Fra
tutti i Macbeth
possibili, lo splendido
Macbettu di Alessandro
Serra, parlato in sardo, è particolarmente vicino alla concezione di
Orson Welles. Facciamo un passo indietro. Orson Welles pensa a un
Macbeth barbarico e
primordiale, un mondo in cui le forze soprannaturali si frammischiano
ancora strettamente alla vita degli uomini. Così realizza in teatro
nel 1938 il suo famoso “Macbeth negro”,
interamente interpretato da attori neri e ambientato ad Haiti nel
XIX secolo, con riferimenti
al voodoo (per inciso, il capo dei tamburi era un autentico
stregone). Poi nel 1948 Welles gira il film Macbeth,
tornando all’ambientazione
scozzese, ma immersa in un universo fangoso, primigenio.
Simile
nell'ispirazione mi pare lo spettacolo di Alessandro Serra, questo
Macbettu feroce e
ossessivo che traspone l'opera di Shakespeare in lingua sarda e
utilizza gli elementi della tradizione sarda e del carnevale
barbaricino: i costumi, i coltelli, il pane carasau, le pietre
accatastate a forma di nuraghe, le maschere tradizionali per
l'esercito di Malcolm. E molta
polvere, che si alza in una nuvolaglia e che le streghe spazzano con
le loro scope.
E'
ovvio ma necessario raggiungere
che il sardo, con la sua essenzialità e il suo lessico arcaico,
ancora vicino al basso latino, conferisce al testo shakespeariano una
risonanza potente e spietata. Riscrittura – ma riscrittura che
conserva l'impronta dell'originale (viene
in mente, pur nella sua differenza, l'esperimento di Kurosawa Akira
nel superbo Il trono di sangue).
Serra diceva molto giustamente, in un incontro col pubblico, che nel
mondo contemporaneo è stato
(malauguratamente)
reciso il cordone che ci lega alla sfera del soprannaturale. Questo
spettacolo lo riporta assai bene sulla scena; e in questo, come già
detto, può ricordare – non
per la realizzazione ma per una sorta di sintonia d'intenti – il
Macbeth di Welles (a
differenza per esempio del razionalismo di Roman Polanski nel suo).
Gli
attori sono tutti uomini, come al tempo di Shakespeare, ma senza
l'intenzione mimetica del teatro elisabettiano, in cui le parti
femminile erano recitate da giovanetti. Qui Lady Macbeth è un uomo
barbuto dai capelli lunghi. Eppure la magia combinata del testo e
della realizzazione fa sì che vediamo effettivamente in lui la
tragica signora di Glamis, e quando appare nudo in scena col suo
corpo maschio nella scena del suicidio, questo corpo nudo “sta per”
la Lady senza impedimenti, fino a ridestare regolarmente “il
terrore e la pietà”.
Lascia
particolarmente colpiti la gestione della figura collettiva delle
streghe. Queste streghe hanno tratti marcatamente clowneschi (mai
sottovalutare l'elemento della buffoneria in Shakespeare!) ma allo
stesso tempo mantengono una preoccupante alterità. Vediamo
l'inferno in terra nella loro
irruzione di irrazionalità,
nelle
loro componenti di
astrazione e parodia (e sui rapporti fra il diavolo e la comicità ci
sarebbe da scrivere non un articolo ma un volume). Dapprima
tre come da copione, poi soggiaciono a una moltiplicazione che
coinvolge buona parte della compagnia. Nel
loro sgambettare ridicolo e meccanico, curve,
piegate, infagottate,
quando si moltiplicano ricordano le brulicanti figurine grottesche di
Hieronymus Bosch..
La
scenografia è minimale, come
d'uso – ma qui non avrebbe potuto essere altrimenti. L'azione si
svolge in un semibuio persistente e opprimente, nel quale minimi
arredi e oggetti di scena hanno un puro ruolo di segno svolgendo
diverse funzioni. In uno spettacolo che gioca moltissimo sulla
suggestione sonora, le modulazioni ipnotiche della voce e le musiche
delle pietre sonore di Pinuccio Sciola, c'è sulla voce un
grandissimo lavoro, in particolare da parte dell'eccellente
protagonista. Il dialogo qui riporta i sentimenti a un'espressione
originaria. E quando il protagonista attraversa il palcoscenico
urlando ripetutamente “Macbettu”, sentiamo
fisicamente la ferocia.
Curatissimo
il movimento. In una coreografia che ha movenze, a tratti, di ballet
mécanique i
personaggi si confrontano in un incontrarsi e separarsi, ritrovarsi e
ritirarsi, abbracciarsi e accoltellarsi... ridere per l'assurdità
delle predizioni (Macbettu e Banquo all'inizio) e ridere fra le
lacrime per la ferocia degli omicidi (Macbettu alla fine)... che
appare perfetto per riportare sul palcoscenico quel senso di
assurdità, di vero annullamento del significato, che impronta la
tragedia.
Certo,
il
Macbeth è una
tragedia “a lieto fine”, in cui la giustizia trionfa e i diritti
dinastici vengono ristabiliti. Ma questa conclusione encomiastica non
può annullare l'atmosfera raggelante di capovolgimento degli opposti
e perdita del senso che attraversa tutta l'opera. “Fair is foul and
foul is fair / [e
davvero in questo spettacolo noi spettatori]
hover through the fog and filthy air”.
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