lunedì 4 novembre 2019

Macbettu

regia di Alessandro Serra

Fra tutti i Macbeth possibili, lo splendido Macbettu di Alessandro Serra, parlato in sardo, è particolarmente vicino alla concezione di Orson Welles. Facciamo un passo indietro. Orson Welles pensa a un Macbeth barbarico e primordiale, un mondo in cui le forze soprannaturali si frammischiano ancora strettamente alla vita degli uomini. Così realizza in teatro nel 1938 il suo famoso “Macbeth negro”, interamente interpretato da attori neri e ambientato ad Haiti nel XIX secolo, con riferimenti al voodoo (per inciso, il capo dei tamburi era un autentico stregone). Poi nel 1948 Welles gira il film Macbeth, tornando all’ambientazione scozzese, ma immersa in un universo fangoso, primigenio.
Simile nell'ispirazione mi pare lo spettacolo di Alessandro Serra, questo Macbettu feroce e ossessivo che traspone l'opera di Shakespeare in lingua sarda e utilizza gli elementi della tradizione sarda e del carnevale barbaricino: i costumi, i coltelli, il pane carasau, le pietre accatastate a forma di nuraghe, le maschere tradizionali per l'esercito di Malcolm. E molta polvere, che si alza in una nuvolaglia e che le streghe spazzano con le loro scope.
E' ovvio ma necessario raggiungere che il sardo, con la sua essenzialità e il suo lessico arcaico, ancora vicino al basso latino, conferisce al testo shakespeariano una risonanza potente e spietata. Riscrittura – ma riscrittura che conserva l'impronta dell'originale (viene in mente, pur nella sua differenza, l'esperimento di Kurosawa Akira nel superbo Il trono di sangue). Serra diceva molto giustamente, in un incontro col pubblico, che nel mondo contemporaneo è stato (malauguratamente) reciso il cordone che ci lega alla sfera del soprannaturale. Questo spettacolo lo riporta assai bene sulla scena; e in questo, come già detto, può ricordare – non per la realizzazione ma per una sorta di sintonia d'intenti – il Macbeth di Welles (a differenza per esempio del razionalismo di Roman Polanski nel suo).
Gli attori sono tutti uomini, come al tempo di Shakespeare, ma senza l'intenzione mimetica del teatro elisabettiano, in cui le parti femminile erano recitate da giovanetti. Qui Lady Macbeth è un uomo barbuto dai capelli lunghi. Eppure la magia combinata del testo e della realizzazione fa sì che vediamo effettivamente in lui la tragica signora di Glamis, e quando appare nudo in scena col suo corpo maschio nella scena del suicidio, questo corpo nudo “sta per” la Lady senza impedimenti, fino a ridestare regolarmente “il terrore e la pietà”.
Lascia particolarmente colpiti la gestione della figura collettiva delle streghe. Queste streghe hanno tratti marcatamente clowneschi (mai sottovalutare l'elemento della buffoneria in Shakespeare!) ma allo stesso tempo mantengono una preoccupante alterità. Vediamo l'inferno in terra nella loro irruzione di irrazionalità, nelle loro componenti di astrazione e parodia (e sui rapporti fra il diavolo e la comicità ci sarebbe da scrivere non un articolo ma un volume). Dapprima tre come da copione, poi soggiaciono a una moltiplicazione che coinvolge buona parte della compagnia. Nel loro sgambettare ridicolo e meccanico, curve, piegate, infagottate, quando si moltiplicano ricordano le brulicanti figurine grottesche di Hieronymus Bosch..
La scenografia è minimale, come d'uso – ma qui non avrebbe potuto essere altrimenti. L'azione si svolge in un semibuio persistente e opprimente, nel quale minimi arredi e oggetti di scena hanno un puro ruolo di segno svolgendo diverse funzioni. In uno spettacolo che gioca moltissimo sulla suggestione sonora, le modulazioni ipnotiche della voce e le musiche delle pietre sonore di Pinuccio Sciola, c'è sulla voce un grandissimo lavoro, in particolare da parte dell'eccellente protagonista. Il dialogo qui riporta i sentimenti a un'espressione originaria. E quando il protagonista attraversa il palcoscenico urlando ripetutamente “Macbettu”, sentiamo fisicamente la ferocia.
Curatissimo il movimento. In una coreografia che ha movenze, a tratti, di ballet mécanique i personaggi si confrontano in un incontrarsi e separarsi, ritrovarsi e ritirarsi, abbracciarsi e accoltellarsi... ridere per l'assurdità delle predizioni (Macbettu e Banquo all'inizio) e ridere fra le lacrime per la ferocia degli omicidi (Macbettu alla fine)... che appare perfetto per riportare sul palcoscenico quel senso di assurdità, di vero annullamento del significato, che impronta la tragedia.
Certo, il Macbeth è una tragedia “a lieto fine”, in cui la giustizia trionfa e i diritti dinastici vengono ristabiliti. Ma questa conclusione encomiastica non può annullare l'atmosfera raggelante di capovolgimento degli opposti e perdita del senso che attraversa tutta l'opera. “Fair is foul and foul is fair / [e davvero in questo spettacolo noi spettatori] hover through the fog and filthy air”.

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