James Cameron
Il concetto cameroniano di corpo-macchina (è un tema costante di James Cameron l'osmosi tra l'uomo e la tecnologia) trova il suo punto massimo e insieme il suo superamento nell'avatar: che è un corpo in cui agisce una sorta di operatore, come una macchina di carne, ma altresì rappresenta un raddoppiamento dell'identità, tanto da uscire vincente rispetto a quella originaria. Infatti uno spunto assai interessante di “Avatar”, disgraziatamente sottoutilizzato, è il momento di confusione del protagonista quando si chiede se è il marine paraplegico Sully che addormentandosi si risveglia nell'avatar o non piuttosto il contrario. E' il vecchio apologo di Chuang Tzu e della farfalla: lo stesso concetto sul quale Théophile Gautier costruì un famoso e bellissimo racconto di vampirismo, “La morte amoureuse”. A proposito del corpo-macchina, va anche osservato che lo scontro finale fra l'avatar di Sully e il colonnello Quaritch dentro il robot da guerra (che manovra come un'estensione dei propri arti) riproduce esattamente il climax di “Aliens”, ma con l'inversione dell'asse morale buono/cattivo.
Viaggiare nel corpo di un avatar nell'atmosfera, velenosa per gli umani, del pianeta Pandora significa un cambio di sguardo: da uno sguardo esterno, mediato da una lastra di vetro, a uno sguardo interno, inserito nel sistema biologico, partecipante. Altro grande tema cameroniano, questo dello sguardo, e occorre dire subito che tutto quanto ha di positivo “Avatar” attiene alla visualità; non tanto la visualità dell'azione quanto dello sfondo, della location immaginaria (grafica) del pianeta, coi suoi panorami, la sua botanica, la sua zoologia: nella carenza di concretezza dei personaggi, l'azione assume interesse in quanto coinvolge lo sfondo e si rapporta ad esso; come nelle scene di volo su quegli uccelli giganteschi (o dobbiamo chiamarli draghi?), non ammaestrati ma “posseduti” attraverso un collegamento di sinapsi (il rapporto monogamico da instaurare con essi ricorda “Eragon”). Il senso del film è di recuperare, e potremmo dire, imporre lo “sguardo di meraviglia” proprio del paesaggio fantascientifico. Per questo scopo il 3D non è imprescindibile, ma quasi - l'idea ovviamente essendo di incrociare la meraviglia dell'universo diegetico con la meraviglia del dispositivo.
E' una festa per gli occhi, indubbiamente, ricca di mille suggestioni, da Magritte (le “montagne fluttuanti”) a Moebius (gli uccelli sopra citati), anche perché ogni spettatore vi rispecchierà le proprie, ritrovando nel sense of wonder di questa giungla le radici del proprio personale universo fantastico. Cameron ricrea per Pandora i grandi panorami poetico-pittorici di Walt Disney, che destavano l'invidia di Ejzenštejn: poiché è Disney che dalle “Silly Symphonies” in poi ha mostrato la capacità di vivificare il realismo pittorico degli sfondi grazie a particelle volanti (stormi d'uccelli in lontananza, pollini fluttuanti, insetti luminosi, oppure - qui - faville e cenere dopo il disastro). E c'è, naturalmente, la lezione di Miyazaki Hayao (l'albero gigante dove vive il popolo Na'Vi è puro Miyazaki) - il quale però è a sua volta debitore dei paesaggi disneyani.
Sul piano narrativo, “Avatar” veste di panni fantascientifici il senso di colpa dell'America per il genocidio degli indiani. E' un western, e lo dichiara subito, nella scena dell'arrivo di Sully sul pianeta, un'immagine-simbolo quale quella delle frecce che spuntano dalle ruote del veicolo. Un western che rientra nel filone filo-indiano alla “Piccolo grande uomo”, da alcuni impropriamente chiamato “revisionista”; i suoi punti di riferimento sono “Balla coi lupi” e “Un uomo chiamato cavallo” - che però in confronto ad “Avatar” avevano una profondità di definizione psicologica addirittura bergmaniana.
Poiché il problema di “Avatar” è questo: raramente si è vista al cinema una divaricazione così ampia fra sontuosità visiva e modestia narrativa. Retoricamente servito da una brutta score di James Horner, il film di Cameron è quasi imbarazzante sul piano della sceneggiatura, della definizione dei personaggi, dei dialoghi. Il plot (“soldato blu passa dalla parte degli indiani diventando uno di loro attraverso un corso accelerato”) sfrutta personaggi stereotipati fino all'impossibile; basta vedere la coppia dei cattivi, la più classica e muffita e prevedibile delle caratterizzazioni: il verme opportunista e il militare psicopatico nazistoide. Cameron, in veste di sceneggiatore, non si prende neppure il disturbo di elaborare una cultura aliena per i Na'Vi: prende gli indiani d'America e li dipinge di blu. Rientra nel novero delle figure di cartapesta il protagonista, che fa la figura del cretino quando insiste a credersi un possibile mediatore quando tutto il mondo ha capito dove vanno a finire le cose. Sia ben chiaro: non è il concetto a offendere il senso estetico ma l'ingenuità e la piattezza con cui esso viene concretizzato nel personaggio. Potrebbe dargli un po' di sostanza il tema dell'avidità - il patto faustiano per riavere nel suo corpo umano le gambe di cui già gode come avatar - ma anch'esso resta aereo e imprecisato.
Privo di un tessuto narrativo efficace, il film si fraziona in “quadri”, certo avvincenti sul piano visivo. Diventa più soddisfacente verso la fine, quando questo minus habens vede la luce, raggiunge i Na'Vi con un'espressione guerriera come un Mel Gibson blu, scoppia la guerra e cominciano a morire i cattivi; ma che fatica per arrivarci.
mercoledì 27 gennaio 2010
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1 commento:
grazie Giorgio per aver dato corpo alla mia insoddisfazione dopo aver visto il film
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