Antonio Padovan
C'è un bellissimo racconto di Giuseppe Berto dei primi anni Sessanta, La luna è nostra, in cui un meccanico italiano che è una sorta di reincarnazione di don Chisciotte costruisce un razzo per raggiungere la Luna (senza sorpresa, il razzo ha nome Dulcinea). Uno spirito molto simile pervade il bel film di Antonio Padovan Il grande passo, che segna un grosso miglioramento rispetto al precedente Finché c'è Prosecco c'è speranza. E’ un film di ossessioni collegate in una costellazione psicologica coerente che fonde il rapporto con un padre assente, la mitologia individualista del fare e del sognare, la volontà di andarsene da un mondo disprezzato e naturalmente lei, il nostro argenteo satellite, la Luna in cielo, da raggiungere con un razzo fatto in casa.
Due fratellastri egualmente corpulenti e barbuti vivono ai due estremi sociologici d’Italia. Dario (Giuseppe Battiston), il veneto, rischia di essere sottoposto a TSO perché ha incendiato un campo con il fallimento del suo primo tentativo di decollo col razzo. Mario (Stefano Fresi), il romano, si spinge fino al suo paese per convincerlo a entrare volontariamente in un istituto. Naturalmente all'antipatia reciproca tra i fratelli seguirà il reciproco riconoscimento, fino alla complicità, tant'è vero che alla fine (attenzione, spoiler!) il film mette in scena un raddoppiamento che rappresenta una sorta di fusione.
Certamente l’effetto di questa scelta di casting è di raddoppiare il richiamo del film nella penisola, ma è funzionale all'opera. Mentre Battiston è bravissimo nel far emergere sotto il personaggio dell'eremita rustico e mattoide un tratto di evidenza drammatica, Fresi rende bene il senso di spaesamento del romano catapultato in mezzo al nulla – il posto si chiama Quattrotronchi – a vedersela tanto col fratello incazzoso e rissoso quanto con la freddezza locale (quegli sguardi che lo trapassano all'arrivo!). Un posto che è la negazione dei sogni – non per nulla un cretino al bar si fa portatore della teoria secondo cui lo sbarco di Armstrong sulla Luna il 20 luglio 1969 era una finzione girata a Hollywood.
C’è una dichiarata sintonia col cinema di Carlo Mazzacurati, tanto che Padovan costruisce l'inquadratura dell'arrivo di Mario in paese come citazione-omaggio al regista scomparso; però Il grande passo sembra anche debitore, in piccolo, della lezione felliniana: non penso al poeticismo troppo insistito de La voce della Luna ma al bozzettismo vivace di Amarcord. In effetti Antonio Padovan mira a costruire (già si vedeva in Finché c'è Prosecco c'è speranza) una collezione di volti e figurette di sapore locale (anche avvalendosi di volti ritornanti come, oltre a Battiston, Roberto Citran, Teco Celio, Vitaliano Trevisan). Se alcune figure sono un po' didattiche, altre sono veramente riuscite: cito in particolare Adamo, il rompiscatole interpretato da Teco Celio. Il loro adunarsi sorridenti nel finale ha quasi il sapore di una chiamata alla ribalta.
Si notano diversi bei tocchi registici. Per esempio quel pesce rosso in una piccolissima boccia sulla scrivania dell'avvocato nell'incontro con Mario, che rappresenta metaforicamente in un raddoppiamento simbolico la condizione di chiusura che si sta stringendo attorno a Dario. Oppure l'inquadratura di Dario quando biascica controvoglia le sue scuse al vicino, in primissimo piano con alle spalle un videogioco sul megaschermo, come se ne facesse parte. Graziosa anche l’apertura del film con una replica ingannevole dell'orma del primo uomo sulla Luna, che tornerà circolarmente nel finale.
Nell'ambito del “realismo magico”, come bene è stato detto del film, c'è dietro una concezione eroica del viaggio spaziale. “Riuscire a staccarsi da questo cazzo di pianeta”, dice Dario, parlando della gravità ma con una portata metaforica maggiore: è assai significativo che il punto scelto per l'atterraggio sulla Luna sia il Mare della Tranquillità. La Luna ne Il grande passo è un Altrove mitico – il cui alone fantastico si origina (per Dario bambino) e si rifrange (per gli spettatori quando vedono la clip) nella famosa trasmissione in b/n dello sbarco sulla Luna del 1969, ripresa nel film in un flashback del piccolo Dario affascinato.
Detto in margine: chi ha vissuto quel momento televisivo ricorda con la stessa pregnanza il “grande passo” di Armstrong e il battibecco fra Tito Stagno in studio e Ruggero Orlando dall'America (“Ha toccato” – “Non ha toccato”): un indimenticabile anticlimax surreale, che è sintomatico venga eliso nel film di Padovan: perché, mi piace pensare, non sarebbe rientrato nel tono elegiaco del flashback, potenziato dalla musica suggestiva di Pino Donaggio.
Continuamente aleggia sulla storia il fantasma del padre, un falso eroe di cui Dario non vuole intendere la falsità segnalata dal fratello. La pagina dell'incontro rivelatorio con lui invecchiato (ultima apparizione cinematografica di Flavio Bucci) presenta un momento di devastazione – più morale che fisica – dove la sceneggiatura raggiunge un punto alto. Tuttavia, nonostante la delusione, lo spirito di don Chisciotte rimane vivo; la rivendicazione del sogno sfocia in un gran finale che col suo massimalismo poetico-narrativo allontana definitivamente il film dalla dimensione di piccolezza programmatica di tanto cinema italiano.
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