sabato 27 febbraio 2010

Wolfman

Joe Johnston

“Mostrati a me!” grida Ben Talbot al padre licantropo nascosto fra gli alberi - è la prima frase che sentiamo nel sottovalutato “Wolfman” di Joe Johnston, attento remake Universal del classico di George Waggner (1941). Una frase in cui si concentra tutta la corrente principale del cinema d'oggi, horror e non: l'ostensione del visibile, la volontà bulimica di “vedere tutto” (qui non è fuor di luogo ricordare che la Universal degli anni trenta/quaranta ostentava i suoi mostri in piena luce, senza velarli in un gioco di ombre e allusioni).
“Mostrati a me!” - e quando il padre gli si mostra, è la morte. Nel mondo di “Wolfman” la battaglia edipica si combatte con le zanne e gli artigli. Lo dichiara anche il confronto finale fra Lawrence Talbot (Benicio Del Toro) e suo padre, Sir John (Anthony Hopkins): lupo contro lupo: e c'è di mezzo sempre il possesso della madre. Sia nella dimensione del ricordo (c'è un'antica morte da vendicare) sia nella trasposizione fisica (Gwen, Emily Blunt, che è la donna amata dai due fratelli e desiderata dal padre, fa rivivere l'immagine della morta). Non per la prima volta nelle storie di licantropi (segnatamente in Terence Fisher), “The Wolfman” mette malinconicamente in gioco lo scatenamento delle forze bestiali contro l'effetto civilizzante della donna (la madre e la sposa: Lady Talbot e Gwen) che indica la salvezza - come nel “Faust” di Goethe: “L'eterno femminino / Ci attira in alto”.
Questa bella versione 2010 di “The Wolfman” è insieme classicheggiante (la costruzione narrativa) ed enfatica. Gli effetti speciali di Rick Baker mantengono, cosa rara per i film licantropici, le fisionomie, mentre la scena della trasformazione rifà ritualisticamente il suo “Un lupo mannaro americano a Londra”. Quanto a citazioni, c'è sicuramente John Landis (le allucinazioni) ma anche molto Terence Fisher (“L'implacabile condanna”); pure la scena della “dimostrazione” in manicomio, pur non richiamando un film in particolare, è d'ispirazione Hammer. Forse si può trovare anche una tenue reminiscenza di Paul Naschy nelle inquadrature nel bosco. L'enfasi moderna segna tutto il film (le accelerazioni della luna in cielo, che sorgendo sembra balzar su con spietata irrevocabilità!). Le devastazioni che l'uomo lupo infligge ai corpi umani sono esibite in tutta la loro crudezza: memorabili quegli artigli che passando dalla nuca di un malcapitato spuntano insanguinati dalla bocca; nondimeno, “Wolfman” mantiene una certa aria rétro assai piacevole a ritrovarsi.
Merito dell'accurata sceneggiatura di Andrew Kevin Walker (e David Self), in cui si riconosce la mano dell'autore de “Il mistero di Sleepy Hollow”. Walker e Self rinfrescano con abilità la trama dell'originale (anche il negozio d'antiquariato di Gwen viene da quel film). Vi innestano alcune buone idee: per esempio qui Lawrence è un famoso attore shakespeariano (gli attori, come i licantropi e i pazzi, hanno una personalità multipla); un tocco intelligente e divertente è l'inserimento dell'ispettore di Scotland Yard Abberline (Hugo Weaving), figura storica, l'investigatore dei delitti di Jack lo Squartatore. Ma soprattutto la ridefiniscono in termini di pessimismo, di una sorta di elegiaca disperazione.
Nel “The Wolfman” del 1941 Larry Talbot (Lon Chaney jr.) era il buon americano (di adozione se non di nascita) che si trovava contagiato dalla vecchia Europa delle superstizioni; in quello del 2010 Lawrence Talbot, senza più il diminutivo, si trova precipitato all'inferno. Talbot Hall è la casa del male, una sorta di haunted house decadente e polverosa. La fotografia di Shelly Johnson veste interni ed esterni di colori grigiastri. La composizione ha una qualità cupamente pittorica: quegli esterni inglesi che sono così gloriosi in film come “Orgoglio e pregiudizio” qui sono come avvelenati - vedi per esempio il laghetto. Se nel 1941 il contagio si introduceva dall'esterno nella stirpe aristocratica (non dimentichiamo che alla fine era Sir John, Claude Rains, a sanarlo uccidendo Larry), nel 2010 la famiglia stessa è il male. Il padre è portatore della licantropia; “tutti i Talbot sono maledetti”.
Come e più che nel film del 1941, è la storia di un male antico che serpeggia nel mondo. Lawrence viene morso e contagiato in un cerchio di pietre preistoriche come Stonehenge. “Il passato è una desolazione di orrori”, dice Sir John. E' un'elegante allusione ironica quando nel negozio d'antiquariato Abberline spara a uno specchio credendo che dietro si nasconda Talbot, e invece c'è una statua del diavolo.
Alla fine brucia Talbot Hall, col classico incendio purificatore dei vecchi horror, e l'ultimo vestigio di umanità rimastovi - il ritratto della madre - sparisce fra le fiamme. Per i Talbot è la fine - ma il male, come vediamo, non muore mai.

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