sabato 9 giugno 2018

Hotel Gagarin

Simone Spada

Non privo di difetti ma interessante, certo inferiore all'ottimo Easy di Andrea Magnani che in qualche modo è analogo, Hotel Gagarin di Simone Spada inizia in Italia con una italianissima coppia di magliari. Un politico cialtrone incontra un piccolo imbroglione suo amico, Maurizio Paradiso (Tommaso Ragno), e gli propone una truffa: ottenere un finanziamento europeo (di cui lui si terrà una fetta) per un film italiano da girare in Armenia; intascati i primi soldi, la produzione sparirà lasciando al suo destino la troupe. Così Paradiso assume i primi dilettanti senz'arte né parte che trova per strada, fra cui una prostituta che dovrebbe diventare la star, li affida a una sua complice (che peraltro conta di fregare) e li spedisce fra le nevi armene. Il regista sarà un innocente professore cinefilo (Giuseppe Battiston), gustosa vignetta di insegnante barbuto e capelluto che cerca di interessare alla storia e al cinema i suoi studenti demotivati costringendoli a vedere Sokurov e i fratelli Taviani, con deprecabili risultati. Viene riempito di complimenti per una sceneggiatura che in realtà nessuno ha letto, e ci casca come una pera; non per nulla il suo nome è Nicola Speranza.
Sempre sensibile nelle sue interpretazioni, Giuseppe Battiston ha un'imponenza fisica che gioca a fini espressivi: ora giganteggia come una nave, nei momenti di confidenza (o auto-illusione), ora sembrare stringersi in un accesso di timidezza. E da quel corpaccione fa uscire una voce tutta di testa, flautata, ad effetti comici perfino chioccia, che “ritaglia” le battute e le mette in rilievo. Nota in margine: qui è perfetto per la parte, però si vorrebbe che il cinema italiano usasse quest'eccellente attore in tutta la sua gamma, quale si può vedere in teatro (ricordo per esempio un suo memorabile Macbeth).
Tutti questi sciamannati (un'Armata Brancaleone del cinema se mai ne abbiamo vista una) sono accomunati dal desiderio della fuga oppure dall'illusione – ma sono poi due cose così diverse? E così finiscono in mezzo al nulla, a millanta gradi sotto zero, nel deserto Hotel Gagarin; dove però resteranno imprevedibilmente bloccati per due mesi da una guerra scoppiata fra l'Armenia e l'Azerbaigian.
Il film si articola su due linee narrative. La prima è tradizionale, ed è la descrizione ironica delle vittime della truffa e della loro reazione. Sono, queste, figure tradizionali della commedia italiana: in primo luogo la prostituta ingenua e cuor d'oro, erede di una lunghissima tradizione da Cabiria in poi; seguono un proletario triste e un sottoproletario sfumazzato, che servono a fornire quel tanto di romanesco senza di cui il nostro cinema pare non possa vivere; abbiamo già detto della truffatrice truffata e dell'ingenuone angelico perso fra le sue nuvole personali. Però bisogna aggiungere che alla prevedibilità degli stereotipi si contrappongono, e in qualche modo li salvano, delle belle interpretazioni: Silvia D'Amico, la prostituta, Barbora Bobulova, la complice della truffa, e naturalmente Battiston; cui possiamo aggiungere l'attrice bielorussa Caterina Shulha nel ruolo di una metallara incinta che fa da autista e interprete.
Com'è di regola in questo genere di film (il cinismo di Risi o l'ironia acre di Germi e di Salce appartengono al passato), allo sconcerto quando emerge la realtà della truffa segue un processo di maturazione delle vittime. Ciascuno di loro ne esce trasformato in meglio: in un paio di casi la fuga si trasforma in una nuova vita, e anche gli altri ripartiranno per l'Italia più forti e più saggi di quand'erano arrivati.
L'aspetto intelligente del film è che questa crescita personale delle “vittime” non si deve direttamente alla loro disgrazia. C'è un motivo concreto, che introduce un particolare senso di umanità; e infatti è qui che Hotel Gagarin prende ala. Nella solitudine dell'hotel fra le nevi emerge, come già accennato, una seconda, più originale linea narrativa. Complice un amabile fantasma (Philippe Leroy), l'argomento del film si rovescia in un altro: diventa un'esaltazione del cinema stesso come produzione di magia. Ispirato dall'antica fama del cinema italiano, si presenta un vecchietto del paese vicino, che da sempre ha un sogno: vorrebbe diventare Yuri Gagarin: filmare un re-enacting del volo di Gagarin del 1961 con lui stesso nella parte dell'eroe. In uno sbocco di gentilezza, nato magari dalla disperazione, lo accontentano, ricostruendo con mezzi poveri, fra l'artigianale e il simbolico, il suo volo sulla Vostok 1. Ed ecco che si presenta all'albergo un fiume di paesani del villaggio vicino, ciascuno col suo sogno nel cassetto: chi vuole rifare scene e personaggi cinematografici, dai duelli di Sergio Leone a Humphrey Bogart; chi vuole trasferire su pellicola il desiderio della sua vita: una ragazzina vuol essere un'étoile del balletto, un bambino andare a New York, due vecchietti vogliono registrare su pellicola l'amore eterno, e così via.
Il film gioca con abilità sul grottesco della situazione con questi visi estremamente autentici (evidentemente locali non professionisti) – volti contadini, vissuti, barbuti, vecchie contadine col fazzoletto in testa – e col metodo ultra-artigianale con cui i nostri cinematografari improvvisati realizzano i sogni richiesti, mettendoli in scena con delle costruzioni scenografiche elementari che avrebbero fatto vergognare Méliès, ma che servono allo scopo. C'è certamente il ricordo di Fellini qui; però riguardo a questa scelta di evocare il cinema riproducendolo con mezzi elementari, e però che paradossalmente non lo negano ma ne riproducono la magia, mi sembra si possa richiamare il film di Michel Gondry Be Kind Rewind.
Il peggior difetto di Hotel Gagarin salta fuori in alcuni dialoghi: ogni tanto rispunta il solito elemento oratorio, edificante, confessionale del cinema italiano, tipo “Io ho sempre vissuto una vita fredda e senza cuore, priva d'amore e di considerazione verso il prossimo” - “Anch'io, ma oggi finalmente abbiamo preso coscienza” (questa è parodia, beninteso, ma non così distante dal vero). Per fortuna questi momenti sono rari, e si perdono nel flusso del racconto; però quando spuntano si avvertono come stonature. Ma questo vizio del cinema italiano si perdona, ed arriva un'autentica commozione, quando – molto ben gestite, nella loro enunciazione inframmezzata ai titoli di coda – appaiono le immagini, in tutta la loro poetica naïveté, di questi filmati che hanno resa felice la gente del villaggio. Davvero il cinema, per parafrasare il Bardo, è fatto della materia di cui son fatti i sogni.

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