realistica è più apprezzabile dell'altra.
Ho
perso We Are Champions di Chang Jung-chi. Ma appartiene a
Taiwan anche un nuovo restauro offerto dal FEFF, Cheerful Wind
(1982), il secondo film di Hou Hsiao-hsien. So che è banale tirar fuori
la Nouvelle Vague. Ma c'è una freschezza, in questo film
dichiaratamente commerciale, un gusto delle cose, dei sapori, degli
odori, dell'immediatezza della vita, dell'innocenza orecchiabile
delle canzoni, che non consente di passar oltre quell'ovvio
riferimento.
Per
le Filippine, vedi scheda a parte su Sunod di
Carlo Ledesma (ho perso Edward di Thop Nazareno); e per la
Malaysia, vedi scheda a parte su Soul di Emir
Ezwan, mentre ho perso Victim(s) di Layla Ji.
L'Indonesia
aveva la peculiarità di essere presente al festival con due film
dello stesso regista, Joko Anwar (di cui ricordiamo l'horror Satan's
Slaves). Anche Impetigore è un notevole horror, che
s'impone fin dalla bella apertura sul casello autostradale, dove i
colori verdi e rossi che bagnano le due cabine anticipa l'uso, nel
corso del film, di una luce rossa innaturale in cui si immergono i
personaggi (noi italiani non possiamo non
pensare a Mario Bava). Spostandosi dall'ambiente urbano a un
villaggio nella foresta, Impetigore è un film molto
atmosferico. Il mercato coperto vuoto nella notte, popolato di
manichini in chador; la corriera notturna durante il viaggio, tra
sonno, stanchezza e fantasmi; e naturalmente il villaggio maledetto
col suo carico di segreti e la distesa opprimente della giungla... Ha
una particolare importanza nel film il wayang kulit, il teatro
d'ombre giavanese con burattini – non solo per ragioni diegetiche:
è vero che questo teatro di animazione dietro uno schermo ha un
ruolo centrale nel racconto, ma Joko Anwar lo riprende anche come
allusione: come un'uccisione che vediamo attraverso lo schermo come
in una macabra copia umana del wayang, oppure nell'episodio
delle bambine spettrali che quando vengono “liberate” svaniscono
ma lasciano per un attimo ancora, come quelle sullo schermo, la loro
ombra.
Due
degli interpreti principali del film, Tara Basro e Ario Bayu,
compaiono anche in Gundala, versione live-action del fumetto
indonesiano di supereroi creato da Hasni. Un film di supereroi che
comincia con una manifestazione politica non si vede tutti i giorni;
e questo film racconta le origini del supereroe eponimo a partire da
una situazione di estrema povertà e ingiustizia sociale. La stessa
da cui emerge come forza del male il villain Pengkor; e questo
elemento politico si mantiene lungo tutto il film, con riferimenti
alla struttura di classe e alla corruzione nel Paese. Il film si pone
come primo capitolo di una serie in prospettiva (nel finale appare
solennemente un'altra supereroina dell'universo di Hasni) – anche
se va detto che, a sorpresa, Impetigore lo ha battuto sul
piano degli incassi in patria.
In
chiusura, ecco la Cina continentale. Scheda a parte per
Changfeng Town, il film migliore della selezione cinese.
Bisogna poi menzionare il notevole An Insignificant Affair di
Ning Yuanyuan, figlia d'arte che più non si potrebbe (suo padre è
il grande regista Zhang Yuan, sua madre la sceneggiatrice Ning Dai).
Orbene, c'è un film cecoslovacco di Jaromil Jireš
che s'intitola Lo
scherzo, in cui al
tempo dello stalinismo un piccolo scherzo su una cartolina rovina
tutta la vita di un giovane; ed è una delle più impressionanti
descrizioni del totalitarismo che si possano vedere, proprio per la
materia piccola da cui nasce lo svolgimento. In qualche modo questo
film di Ning Yuanyuan lo può ricordare. In una scuola
superiore cinese un ragazzo e una ragazza che si piacciono sono
sorpresi dalla preside – una fanatica – a tenersi le mani, e da
questa piccolezza nasce un caso che coinvolge tutta la scuola e
cambia le loro vite (in questo film, lo
svolgimento è malinconico, non tragico). Il film ruota
intorno (non senza umorismo) alla lettera di autocritica che i due
dovrebbero scrivere e che continuamente viene riscritta. Ma non
finisce qui con la Cecoslovacchia: perché tutto il film ricorda
molto la nova vlna ceca. In particolare (ma
non solo) nella caratterizzazione del protagonista Xiaoshi, con
quella sua ironia e quel senso ribelle. L'interprete, Dong Bowen, ha
una faccia da impunito che incanta! Xiaoyu, la ragazza, è
interpretata dalla stessa regista Ning Yuanyuan: che stupisce, oltre
che per la bravura, perché sembra veramente una sedicenne. La sua
interpretazione è tutta trattenuta, fatta di nuances, e si
lega molto bene a quella più estroversa del partner.
Anche
Better Days, il film vincitore del premio del pubblico, è
diretto da un figlio d'arte, Derek Tsang, figlio del grande attore
hongkonghese Eric Tsang (premio alla carriera al FEFF alcuni anni
fa). Derek Tsang ha stoffa e per esempio rende molto bene all'inizio
l'atmosfera di minaccia, ancora indefinita, che la protagonista sente
fra i compagni di studio. Better Days ci porta nella piaga del
bullismo scolastico. La protagonista sta vivendo il periodo che
prelude ai severissimi esami di ammissione all'università; assiste
al suicidio di una compagna bullizzata e finisce anche lei vittima di
bullismo femminile istigato da una ragazza ricca. Non trova aiuto
nelle istituzioni ma lo trova in una specie di teppista di buon cuore
che la protegge – e questo legame fra i due “soli contro il
mondo” può ben ricordare An Insignificant Affair.
Tutto
questo non è fatto per far piacere alla censura di regime. Lo stress
psicologico degli esami, il bullismo e l'incertezza delle istituzioni
in merito, lo sguardo positivo su un giovane fuorilegge (in Cina
queste figure possono apparire al cinema solo se muoiono o vengono
punite alla fine)... Il film doveva partecipare al festival di
Berlino quando è stato improvvisamente ritirato e poi è uscito in
una versione pesantemente rieditata – con avvisi nei titoli di coda
circa l'impegno del governo contro il bullismo e con la figura
positiva di un giovane poliziotto.
Il
filmone “ufficiale” patriottico-nazionalista è The Captain,
un film ben riuscito che possiamo definire la risposta cinese a Sully
di Clint Eastwood. Anche qui, un incidente di volo realmente
avvenuto: durante un volo da Chongqing a Lhasa, sopra le montagne,
una turbolenza fa volare via un finestrino della cabina di pilotaggio
(minacciando di trascinarsi dietro il co-pilota, che finisce mezzo
fuori dall'abitacolo). Anche qui, l'intelligenza e la determinazione
del capitano Liu Changjang e dell'equipaggio salvano aereo e
passeggeri. Diretto dall'hongkonghese Andrew Lau, il film è
emozionante. Gli spettatori del FEFF ben conoscono lo stile di Andrew
Lau e qui il suo estremismo, ovvero la sua retorica della visione,
è al suo meglio (non succede così in tutti i suoi film). I voli
della mdp intorno all'aereo in avaria, o l'apparizione “esplosiva”
dell'aereo che salta fuori in volo da dietro un crinale innevato,
sono spettacolari.
E'
particolarmente interessante la diversità non semplicemente di
approccio ma, a livello più profondo, di cultura che si può
ritrovare fra i due film, quello di Eastwood e questo. Dei due
capitani, Sully è il maverick, l'individualista, che produce
il salvataggio seguendo il proprio intuito e la propria abilità,
anche sfidando le autorità esterne. Liu è – potremmo dire – il
dirigente, che coordina, dando l'esempio in prima persona, un
equipaggio perfettamente disciplinato che agisce come un sol uomo.
“Seguire le procedure!”, dice nel dramma.
Individualismo
americano e organicismo orientale (non solo cinese) a specchio.
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