domenica 27 maggio 2018

Solo: A Star Wars Story

Ron Howard


Se è vero il proverbio “troppi cuochi rovinano il brodo”, c'erano motivi per aspettarsi il peggio da Solo: A Star Wars Story, che ha avuto una gestazione più difficoltosa della famosa rotta di Kessel in meno di dodici parsec che vediamo nel film. Com'è noto, durante la lavorazione sono stati licenziati i due co-registi Phil Lord e Christopher Miller – i quali, scritturati per portare al film un tocco di umorismo, avevano cercato di dargli un approccio troppo da commedia, e si prendevano molte libertà con la sceneggiatura di Lawrence Kasdan e suo figlio Jon. A loro è subentrato Ron Marshall, antico amico e sodale di George Lucas, e oltre a completare il film ha rigirato molte scene del lavoro precedente (si parla del 70%).
Ora, bisogna ammettere che tutti noi appassionati di Star Wars abbiamo un attacco di batticuore a ogni nuovo episodio, specie della serie laterale degli spin-off, temendo per la “sacralità” del canone. Per fortuna, la saga ha una specie di sentinella nella figura di Lawrence Kasdan, che sceneggiò L'Impero colpisce ancora, dopo la morte di Leigh Brackett, nel lontano 1978, poi Il ritorno dello Jedi, è tornato per Il risveglio della Forza nel 2015 e ora, a 69 anni, è co-sceneggiatore di Solo assieme al figlio. Ebbene, Kasdan non ci ha traditi. Certamente il film soffre delle proprie avventure produttive; ma il risultato, smentendo il proverbio, è un brodo ancora gustoso. Del resto, capolavori ben maggiori della storia del cinema, da Via col vento a Duello al sole, sono passati per una pluralità di mani.
In Solo (che come altri film della serie è un vero e proprio Bildungsroman) assistiamo alla formazione dell'eroe: come ottiene il cognome (in origine era semplicemente Han), come incontra Chewbacca e fa amicizia con lui, come diventa proprietario del Millennium Falcon. E' interessante che il “tema di Han Solo” della score originaria di John Williams risuoni, nel presente film, soltanto quando si realizza l'incontro fra il protagonista e l'astronave. Han Solo è Han Solo in connessione col Millennium Falcon, come Artù con Excalibur.
E' una sfida difficile calarsi nei panni di Harrison Ford; ma Alden Ehrenreich – la cui interpretazione invero ha diviso la critica tanto quanto il film stesso – mi sembra sia riuscito a disegnare un credibile Han Solo giovane, privo di quell'amarezza che lo accompagna nella maturità e ancor più (et pour cause!) nella vecchiaia. Infatti, al massimo si potrebbe obbiettare che è un po' troppo nice guy per i presupposti della storia, limitando il suo cinismo a qualche battuta pronunciata con una passabile faccia da schiaffi; talché, quando a metà film Qi'ra (Emilia Clarke) gli dice solennemente che lei è l'unica in tutta la Galassia a sapere che è “un bravo ragazzo”, la battuta sembra alquanto ridicola: l'avevamo già capito.
In un film dove non sentiamo nominare nemmeno una volta la Forza o i cavalieri Jedi, al di là del paesaggio-situazione mi pare che solo uno dei topoi tipici della serie Star Wars ritorni con particolare evidenza: quello dello scontro padre-figlio. Perché la mitologia di Star Wars è piena di padri; padri carnali e padri adottivi; padri che vogliono divorare (pervertire) il figlio, come Darth Vader, e padri che lo aiutano a crescere, come Obi-wan Kenobi. E contestualmente figli, carnali o adottivi, che amano o che rinnegano. Forse sarebbe interessante studiare Star Wars alla luce della narrativa di fantascienza, oggi poco ricordata, di Robert A. Heinlein.
Qui troviamo (attenzione: seguono spoiler!) la figura di Tobias Beckett (Woody Harrelson), che rappresenta una sorta di padre putativo per il giovane Han, e che nel climax rivela di avere piani tutti suoi (“Mi dispiace tanto, ragazzino... non ti fidare mai”). Nel duello finale fra loro risuona l'eco del western (un altro genere che ne sa qualcosa di lotte fra padri e figli).
A parte questo tema, sarebbe inutile nasconderci che l'elemento mitico e wagneriano della serie, coi suoi addentellati di caduta e redenzione, nel presente film è limitato. L'avventura è emozionante ma non ha un sottofondo epico. Ron Howard apporta a Solo l'abilità artigiana, e naturalmente le caratteristiche concretizzatesi nel tempo, di una carriera lunga, e anche diseguale (i suoi film tratti da Dan Brown sono bruttissimi – sebbene non ci sia niente da dire sulla sua abilità nelle sequenze d'azione). Per quanto il citazionismo dal cinema fiabesco e fantascientifico fosse una delle caratteristiche forti del Guerre stellari del 1977, merita notare come in Solo Howard riprenda in modo piuttosto nuovo rispetto alla serie l'iconologia e gli stilemi del moderno cinema di genere. Questo si vede subito con il car chasing fra auto volanti all'inizio: non è un inedito nella saga, ma salvo errore è la prima volta che un poliziotto in “moto” li vede che s'inseguono e sfreccia avanti per fermarli, come sulle strade americane. La sequenza della battaglia – “sporca”, nebbiosa per la polvere sollevata, nella fotografia di Bradford Young – ci riporta al cinema sulla seconda guerra mondiale più che alla tradizione molto netta di Star Wars. Ritroviamo forme e personaggi classici degli heist movies, i film di rapina (penso all'alieno a quattro braccia Rio Durant), e infatti segue la classica “rapina al treno” correndo sui vagoni – però riscritta con vivacità e fantasia in chiave fantascientifica.
Ma in particolare un modello che sovrintende ai rapporti fra i personaggi principali del film è quello del cinema noir. Quando Han Solo ritrova il suo antico amore Qi'ra lei è molto cambiata ed ha i connotati (e l'ambiguità) della classica “buona cattiva ragazza” del romanticismo noir, compreso un senso masochistico di indegnità; battute come “Non sai quello che ho fatto” vengono direttamente di qui – e tutto lo sviluppo seguente si legge in questa chiave, fino allo sguardo addolorato andandosene con l'astronave-yacht. Mentre il temibile Dryden Vos (un ottimo Paul Bettany), assassino beneducato e spietato, è gemello dei classici personaggi alla Richard Widmark.
Il pericoloso viaggio a rompicollo nello spazio è certamente “ortodosso” nell'universo di Star Wars, e già menzionato nella saga; nondimeno si ricollega a Edgar A. Poe e a tutta la narrativa di avventura marinara, trasferita intelligentemente sullo schermo dalla serie Pirati dei Caraibi: ecco il maelstrom, e quel mostro spaziale immenso al quale di Kraken manca solo il nome.
Solo è platealmente costruito in modo da lasciare spazio a un sequel. La storia fra Han Solo e Qi'ra viene lasciata a metà e il riferimento finale a un lavoro da compiere sul pianeta Tatooine non sembra lanciato a caso. Speriamo dunque di rivedere in futuro anche “la ripugnante Lady Proxima” (citazione dalla didascalia iniziale): un vermone che vive sott'acqua che è il personaggio più interessante come design. Questa è l'occasione per annotare che il film è molto forte sui personaggi di contorno, che costituiscono una valida aggiunta allo starwarsverse. Quello che va menzionato in primis è la simpaticissima droide femmina L3 (voce in originale di Phoebe Waller-Bridge). Non è solo scritta assai piacevolmente e con molto humour (ci si chiede se non ci sia qui un residuo di Lord e Miller) ma nella sua rivendicazione delle “pari opportunità” supera perfino la barriera sessuale fra organico e meccanico, il che rappresenta un passo avanti nell'“umanizzazione” dei droidi ch'è un caposaldo di tutta la saga di Star Wars.

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