Tom Ford
C'è una famosa, splendida poesia di W.H. Auden in compianto del suo amante, che andrebbe ricordata prima di vedere o discutere “A Single Man” di Tom Ford, poiché ne esprime perfettamente il senso. Inizia così: “Fermate tutti gli orologi, tagliate il telefono / Date un osso succoso al cane, che non abbai”; e queste istruzioni universali continuano fino alla terza strofa che dice: “Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est, il mio Ovest / La mia settimana di lavoro, la mia domenica di riposo / Il mio mezzogiorno, la mia mezzanotte, il mio discorso, il mio canto; / Credevo che l'amore fosse per sempre: sbagliavo”. Fino alla terza strofa, e poi di nuovo nella quarta, la poesia non parla dell'amante ma della perdita: il suo tempo non è l'imperfetto del ricordo ma sono i laceranti imperativi del compianto funebre. Perché la morte dell'essere amato innesta due sentimenti: il pieno del ricordo e il vuoto della perdita; il primo giace nella memoria, ma il secondo nell'immediatezza, e per questo ha la feroce potenza del disastro.
Nel suo raffinatissimo film d'esordio, tratto da Isherwood, lo stilista Tom Ford rende perfettamente quella condizione di sospensione dello spirito di fronte all'assoluto della privazione (“Lui era il mio Nord, il mio Sud”). Il suo tema non è l'elegia del ricordo, anche se esso alimenta lo svolgimento sul piano emotivo, bensì la disperazione della perdita, dipinta in modo chiaro e impositivo come una radiografia della morte. “A Single Man” ha una drammaticità sottilmente straziante e - nel suo essere stylish senza essere leccato - una misura e una sicurezza stupefacenti per un'opera prima. L'eleganza raggelata che deriva da un rigoroso ordine compositivo dell'inquadratura non fa che amplificare la condizione tragica.
Siamo all'epoca della crisi di Cuba (il passato è espresso nei colori “da filmino familiare” della fotografia di Eduard Grau), sotto l'ombra minacciosa della guerra atomica. George Falconer (una magnifica interpretazione di Colin Firth), inglese che insegna letteratura in America, se ne frega: il suo mondo è crollato con la morte del suo compagno di lunga data in un incidente d'auto (i genitori di lui non gli hanno permesso neppure di vedere il corpo). George prepara con accuratezza tutta inglese il proprio suicidio mentre si divide fra le lezioni al college e il rapporto con un'altra anima solitaria, l'amica alcoolizzata Charley (una gigantesca Julianne Moore), innamorata di lui. Com'è centrato il realismo del loro dialogo, che innesta un credibile gioco di comprensione e rimpianto!
Anche al di là del piano diegetico, nel film è ossessiva la presenza della morte. Sono un'immagine della morte i due bambini della famiglia wasp dei vicini di casa. A livello diretto, il maschietto fanatico delle armi giocattolo (nota l'immagine incubica al rallentatore di lui che “spara” all'auto di George che esce dal vialetto). A un livello più profondo lo è la bambina eterea e beneducata che gli sorride nella stessa inquadratura, e che è protagonista più tardi di un memorabile dialogo alla banca, quando gli mostra la boccia di vetro col suo scorpione (“Ogni sera gli buttiamo dentro delle cose e guardiamo mentre le uccide”). E', questa bambina, stretta parente delle immagini femminili della morte, bianche, giovani e sorridenti, del cinema americano, da Bob Fosse a Robert Altman; inoltre, inutile dirlo, richiama David Lynch, che direi essere un riferimento costante nel film (al pari di Wong Kar-wai). E' assolutamente lynchano quel gufo che si alza in volo nella notte; o, fra altri dettagli funerei, potremmo citare gli occhi sbarrati del grande manifesto nella scena del (casto) incontro di George col prostituto spagnolo. In bocca a quest'ultimo troviamo la rilevante asserzione che a volte le cose orribili hanno una loro bellezza (“su punto de incanto”): è lo smog di Los Angeles, dice, che dà quel colore glorioso al cielo.
Questo film sul dolore e sul rimpianto - sull'assenza del corpo amato - possiede una vera carnalità, che rende più tormentoso il senso della mancanza. E' sensuale nella sua malinconia, diretto nel suo sguardo sui corpi, non solo come visione soggettiva (ritornano inquadrature di occhi in dettaglio sullo schermo) ma come materialità, vicinanza, voce muta del corpo fisico. George contempla la bellezza, quando il giovane studente Kenny gli si offre (stupefacente la prima apparizione nel campus di Kenny e della sua amica, bellissimi e simili, come l'androgino separato) - e se ne ritrae, non per paura ma per un senso di irrevocabilità. Un bagno nudi nel mare, qui evocato come fonte di tutta la vita, apre la strada a un'esausta pacificazione (“tutto è esattamente come deve essere”). Così la morte arriva, non come dramma, come clamore e suicidio, ma come sorte silenziosamente accettata.
domenica 21 febbraio 2010
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