Guy Ritchie
Sir Arthur Conan Doyle - nessuno lo negherà - non sarebbe rimasto soddisfatto dallo “Sherlock Holmes” del dotato Guy Ritchie. “We are not amused”, avrebbe detto, come la Regina Vittoria. Vero è che Conan Doyle detestava la sua creatura, fino al punto, com'è noto, di farlo morire (e poi doverlo risuscitare per tacitare i lettori, fra cui sua madre). Tuttavia, l'orgoglio offeso avrebbe avuto il sopravvento.
Ma non deve lamentarsi troppo sulla sua nuvoletta. Intanto, Sherlock Holmes non è mai stato solo suo ma anche una figura transmediatica ante litteram. Fin dall'inizio la sua figurazione nell'immaginario collettivo non viene solo dai racconti ma dalla grafica (le illustrazioni di Paget con mantellina scozzese e berretto da caccia) e dal teatro (donde proviene quell'“Elementare, Watson” che non si riscontra in Conan Doyle).
E' interessante che una figura così cristallizzata in una forma canonica sia fra quelle più sottoposte a riscrittura. Holmes e Watson hanno incontrato tutte le creature possibili e immaginabili, da Dracula a Jekyll ai marziani di Wells a Jack lo Squartatore a ogni figura storica dell'epoca. E questo perché Holmes è un'icona dell'era vittoriana, e l'era vittoriana sta al centro del nostro immaginario fantastico: se ci pensate, l'eccezione più notevole essendo Frankenstein, viene tutto da lì.
E hanno anche avuto, i due di Baker Street, la loro dose di rovesciamenti (il più spiritoso è “Senza indizio” di Thom Eberhardt, in cui Sherlock Holmes/Michael Caine è un attore alcoolizzato assunto come paravento da Watson/Ben Kingsley che è il vero genio investigativo). Così, non bisogna guardare come un tradimento il fatto che Guy Ritchie col suo team di sceneggiatori riscriva Sherlock Holmes nel segno del cinema action, presentandoci un Holmes e un Watson (Robert Downey jr. e Jude Law) giovanili, attraenti e muscolari, non solo investigatori deduttivi ma ottimi picchiatori.
E non sono inappuntabili (gustosissimo il dettaglio della mania di Watson per il gioco, o la gelosia infantile di Holmes per il matrimonio che gli porta via il compagno); né i loro rapporti sono del genere “padrone e cane” come in tante versioni cinematografiche. Quando qui Watson rifila a Holmes un pugno sul naso, vendica in un colpo solo tutti i Watson della tradizione e indubbiamente un po' anche l'originale.
Peraltro ritroviamo in questo personaggio dagli occhi da pazzo lo Holmes canonico, fino a dettagli quali lo sport di scrivere VR (Victoria Regina) sparando sulla parete della camera. Ovvero, gli sceneggiatori si sono ben documentati; il revisionismo postmoderno del film non nasce dal nulla (com'era per esempio il caso di “Van Helsing”) ma sboccia dal canone holmesiano, con una lettura eterodossa ma non gratuita.
Guy Ritchie è un regista interessante perché è un regista della non necessità: ha sempre mostrato una tendenza “laterale” a sfuggire dalla consecutio drammaturgica nei suoi film, innamorandosi di figure inessenziali, discorsi colti al volo, bozzetti e bizzarrie. Certamente non ha potuto girare “Sherlock Holmes” con la stessa originalità con cui ha girato, diciamo, “Lock & Stock” o “Snatch”. Bisogna chiamarsi Tim Burton per fare quello che si vuole al cospetto delle megaproduzioni.
Tuttavia Ritchie ha realizzato un film piacevolissimo, in cui ha portato, se non proprio il suo sguardo laterale, una buona dose di libertà narrativa. Interessanti le “teorie” dell'attacco fisico esposte in voce over prima del colpo, efficaci i riassunti accelerati, e in generale eccellente il ritmo - la scena classica della lotta contro il tempo mentre si è trasportati verso una sega rotante non è mai stata realizzata così bene. Il dialogo è molto spiritoso (l'ispettore Lestrade a Holmes: “In un'altra vita sarebbe stato un buon poliziotto”. Holmes: “Anche lei”). E il film traccia un affascinante quadro, con colori cupi e cinerei, della Londra vittoriana, con le sue sacche di povertà in cui non ci stupiremmo di veder camminare l'Oliver Twist di Polanski. I travestimenti di Sherlock Holmes (finalmente ricondotti alla loro “meraviglia” doyliana) si inseriscono perfettamente in quell'ambiente picaresco - vedi quella pagina di bravura che è il pedinamento di Irene Adler.
Spacciato lo stregone Lord Blackwood, fa capolino nel film il professor Moriarty. Siccome è già previsto un seguito, chissà che non siamo destinati ad avere - come già quella classica con Basil Rathbone e Nigel Bruce degli anni quaranta - una vera e propria serie holmesiana per il secondo decennio del duemila.
(Il Nuovo FVG)
sabato 16 gennaio 2010
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