domenica 15 maggio 2016

Far East Film Festival 2016


I fuochi sono spenti, Godzilla è tornato a dormire, ospiti e accreditati sono andati via, e insomma il FEFF 2016, il diciottesimo, è finito. Al Centro Espressioni Cinematografiche cominciano già a circolare le magiche parole “FEFF 19”. Ma intanto, qualche nota sui film dell'edizione appena conclusa… quelli che ho visto, ovviamente, perché la lineup ogni anno è più ricca, e non si può vedere tutto.

Hong Kong - la culla del FEFF. Il festival ha avuto due clou cogli ospiti: uno col grande regista giapponese Obayashi Nobuhiko e uno quando è salito sul palco nientemeno che Sammo Hung. Il suo ritorno alla regia The Bodyguard è un film sulla vecchiaia come stanchezza del corpo - il protagonista (Sammo, ça va sans dire) è un anziano combattente in ritiro, ancora imbattibile ma che soffre di senilità e dimentica tutto - ma anche come elegia del cinema hongkonghese di kung fu, che forse appartiene al passato, forse è una stagione irripetibile sul viale del tramonto – non a caso compaiono in cameo vecchi grandi volti del cinema hongkonghese. Ma il kung fu di Sammo è sempre grande, anche se deve affidarsi molto al montaggio.
E' orientato al passato, trattandosi di un biopic, anche Ip Man 3, il terzo capitolo della mega-biografia di Ip Man diretta da Wilson Yip e interpretata da Donnie Yen. Un film piacevole, non il migliore della serie; non sono molto amalgamate le due storie, prima con Donnie Yen e Zhang Jin contro una banda di criminali, poi in rivalità fra loro per il titolo di Grandmaster dello stile wing chun. Ma affascina un combattimento di Ip Man con un sicario thailandese, prima dentro un ascensore e poi per le scale. E poi, Mike Tyson è un grande e vedere i suoi pugni contro il kung fu di Donnie Yen vale da solo il prezzo del biglietto.
Non ho ancora visto Trivisa, prodotto da Johnnie To montando insieme tre storie di tre giovani registi differenti. Ma il film hongkonghese più importante è stato il coraggioso e polemico Ten Years (vedi scheda sotto).
Coraggioso è anche The Mobfathers, uno dei film migliori di Herman Yau, regista molto prolifico (anche troppo: la sua produzione è molto disuguale, come sa chi ha visto il recentissimo Nessun Dorma). Racconta del piccolo boss delle triadi Chapman To in lotta per l'elezione a Dragon Head solo che il diabolico super-padrino (un memorabile Anthony Wong coi capelli lunghi e il bastone col pomo a teschio) trama in segreto. Nella descrizione delle elezioni manovrate da chi comanda, non è chi non veda un riferimento che van ben oltre la politica interna delle triadi!

Cina continentale una sezione che ho seguito poco. Davvero modesto Mojin: The Lost Legend di Wuershan; film tratto da un romanzo di Tianxia Bachang piuttosto sfortunato, visto contemporaneamente ne è stato tratto un altro film bruttino e fortemente derivativo, Chronicles of the Ghostly Tribe di un irriconoscibile Lu Chuan, che non è stato selezionato per il festival - ma tra i due non si saprebbe quale scegliere.
Ci si può consolare con Chonqing Hot Pot di Yang Qing: non un capolavoro, ma di livello ben superiore. Tre sfigati padroni un ristorante in perdita scavano una galleria per allargarlo e finiscono nel caveau di una banca. C'è un sacco di soldi, ma non vogliono prenderli e sparire perché dovrebbero abbandonare le famiglie. Ma arriva la rapina alla stessa banca di un gruppo di banditi mascherati… Sarà per alcuni un pregio, per altri un difetto (paradossalmente, è un po' l'uno e un po' l'altro) la caratteristica principale del film: ovvero il tentativo di “avviluppare” la storia in una confezione più o meno artistica, con ellissi e ritorni temporali (come un Kubrick, The Killing, annacquato). Ma ci si diverte, e la fotografia presenta belle inquadrature di Chongqing (non solo “turistiche”: notevole una visione di appartamenti-formicaio).
Saving Mr. Wu di Ding Sheng è un discreto thriller, interessante specialmente per il suo aspetto metacinematografico (Andy Lau nella parte di se stesso, a parte il nome, rapito da cattivissimi criminali locali!). Molto migliore The Dead End di Cao Baoping, la vicenda di tre uomini che hanno commesso un crimine sette anni prima, e cercano di espiare. Il nuovo capo della polizia, pur provando dei sentimenti verso uno dei tre che è diventato un bravo poliziotto, arriva alla verità e alla punizione. Il concetto – espresso all'inizio da una voce fuori campo scandita con i tipici toni solenni che ci sono familiari dai film storici cinesi – è che non si sfugge alla colpa.
Taiwan della “terza Cina”, ho visto solo un buon horror intelligente, The Tag-Along di Vic Cheng Wei-hao, su uno spirito della foresta (un mosien, un incrocio fra una scimmia e una bambina) che possiede una dietro l'altra varie persone a Taipei. Forse è un po' lento a mettersi in moto, ma poi trova i suoi punti di forza, e il climax nella foresta è senz'altro buono. Il messaggio sottinteso – l'importanza dei legami familiari e di crearne di nuovi – non è invasivo.

Giappone che resta sempre la miglior cinematografia del cinema asiatico. Okita Shuichi, una vecchia conoscenza del festival, non smentisce le sue capacità con The Mohican Comes Home, che si è piazzato al terzo posto nel premio del pubblico, ma forse avrebbe meritato il primo (vedi scheda sotto).
Di altissimo livello è l'amaro Three Stories of Love di Hashiguchi Ryosuke. Il film costruisce la sua narrazione come a mosaico, dove bisogna pensare a quei mosaici fotografici fatti di migliaia di piccoli frammenti di foto che insieme compongono una figura. Qui tre, corrispondenti ai tre amori del titoli (il terzo viene rivelato nel finale). L’analogia va chiarita nel senso che qui sono piccoli frammenti di vita, “lampi di esistenza”, assemblati in un modo che è all’inizio volutamente enigmatico (vedi l’apertura che pare un’intervista, sembra cinéma-vérité) – ma poi a poco a poco collegandosi compongono un quadro chiaro e commovente. Condizione della forma narrativa scelta, cioè la frammentazione, sono il carattere breve dei frammenti e la bruschezza della conclusione di essi, che è improvvisa, imperativa, spesso ellittica. Questa forma di racconto crea una continuità di tipo ipnotico: si crea un’“affezione” ai personaggi, quella richiesta da qualunque film, in modo originale e, in qualche modo, potenziato. Inoltre il procedimento consente al regista e sceneggiatore Hashiguchi di accumulare “lampi” (riprendo il termine usato sopra) di una visione generale una visione viva, e fondamentalmente pessimistica, del Giappone.
Ancora tra i film migliori si segnala l'horror Creepy, prima partecipazione al FEFF di Kurosawa Kiyoshi (vedi scheda sotto).
Molto buono è Hime-Anole di Yoshida Keisuke. Un po' come Jonathan Demme in Qualcosa di travolgente (Something Wild), Yoshida parte in chiave di commedia e poi la rovescia in dramma thriller (peraltro le uccisioni del serial killer Morita, pur assai grisly e realistiche, mantengono un sottofondo di feroce buffoneria alla Kitano Takeshi). Così, un gioco degli equivoci in chiave comica (il protagonista Hamada Gaku, come si vede almeno da una scena, ha studiato l'arte interpretativa di Stan Laurel) si ribalta completamente in chiave nerissima.
Da citare anche Lowlife Love di Yoshida Keisuke, bel film con toni di commedia sul filmmaking come passione vitale ("Fare cinema è come innamorarsi di una puttana da strapazzo... Però non possiamo mica lasciarla sola, quella puttana, giusto?"), centrato su un regista indipendente disoccupato, che è libertino e prepotente nella vita quanto sfortunato, per il suo caratteraccio, nel lavoro. Attorno a lui una vivace descrizione dei suoi collaboratori, delle sue attrici (pronte a scopare in cambio di una parte) e di tutto un mondo cinematografico cialtronesco e assatanato. Un'inquadratura a un certo punto ricorda Imamura - e fa riflettere che, in fondo, tutto il film ha un sapore un po' alla Imamura, anche se naturalmente non raggiunge la sua altezza.
Nakamura Yoshihiro (l' autore dell'ottimo Fish Story) ci offre il notevole horror The Inerasable. Il suo forte impatto non deriva solo dall'ottima regia di Nakamura, che mantiene la narrazione più sul suggerito che sul mostruoso; deriva dalla costruzione stessa della storia, sceneggiata dal regista da un romanzo di Ono Fuyumi. Se all'origine delle storie di fantasmi c'è un torto sepolto, almeno in Occidente siamo abituati a trovarlo in un singolo fatto da scoprire e riparare. Qui l'investigazione, condotta attraverso interviste, testimonianze, ricerche d'archivio, è un andare a ritroso nel tempo da un male all'altro: è un viaggio nel dolore, una catena di orrori in cui ogni anello rimanda a uno precedente, e sembra infinito.
Invece The Kodai Family di Hijikata Masato, tratto da un manga, è un film sentimentale, di spirito leggero. Parte come una commedia di ufficio, con l'impiegata Kie che ama sognare a occhi aperti e che si trova improvvisamente corteggiata da un vero e proprio principe azzurro: bello, ricco, gentile, e sembra leggerle nel pensiero. Ma è la verità: Kodai è telepatico, come pure i suoi fratelli. Le cose si complicano, prima perché la madre si oppone, poi quando è Kie ad avere dei dubbi... Il difetto del film è un uso oscillante della CGI: è straripante prima, quando dà corpo ai sogni a occhi aperti di Kie, poi praticamente sparisce, per tornare nel finale. Ma alcuni dettagli sono gustosissimi: cito un surreale sogno a occhi aperti sull'America, con le poche parole d'inglese che Kie conosce, pronunciate con accento giapponese; o un altro sogno in ambientazione da film in costume, alla Mizoguchi, con colori faded da pellicola di una volta.
Infine si può citare en passant un film agile, e divertente per l'ambientazione nel mondo degli autori di manga, quale Bakuman di One Hitoshi.

Coreail suo cinema non sarà più quello strepitoso tsunami artistico che ci aveva colpiti e commossi anni fa, ma si situa sempre a un livello assai buono. Non per nulla il festival è stato aperto e chiuso da due film coreani. Il primo è il notevole The Tiger di Park Hoon-jung, che ha destato qualche perplessità fra i critici coreani ma è un ottimo film; direi che è anche più bello di Revenant, al quale fa pensare per alcuni aspetti. Siamo nel 1925 e i giapponesi stanno sterminando tutte le tigri coreane; è rimasto un solo superstite, un maschio enorme e dall'intelligenza prodigiosa. Attorno a lui si intrecciano la vicenda del protagonista (Choi Min-sik) e di suo figlio, quella di un gruppo di cacciatori coreani e quella dei militari giapponesi intenzionati a uccidere la tigre. Non è un film di caccia, anche se ne ha l'emozione; insiste invece sull'analogia fra la tigre e il protagonista (entrambi hanno perso la famiglia in questa guerra fra uomini e belve), e sul rapporto complesso fra di loro che data da anni e si svela nel corso del racconto. Sebbene il film sia realistico, mantiene un sottofondo mistico in quanto la tigre rappresenta l'inaccessibile montagna coreana e per estensione la resistenza della Corea all'occupazione. Questa tigre non è un kami, è solo un animale molto forte e intelligente, ma lo è a livello simbolico; rischiava di diventare un'allegoria retorica ma invece è gestita con molta accortezza.
Il film di chiusura del festival è l'eccellente Sori: Voice from the Heart di Lee Ho-jae (vedi scheda sotto). Per pochi voti Sori non ha soffiato il primo posto nel premio del pubblico al compatriota A Melody to Remember di Lee Han, un'opera molto commovente sulla storia di due fratellini orfani, maschio e femmina, sperduti nella guerra di Corea e di un coro di bambini orfani messo su da un tenente musicista dell'esercito; ma con la formazione del coro non finiscono le traversie. Il film segue il principio di Charles Dickens di accumulare sventure (qui c'è perfino un losco affarista pedofilo che concepisce la bambina) finché non si risolvono in una conclusione positiva – qui, positiva ma dolente per i morti della guerra. Se il cinema coreano è già spietato in sé, figurarsi quando un dramma del genere viene messo in scena in modo duro come qui. Quando il cattivo/buono del film, chiamato Hook perché ha un uncino al posto della mano, approva la proposta di formare il coro e dice scherzando “Sarà uno strappalacrime”, questo è un momento (l'unico) di umorismo metanarrativo sul film. E' un po' anodina l'interpretazione dell'idol Yim Siwan (il tenente), mentre è già meglio Lee Hee-jun nel ruolo (però facile) di Hook. Ma in un film come questo le star sono i bambini, e naturalmente tutti colpiscono al cuore; in particolare la piccola Lee Re (la sorellina) è eccezionalmente convincente.
Sempre sul piano della commozione ma spostato sul versante comedy è il grazioso Making Family di Cho Jim-mo, in cui un genietto di nove anni, nato con l'inseminazione artificiale, vorrebbe avere una famiglia completa. Scopre chi è il suo padre biologico hackerando i computer della clinica e vola da solo dalla Corea alla Cina per trovarlo; il padre non vuole saperne di lui ma il bambino riesce a conquistare il suo affetto e metterlo insieme alla madre (che si è precipitata a cercarlo). E' una commedia vivace, piena di umorismo, dolce senza essere zuccherosa. Il piccolo attore Mason Moon ha una carica di spontaneità e simpatia estrema; l'inizio, dove serissimo mostra conoscenze da adulto sull'inseminazione artificiale parlando con un dottore sconvolto, è da antologia.
In Corea l'antipatia diffusa verso i politici prepotenti e corrotti (diamine, sembra l'Italia!) ha provocato un enorme successo di pubblico per lo splendido Inside Men di Woo Min-ho. Questo political thriller su un patto di corruzione intrecciato col gangsterismo, apparentemente invincibile, ha la compiutezza di esecuzione dei film migliori: grandi interpretazioni (Lee Byung-hun come gangster, Cho Seung-woo come prosecutor e Baek Yun-shik come mellifluo giornalista corrotto); una sceneggiatura molto efficace, con colpi di scena e rovesciamenti mai artificiosi; un dialogo vivace (grande la battuta ritornante sui Mojito e le Maldive!); una bellissima fotografia – basta vedere l'inizio nel panorama ultra-urbano con la presenza del mega-schermo fra i grattacieli – e che dire della moltiplicazione dei video nella scena culminante? Non è solo bella fotografia: Woo Min-ho ha una capacità rilevante di messa in scena che crea in ogni momento l'immagine giusta.
Meno incisivo ma pur sempre assai interessante The Exclusive: Beat the Devil's Tattoo di Roh Deok (lo strano sottotitolo, chi se lo chiedesse, è una citazione da una canzone heavy metal), un thriller che è al contempo una parodia passabilmente dark del sistema dell'informazione.
Mi spiace di aver perso The Silenced di Lee Hae-young, ma l'horror coreano è comunque ben rappresentato da The Priests di Jang Jae-hyon (vedi scheda sotto). Cito infine Assassination, di Choi Dong-hoon, un'epica avventurosa sulla resistenza coreana alla colonizzazione giapponese negli anni '30; Choi non è qui allo stesso livello del suo bellissimo The Thieves, ma provvede un piacevolissimo spettacolo. Solo passabile Wonderful Nightmare di Kang Hyo-jin, la cui cosa migliore è il grande caratterista Kim Sang-ho (presente anche in The Tiger) nel ruolo del direttore di un burocratico oltretomba.

Filippine di cui pochi film sono riusciti a superare l'affollata selezione di quest'anno, ma è uno dei migliori film filippini che io abbia avuto modo di vedere di recente Apocalypse Child di Mario Cornejo. E' un po' più spostato sul versante arthouse che su quello popular tipico del festival, ma non in modo marcato. E' girato a Baler, dove fu girata la scena del surf di Apocalypse Now (di qui il titolo), e tanto il surf quanto il ricordo del tournage del film di Coppola hanno un ruolo centrale. E' un film di atmosfera e di psicologie, fondato su una serie di “verità nascoste” (non per nulla si apre con l'evocazione dei miti e leggende di Baler, “assolutamente veri al 50%”) che girano intorno a cinque personaggi principali davvero ben scolpiti. La domanda principale è chi sia il vero padre del surfista Ford, un tipo che dire carefree è dir poco, come scoprono a loro spese le sue donne. Beninteso, Apocalypse Child non è una commedia, ma neppure un film tragico: si potrebbe definire, forse, un “dramma nascosto” nella sua costruzione da thriller dei sentimenti – quell'elemento misterioso che avvolge il film e che il finale dissipa solo in parte. Lo stile è elegante e sono affascinanti certi momenti di asincronia fra il dialogo e l'immagine (va segnalato il montaggio di Laurence S. Ang).

Thailandia – un cinema che offre sempre qualche buona sorpresa. Lascia il segno l'ottimo The Forest di Paul Spurrier (il regista è un inglese trapiantato in Thailandia e il film è interamente thai per ambiente, attori e troupe). Per questo film raffinato, girato a bassissimo budget, credo che il riferimento migliore possa essere Truffaut, non tanto per il concetto di “ragazzo selvaggio” quanto, più in generale, per lo sguardo amichevole e non privo di una compassione dolorosa sul mondo infantile. E' la storia di una bambina che non parla, soggetta a bullismo a scuola, che nella foresta fa la conoscenza di un ragazzino misterioso che vive e pare cresciuto lì. Ma niente di bucolico: il ragazzino uccide (e mangia) coloro che si avventurano nella foresta (nonché una delle “bulle” per fare un piacere non richiesto alla sua amica). La storia è interlineata con quella – sfumata, secondaria - di un insegnante ex monaco e di una insegnante sfiduciata che lo desidera (c'è un delicato parallelismo fra le storie di queste due coppie). La conclusione sfuma, ma con delicatezza, nel mistico. E' un film complesso come contenuto (affronta questioni fondamentali, la realtà, la fantasia, la morale ecc.) ma semplice e vorrei dire addirittura piacevole nello svolgimento. In qualche cosa mi ha ricordato (ma senza fantasy) Beasts of the Southern Wind.
Heart Attack di Nawapool Thamrongrattanarit, un film che sprizza intelligenza, attraversato da una vena di triste umorismo nella sua satira della personalità workaholic, si potrebbe descrivere in modo dispettosamente sviante come una storia sentimentale in tempo di guerra. Ove la guerra è quella del corpo contro il suo possessore. Un giovane graphic designer freelance, maniaco del lavoro (non si riposa né dorme mai), deve fare i conti con la ribellione del corpo, che inizia con un'eruzione sulla pelle del collo e progredisce in modo inarrestabile. Una giovane dottoressa che lo ha in cura (la brava Davika Hoorne di Pee Mak) cerca di spingerlo a darsi un po' di tregua per guarire. Tra i due si instaura un rapporto sfumato, basato sul non detto, raccontato con bella delicatezza.
Da salutare il ritorno di Wisit Sasanatieng con Senior (non bello però come il suo The Unseeable). Questo importante regista non fa film puliti e rifiniti all'americana: fa esplodere le emozioni, non ha paura dell'effetto marcato, lascia libero spazio al sentimentalismo, intreccia le linee narrative seguendole come se ciascuna fosse quella principale, oscilla senza paura fra assoluta serietà ed esplosioni di umorismo. Senior non è un horror ma piuttosto un thriller soprannaturale con un sottofondo mélo (fra una ragazza sensitiva e un fantasma). Il regista spinge le varie linee verso una conclusione in cui tutti i pezzi vanno a posto (nel modo selvaggio e appassionato cui accennavo prima – che poi è molto thailandese, del resto). La sua passione cinefila è dichiarata dall'aprire il film con una citazione da The Ring e chiuderlo con una citazione sfacciata di Hitchcock, Vertigo, nella sequenza finale.

Vietnam per chiudere. Diretto da Ham Tran, Bitcoin Heist ha punti forti (prevalenti) e punti deboli. E' visibilmente ispirato a Mission: Impossible, e come tale non si preoccupa del realismo, anzi, in confronto James Bond sembra Le Carré; però è divertente e si fa vedere senza noia. Le scene di azione e di sparatoria sono buone, la fotografia è competente (bella in particolare, anche se fotograficamente poco coerente col resto, la sparatoria finale fra barche in mare nel buio). Il difetto è che a volte il film annega in un mare di techno-babble – ma chi si intende di computer un po' più di chi scrive potrebbe accettarlo meglio. Un difetto peggiore è uno iato fra la storia della caccia al primo cattivo e quella, che segue, della caccia al secondo.

Fantascienza giapponese Non si può chiudere questo articolo senza ricordare questa piccola ma bella rassegna, accompagnata da un volume a cura di Mark Schilling, che ha fatto rivedere alcuni film del maestro Honda Ishiro, ma soprattutto ha avuto il merito di far conoscere un genio quale Obayashi Nobuhiko (presente al festival!), noto fra gli appassionati solo per House (bellissimo, ma allora che dire di un capolavoro quale Exchange Students?). Obayashi è uno di quei talenti naturali di cui si dice: fa film come respira. Il suo approccio surreale e irridentemente libero si è espresso prima nei cortometraggi sperimentali, poi negli spot pubblicitari, poi in lungometraggi di allegra originalità. Siccome ogni tanto salta fuori qualcuno, vestito di nero e coi crisantemi in mano, a protestare che il cinema è morto, basterebbe fargli vedere Obayashi (quasi ottantenne e ancora in attività) per dimostrargli che il cinema è – come si dice oltreoceano – still alive and kicking. 
 

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