Dopo anni e anni di
lavorazione, finalmente abbiamo La famosa invasione degli orsi in
Sicilia di Lorenzo Mattotti, trascrizione filmica del romanzo di
Dino Buzzati.
Leggendo il saggio di
David Rosenberg nel volume Mattotti / Sconfini, del 2016, c'è
da restare stupiti: Rosenberg enumera i temi ricorrenti nelle opere
di Mattotti (per evitare l'inciampo di una citazione troppo lunga
menziono solo il viaggio iniziatico, ma sono molti); ah, ma sono gli
stessi temi che si ritrovano nel romanzo di Buzzati. Il che vale a
dire che Buzzati è quello che potremmo chiamare l'“autore
naturale” per Mattotti, come ad esempio Ballard lo è stato per
Cronenberg in Crash.
La famosa invasione
degli orsi in Sicilia di Buzzati è una storia affascinante e
malinconica, che sa di foglie morte e di sogni impossibili, di grande
speranza e di maggiore delusione, segnata dall'esperienza della
guerra mondiale appena finita (la prima versione uscì a puntate nel
1945). Il film ha la bellissima invenzione di una cornice
metanarrativa (prima, in una caverna che è un gioco astratto di
grigi e di ombre, il cantastorie Gedeone e sua figlia, poi il vecchio
orso, cui dà la voce in italiano Andrea Camilleri). Questa cornice
traduce l'epos di Buzzati nella dimensione immediata
dell'affabulazione realizzando in modo plastico quel senso di
leggenda di tempi perduti che Buzzati conseguiva con altri mezzi, e
assumendo la dimensione contemporanea dell'insicurezza del racconto.
Se già nella sua prima versione il romanzo era stato diviso in due
parti, qui, con tocco geniale, il racconto viene diviso in due
“valve” che si rispecchiano in modo simmetrico: a un narratore
umano segue un narratore ursino, al racconto umano ottimistico il
racconto ursino pessimistico, ascesa e caduta, un canto e un
controcanto; due racconti di cui il secondo è l'antitesi del primo.
Così si mantiene e anzi si sottolinea quel senso di malinconia. Vero
è che il film si chiude su una piccola invenzione ottimistica, il
segreto rivelato dall'orso che risolleva gli spiriti della bambina;
ma esso viene tenuto nascosto al cantastorie come a noi spettatori –
quindi, per noi, una mozione di speranza piuttosto vaga.
Per
portare sullo schermo la Famosa invasione,
un forte lavoro di sceneggiatura (Lorenzo Mattotti, Jean-Luc
Fromental e Thomas Bidegain) si è posto il compito di creare una
trama maggiormente adatta a un'opera cinematografica. Non solo
strutturando maggiormente il plot: per esempio il rapimento di Tonio,
figlio di Leonzio, nel disegno di Buzzati è illustrato con una sola
tavola di gelida angoscia astratta nella sua logica spaziale
impossibile; nel film esso è la logica conclusione di uno sviluppo
avventuroso cinematografico (l'orsatto viene trascinato via dal
fiume). Prima ancora – poiché il romanzo di Buzzati è, in
piccolo, una chanson de geste,
in cui i personaggi hanno una continuità aleatoria – gli
sceneggiatori sono intervenuti nello “schieramento” dei
personaggi e nella loro definizione psicologica. Qui è importante
l'introduzione di una figura femminile, doppia e tuttavia unica: la
piccola apprendista cantastorie Almerina, che dalla cornice arriva a
fondersi con l'Almerina del racconto, l'amica dell'orso Tonio.
Un'invenzione che sarebbe piaciuta allo stesso Buzzati se avesse
potuto vedere il film – a parte il fatto che Almerina è un omaggio
al nome di sua moglie.
Un altro intervento di
rilievo è lo sviluppo del personaggio dell'orso Tonio, che diventa
un personaggio centrale, caricando su di lui il peso simbolico di
questo incontro fra il mondo umano e quello ursino e trasformandolo
in un personaggio attivo al confine fra i due mondi. Almerina e Tonio
diventano i motori della seconda parte del film, mentre re Leonzio è
relegato a un ruolo di sovrano ingannato e manovrato da Salnitro (il
villain della situazione). La trama, in una parola, è più
intessuta rispetto alla segmentazione aerea e poetica buzzatiana.
Una nota sulla
violenza. Nei suoi disegni, che amano (per usare un termine
cinematografico) il campo lungo, Buzzati si diletta a riempire il
vasto spazio di figurine piccolissime di orsi visti in una quantità
differenziata di atteggiamenti; e nella tavola dell'assedio riempie
il quadro di combattenti e anche di cadaveri, con una macchia di
sangue che si allarga sotto il corpo. Pure nell'illustrazione della
banca rapinata non mancano i cadaveri dei guardiani sugli scalini. Il
film è molto più pacifico; non solo si muore di meno – il minimo
possibile, potremmo dire – ma il sangue è assente, come nei film
americani degli anni Trenta. Dopo la morte del gatto mammone, nel
film gli orsi inghiottiti saltan fuori trionfalmente dalla sua pancia
come Pinocchio dalla balena.
Sul piano grafico, il
film risolve brillantemente il suo problema più spinoso: è la
versione cartoon indipendente (non è come nel rapporto manga/anime)
di un testo illustrato, che deve evitare di essere subordinato
all'illustrazione originaria e contemporaneamente vuole
evitare di gettarla via per creare un'illustrazione totalmente
“altra”. Con la differenza che Buzzati, come illustratore del suo
romanzo, ha la possibilità di scegliere il momento perçant
da fissare – mentre Mattotti deve lavorare in continuità. Eppure
Mattotti crea egualmente un'opera di cui si può dire che ogni
inquadratura è un quadro.
Tutta l'opera di
Mattotti ha una variata ricchezza, che attinge a una grande cultura
figurativa che ingloba suggestioni della storia della pittura,
dell'illustrazione e del fumetto. Anche qui, Mattotti non lavora su
un “partito preso” grafico – per lui ogni inquadratura è un
problema da risolvere in sé – ma su una linea guida di
composizione estetica coerente, per cui il grande risultato artistico
del film è che tutto si fonde in una composizione unitaria con
perfetta fluidità.
Se Buzzati nelle sue
illustrazioni per la Famosa invasione usava il pennino anche
per le tavole colorate, Mattotti illustra la storia con un flusso di
colore puro, una gioia di colori vivacemente accostati. Un declivio
erboso è una cascata di pastello verde. Guardate i picchi delle
montagne in lontananza: quelli di Buzzati sono rocce aspre,
un'esagerazione fiabesca delle montagne del Trentino che lui amava;
quelli di Mattotti sono forme arrotondate e fantastiche. Il disegno di
Mattotti è essenziale, un gioco raffinato di colori
squillanti e ombre. Le fughe prospettiche di Buzzati vengono riprese
e amplificate. Un volo di uccelli in questo paesaggio fantastico è
bello come in Miyazaki.
E', quello di Mattotti,
un tratto pieno, corposo, “tangibile”, vien voglia di dire
tridimensionale. Gli orsi sono pesanti e massicci, al pari del
cantastorie. Ma ecco il doppio personaggio femminile, che è tutto
energia e movimento. Ed ecco – riprendendo Buzzati – il professor
De Ambrosis che è un burattino scheletrico, tutte linee strette e
spezzate nel gioco di gambe e braccia come un insetto... i suoi
nemici lo chiamano, nel film, “cavalletta”, oltre che “scheletro”
o “asparago”.
Il Gatto Mammone di
Buzzati è, pur con le strisce e i “baffoni” bianchi, un
gattaccio randagio magnificato; quello di Mattotti è un inquietante
clown fiabesco, quasi un pallone volante, uno Stregatto assassino. Ma
gli fa da pendant e alternativa la minuziosa descrizione del
Serpenton dei mari che invece, riprendendo Buzzati da vicino, è una
creatura realistica, con un movimento (ed effetti sonori) da film di
mostri.
Nel film sono
incastonati graziosi riferimenti pittorici. Non solo Van Dyck rifatto
parodisticamente in un ritratto equestre del perfido Granduca. Nel
corpo del racconto ritroviamo velocemente, inaspettatamente, una
piazza metafisica dechirichiana (nella fuga di Almerina), i fichi
d'india di Guttuso, un gruppo di case che fanno tanto Carlo Carrà.
Nonché Buzzati. Il film inserisce nel proprio corpo la
riutilizzazione dei disegni di Buzzati della Famosa invasione
come dipinti intradiegetici. Per esempio, li vediamo come affreschi
nel palazzo e come grandi quadri incorniciati appesi nel suo
corridoio d'onore: come una riflessione e una celebrazione degli orsi
sulla loro storia. E' ozioso ma affascinante chiedersi quale pittore
(uomo od orso?) ne è stato l'autore nell'universo del film. Non si
sarà chiamato Buzzati? Sicché Dino Buzzati diventa per via
indiretta un personaggio della propria stessa creazione.
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