venerdì 11 maggio 2018

L'isola dei cani

Wes Anderson


Il bellissimo L'isola dei cani è il film orwelliano di Wes Anderson. Va detto che in tutti i film dell'amabile stregone del cinema americano fa capolino il tema del controllo ossessivo (che peraltro fallisce sempre); mai però quanto in questo; ne fa fede all'inizio l'apparizione del sindaco Kobayashi, baffuto e accigliato, su un megaschermo: il Grande Fratello di Orwell (Anderson fa un cinema di iper-significazione – per questo ogni suo film andrebbe visto più volte).
Come Fantastic Mr. Fox, L'isola dei cani è un film di animazione in stop-motion. Ambientato in Giappone, riporta tutto l'universo culturale giapponese quale lo conosciamo in Occidente (gli haiku, i tamburi taiko, il sumo, i tatuaggi, gli usi funerari, Hokusai e la pittura classica, il sushi, qui usato per avvelenare un avversario), per non dire degli omaggi agli anime e a Kurosawa Akira (Dodes'ka-den). Il corrotto sindaco della megalopoli, ultimo discendente di un clan amico dei gatti e nemico giurato dei cani, approfittando di un'epidemia canina ordina di deportare tutti i cani sull'Isola della Spazzatura, e prepara il loro sterminio e la sostituzione con cani-robot. Nota in margine: qualche gattofilo penserà che il film sia unfair verso i gatti (nel pre-finale questi scappano via con un movimento rettilineo che ricorda i ratti dell'Isola), ma che dire? “Cane e gatto”, si sa com'è, e Wes Anderson è sinceramente cinofilo, lo vediamo da tutti i suoi film (anche se incrocia, alla E.A. Poe, l'amore dei cani con l'ombra della morte). E' un tocco delizioso che il gatto bianco del sindaco abbia le sembianze di quello di Blofeld in James Bond.
Non sorprende di ritrovare anche in questo film di Anderson la sua quasi inverosimile leggerezza di poeta e giocoliere. La sua narrazione a scatole cinesi, qui sorretta da folli e buffe didascalie di tempo. I suoi stilemi: la centratura dell'immagine in un'inquadratura bilanciata, l'impiego qui assai forte dello sguardo in macchina, l'amore per il disegno: non solo le pitture (pseudo) classiche adattate al racconto ma una quantità di poster e cartelloni, che non per nulla ritornano tutti nei titoli di coda. E naturalmente la consueta perfezione del montaggio del suono.
Dopo la deportazione dei cani, un ragazzino di nome Atari, che era stato adottato dal sindaco in seguito alla morte dei suoi genitori, si reca clandestinamente sull'isola con un velivolo poco affidabile alla ricerca del suo cane Spots. Ritorna qui la figura dell'orfano, così presente nel cinema estremamente interconnesso di Anderson (la celebra in particolare il capolavoro Moonrise Kingdom); ma ritornano altresì, con Atari e il gruppo degli studenti “pro-dog” che si oppongono al sindaco, i suoi classici bambini a mezza strada fra il mondo infantile e il mondo adulto. Segue un'avventura affascinante con cui si realizzano l'evasione del gruppo di cani protagonisti e il salvataggio in extremis dell'intera popolazione canina. Wes Anderson è sempre innamorato degli stratagemmi e dei piani – che però nel suo cinema funzionano (non è come nei fratelli Coen, i maggiori narratori cinematografici, con Kubrick naturalmente, di piani falliti). Per questo adora le evasioni, da Fantastic Mr. Fox a Grand Budapest Hotel.
Però il cuore e la struttura portante di questo film non sono gli esseri umani, sono i cani. Non per nulla un'intervista reperibile online dell'animatrice capo Kim Keukeleire conferma che era preciso programma di Anderson che i personaggi giapponesi avessero poca espressività e invece i cani ne avessero moltissima. Questi cani, pupazzi in stop-motion in effetti incredibilmente espressivi coi loro occhi di palline di vetro che guardano in macchina, sono i protagonisti, anzi, di più: non è un film con cani protagonisti ma un film cinocentrico. E' una commedia drammatica canina, e sono meravigliose le loro conversazioni – nel film i cani parlano fra loro in inglese (un cartello ci informa che è la traduzione dei loro latrati), mentre i personaggi umani parlano in giapponese che (altro cartello) viene tradotto in inglese solo quando è necessario! Non è la prima volta che il cinema o la letteratura esplorano la “cultura canina”, certo, ma raramente è stato fatto con tanta veridicità e humour (ombra di Orwell anche qui!). Si vorrebbero citare mille esempi, come succede sempre con Wes Anderson, ma mi limito a segnalare i dialoghi alla Humphrey Bogart e Lauren Bacall fra il protagonista Chief e la bellezza canina Nutmeg di cui si innamora. Voci di Bryan Cranston e Scarlett Johansson nell'originale; ma tutta la compagnia fissa di attori di Anderson è presente, a costo di dar voce (Anjelica Huston) ai mugolii di un cucciolo muto – più inedite immissioni, fra cui Yoko Ono a doppiare una scienziata che si chiama, senza sorpresa, Yoko Ono.
Con al centro il rapporto disfunzionale col randagio Chief, che inizialmente è il membro riluttante del gruppo, i cani del film sono la classica banda di personaggi bizzarri, sconclusionati, divertentissimi (il tormentone delle votazioni!) che popolano come un affresco dickensiano il cinema di Anderson, da I Tenenbaum a Il treno per il Darjeeling, da Le avventure acquatiche di Steve Zissou all'assai minore Grand Budapest Hotel e via dicendo. Fra litigi (è interessante apprendere che anche i cani usano come insulto son of a bitch) e improvvise eruzioni di saggezza, a trionfare è il concetto americano e quasi fordiano dello spirito di corpo, sempre forte nel cinema andersoniano. L'avventura caotica e piena d'incubi pone le basi di una rinascita. Perché, uomini o animali, il tema centrale del cinema di Wes Anderson è sempre lo stesso: la perdita e la ricomposizione. Vale per Atari, naturalmente, ma vale in prima persona per i cani abbandonati e traditi. Nel presente film questo viene trasmesso in termini di cultura canina, dove la perdita è quella della simbiosi con l'uomo, e ha alla base l'opposizione fra stray dog, randagio, e cane con un master (che ha un significato più intenso del nostro “padrone”). Il rapporto fra master e cane è così stretto che l'accettazione (l'adozione) reciproca viene esplicitamente equiparata, in una scena, al matrimonio. Ora, se ricordiamo per esempio il peso doloroso del divorzio ne I Tenenbaum o la coppia di tristi coniugi litigiosi in Moonrise Kingdom, o per converso la calda elegia della famiglia in Fantastic Mr. Fox, vediamo che per Anderson il matrimonio è una cosa ben importante.
Va sottolineato che in Anderson la sofferenza parte sempre da se stessi: un Io non riconciliato col sé. La riconquista del sé passa per l'accettazione e il recupero dopo che il dolore ha raggiunto un punto di crisi. Nel suo cinema, dunque, protagonista non è il dolore (nella sua doppia forma, la separazione e la morte) ma il suo superamento: la capacità di lasciar andare il passato. “La smettiamo di piangerci addosso, non è molto carino”, dice Anjelica Huston ne Il treno per il Darjeeling. E' un atteggiamento che lega Wes Anderson al cinema americano classico dei Ford e degli Hawks – molto più presente nel suo cinema, a livello morale, di quanto non paia.
Di questa rinascita può essere simbolo tanto un funerale (I Tenenbaum) quanto la nascita di un bambino – o di una cucciolata. E ne fa parte il concetto espresso da questa battuta (ancora I Tenenbaum): “Non si può essere stronzi tutta la vita e poi riparare i danni?” Questo si applica bene, ne L'isola dei cani, all'operazione discretamente impressionante – un trapianto di rene in un film d'animazione! – nel pre-finale, inquadrata “a piombo” dall'alto, nel che si ritrova lo sguardo assoluto, un equivalente dell'occhio di Dio, che è tipico di Wes Anderson (e che, per inciso, è analogo al fumetto; e infatti col fumetto il cinema del grande regista ha molto in comune). Le sue favole ci arricchiscono con la verità.

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