martedì 22 maggio 2018

Dogman

Matteo Garrone

Marcello, il protagonista del bellissimo film di Matteo Garrone, usa quello pseudo-inglese che si farfuglia in Italia per apparire moderni, quando scrive “Dogman” sull'insegna del suo negozietto di toelettatore per cani (che semmai in inglese è groomer). Questo ci dice qualcosa sull'ingenuo personaggio; ma in realtà il gioco linguistico ha un senso più profondo. Dogman sarebbe uomo-cane. Ecco una spia preziosa per guidarci nel film, che si apre col primissimo piano di un pitbull furioso alla catena, mentre viene lavato; intanto altri cani guardano dalle gabbie. E hanno “facce” estremamente espressive – e pulite. Nel film, i cani sono più umani degli uomini, ovvero: i cani sono uomini e gli uomini sono cani.
Infatti la persona più gentile del film, che si svolge in un quartiere orribilmente degradato, è il mingherlino Marcello (lo interpreta un grande Marcello Fonte). Pur essendo un piccolo criminale a tempo perso (spaccia modeste quantità di coca), è d'animo buono, adora la figlia bambina e i cani affidatigli, desidera solo vivere la sua vita in accordo con tutti. Però Marcello è – qui ci aiuta un'altra espressione inglese – l'underdog, sta al gradino più basso della gerarchia implicita del quartiere. Mentre il suo brutale amico, il picchiatore cocainomane Simone (Edoardo Pesce, che disegna un terrificante grumo di violenza), odiato e temuto, è il cane più grosso e feroce del territorio. E' assai indicativo che nella resa dei conti (attenzione, spoiler!) Simone finisca incatenato nello stesso modo e nello stesso luogo del pitbull furioso che abbiamo visto in apertura.
Spoiler, dicevo; ma in primo luogo il bel poster del film è già spoilerante di suo, e inoltre Dogman è liberamente ispirato a una vicenda reale ben nota, quella del Canaro di Roma. In ogni modo, il lettore è avvertito: questa recensione dà per già visto il film.
Di solito nel cinema italiano lo sfondo è una base per la recitazione, e nei casi migliori parla attraverso la scenografia. E' raro che pervenga a diventare una presenza reale coi mezzi del linguaggio cinematografico: a replicare l'azione drammatica per via delle caratteristiche di fotografia e illuminazione. Questa però è una caratteristica del cinema di Matteo Garrone: i suoi ambienti hanno voce; i suoi interni hanno una finitezza da acquario, trasmettono sempre un senso di delimitazione e chiusura (l'ottima fotografia di Dogman è di Nicolai Brüel).
Il mondo di Garrone è un perimetro infernale. Occorre citare L'imbalsamatore o Gomorra? Anche Dogman, scritto da Garrone, Ugo Chiti e Massimo Gaudioso, crea un ambiente di desolazione assoluta, abitato da un sottoproletariato losco e miserabile: grandi visi in primo piano, vissuti, ora indifferenti ora crudeli. Come spesso in Garrone, è un mondo che ignora la grammatica dell'umanità.
In una scena di cieca violenza del solito Simone, notiamo il dettaglio barocco di una testa di legno dipinto tutta sporca di sangue. Perché Garrone è barocco, assolutamente; ma di un barocco funereo e disperato (e qui si può trovare uno dei limiti del suo Il racconto dei racconti, che non riesce a raccordarsi col barocco invece aereo e scherzoso di Giambattista Basile).
Fra il mondo belluino degli uomini e il mondo “umano” dei cani, Marcello si situa a metà strada. La sua empatia è dedicata principalmente ai cani (la scena in cui ritorna a suo rischio nella casa derubata, per rianimare una cagnetta chiusa nel freezer dai ladri di cui è stato costretto a farsi complice, ha qualcosa di un Chaplin perverso), nonché alla figlia, che vorrebbe sempre portare in viaggio. Tuttavia, vorrebbe essere amico di tutti. Aiutato da un'interpretazione formidabile, il film traccia un quadro psicologico assai convincente di questo “uomo di fumo” del mondo degradato, un'anima debole come quelle che ama ritrarre Garrone, e degna di pietà lungo tutto il film.
Le uniche evasioni – dell'uomo e del film – dal mondo feroce sono due scene subacquee di Marcello con la figlia, che in netta opposizione ad esso postulano un senso di libertà (un contrasto forse un po' letterario, ma nobilitato dalla bella fotografia e dall'opera del montatore Marco Spoletini). Tuttavia, nella seconda immersione, verso la fine del film, Marcello non riesce a continuare; sta male per le percosse di Simone; la caduta di questo minimo Eden è concentrata in un'inquadratura drammatica sulla nave che ritorna, lui col viso devastato dai colpi e la bambina abbracciata, silenziosi ambedue.
Bisogna però chiarire che non è tanto per timore della sua violenza che Marcello fa da reggicoda a Simone lungo il film; c'è dietro un'amicizia (forse d'infanzia?), a senso unico ma lui non lo capisce. Merita ricordare che nel cinema di Garrone è ricorrente quell'elemento che è giusto chiamare fascino, nel senso che i deboli sono come affatturati dai più forti. Il suo è un cinema della solitudine e della possessione. E' per questo che Marcello non denuncia Simone alla polizia, non solo per paura (che certo c'è) – al prezzo di farsi un anno di prigione. La bellissima dissolvenza che chiude la scena della sua impaurita entrata in carcere è ambigua sul futuro e psicologicamente tragica. Non sapremo niente di quel che accade a Marcello là dentro, salvo che ne esce indurito; il racconto riprende un anno dopo.
Al suo ritorno Marcello è messo di fronte alla definitiva realizzazione dell'inumanità dell'“amico”; il cui peggior torto è comunque di avergli fatto perdere tutte le amicizie del quartiere. Quest'uomo che parla specialmente ai cani ha un bisogno commovente di sentirsi inserito fra i suoi simili. Così, nutrito di ingenuità (“So' cambiato, io, capito?”) e cocaina, l'underdog si ribella e morde.
Nota che dopo aver fracassato la moto di Simone, Marcello non sa far altro che correre al negozio, tirar giù la saracinesca e chiudersi dentro. Quest'uomo vive alla giornata; si contenta di strappare la sua piccola vita quotidiana negli interstizi del mondo feroce; se escludiamo le fughe nei viaggi con la figlia, agisce solo nell'immediato. C'è un unico progetto che lo vediamo elaborare, alla fine, ed è la sua rovina.
Attira Simone in una trappola; qui, una bella inquadratura in strada ci mostra Simone in primo piano e Marcello più distante in una penombra in cui brilla solo il bianco del suo sorriso che vuol essere rassicurante. Nel suo negozio, lo imprigiona e poi lo uccide (splendido come i musi espressivi dei cani nelle gabbie facciano da coro muto alla vicenda). Ma non c'è uscita dalla sua sventura.
In precedenza nel film, in un'inquadratura davanti al mare dopo le botte prese da Simone, Marcello era isolato da un fuori fuoco: e questo anticipava il delirio finale. Infatti, quando nel finale Marcello cerca di bruciare il corpo di Simone, risuonano delle voci fuori campo che sono, scopriamo presto, un'allucinazione sonora e poi visuale: i suoi compagni che giocano a calcio: è il suo misero desiderio, nel cervello bruciato dalla cocaina, di reintegrarsi in quella società del quartiere da cui era stato espulso. Perché subito dopo vediamo che il campetto – che prima era fuori fuoco ma ora ha la nettezza chirurgica della fotografia in tutto il film – è vuoto.
Nell'ultima inquadratura, con Marcello impazzito accanto al cadavere, il cerchio formato dalle panchine nella piazzetta ha il significato di una gelida, conclusa ineluttabilità.
 

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