domenica 27 dicembre 2009

A Serious Man

Joel ed Ethan Coen

Nella Bibbia, noi leggiamo il Libro di Giobbe in una narrazione oggettiva: come un horror, non come un giallo. Conosciamo l'antefatto, ci vengono detti i motivi per cui Dio fa accadere al suo servo Giobbe tante disgrazie (sono quelli che in tribunale si chiamano “motivi futili e abbietti”, e costituiscono un'aggravante). E' Giobbe, poveruomo, che vive questa vicenda in soggettiva, e ha ben diritto di chiedersi: ma che succede?
In “A Serious Man” di Joel ed Ethan Coen, il protagonista Larry Gopnik, insegnante di fisica, è una specie di Giobbe moderno. All'inizio del film possiede una certa stabilità economica, ha moglie e figli (non sa che il figlio minore si spinella e la moglie lo cornifica con l'untuoso amico Sy), si considera un uomo retto. “Io non sono un uomo malvagio”, piangerà poi sotto il peso delle disgrazie, “Io ho cercato di essere un uomo serio”; litigando nel suo ufficio con uno studente coreano che vuole farsi alzare un voto insufficiente, grida che almeno in quella stanza vige la morale. Il massimo d'infrazione che gli vediamo fare è di spiare dal tetto, mentre aggiusta l'antenna tv, la vicina, una quarantenne supersexy, che prende il sole nuda (intelligente il richiamo che è stato fatto - visto l'ambiente ebraico della vicenda - all'episodio biblico di Davide e Bethsabea). Ma ecco che il destino sembra accanirsi a togliergli tutto. La moglie vuole il divorzio per sposare Sy, i due figli sono menefreghisti, il fratello pazzoide che vive in casa loro è sempre più pesante da sopportare, il sospirato posto di ruolo diviene incerto, lo studente coreano per corromperlo gli ha lasciato sulla scrivania una busta di soldi che Larry non riesce a restituire, arrivano al college lettere anonime... Un Giobbe moderno, dicevamo; e alcuni aspetti (le imprecisate lettere accusatrici, i misteriosi guai del fratello con la legge) richiamano anche un altro grande nome ebraico della cultura occidentale: Franz Kafka. Non è la prima volta che si cita il Libro di Giobbe a proposito dei fratelli Coen, perché è una buona metafora dell'asse portante narrativo del loro cinema: la presenza di una sorte così ingiusta e maligna che sembra possedere una volontà propria (vedi per esempio “L'uomo che non c'era”). Ma in “A Serious Man” i Coen riconducono il riferimento direttamente alla sua matrice ebraica, inserendolo in un'energica descrizione della comunità ebraica americana.
Questa discesa agli inferi della disgrazia si lega al secondo asse portante del cinema dei Coen, diretta conseguenza del primo: il non-senso del mondo: se il mondo è un oscuro tornado di forze maligne e indecifrabili, anche la conoscenza diviene impossibile. Ecco il significato del bellissimo e inquietante prologo del film, parlato in yiddish e ambientato in uno shtetl fine Ottocento, con due coniugi che ricevono la visita di un vecchio che forse è un dybbuk (un morto che cammina) e forse no. La donna lo pugnala e l'uomo si trascina via nella notte. Il marito pensa che lei abbia commesso un omicidio, lei pensa di avere difeso la famiglia. Qual è la verità? Vale la pena di osservare che nei titoli di coda, accanto al nome del caratterista, il suo personaggio è listato come “dybbuk?”, col punto interrogativo. Non sapremo mai se abbiamo assistito a una storia soprannaturale o a un equivoco, a un assassinio o a un salvataggio.
Non per nulla vediamo Larry insistere nelle sue lezioni (con dimostrazioni matematiche buffamente ciclopiche, e inascoltate) su delizie intellettuali quali il paradosso del gatto di Schrödinger e il principio di indeterminazione di Heisenberg. A un certo punto, in un incubo, Larry - inquadrato piccolissimo in posizione centrale davanti a un'enorme lavagna zeppa di formule - ne dà una traduzione un po' azzardata (in fondo, è un sogno!) ma utile, che esprime il tema del film: “Dimostra che non possiamo mai sapere davvero che cosa accade”. A tale impossibilità di comprendere fanno da comico controcanto lo scartafaccio pieno di formule incomprensibili compilato dal fratello matto, il “Mentaculus”, “una mappa delle probabilità dell'universo”, e il suo uso assai mondano: per vincere illegalmente al gioco.
Ma l'incomprensibilità del destino in questo mondo di ebrei osservanti si traduce nel problema di Dio, il quale non dà spiegazione dei Suoi atti. Certi avvenimenti - in due incidenti d'auto alla stessa ora Larry non si fa niente e Sy muore - vorranno pur dire qualcosa? Ci dev'essere una logica in tutto questo; solo che non riusciamo a scoprirla. “Il capo non ha sempre ragione ma è sempre il capo”. E il film, che è ricchissimo, lancia tra le righe anche un accenno allo gnosticismo.
Qui merita osservare che, mentre due dei rabbini cui si rivolge disperato Larry rispondono in modo comicamente generico e il terzo non gli parla neppure, tutto sale sulle ferite, in ultima analisi queste conversazioni non sono inutili come sembrano. Il primo dice di guardare alle cose con occhi nuovi; il secondo conclude lo strepitoso apologo surreale sui denti con un semplice “Aiutare gli altri non fa danno”. Perfino il silenzio del terzo rabbino assume un significato di messaggio: per usare un termine zen che bene si adatta alla saggezza rabbinica della tradizione yiddish, è un koan. Poi, se non parla al padre parlerà al figlio: “Quando la verità si scopre essere falsità e tutta la speranza dentro di te se ne va, che cosa si fa?” - ed è la grande domanda del cinema dei Coen. Dice il rabbino al ragazzo: “Fa il bravo”. Ecco la risposta, parente della fiammella di cui parlano i due vecchi sceriffi in “Non è un paese per vecchi”.
Poiché il discorso non sarebbe completo se non vedessimo che Larry vive in un mondo di gente che bada solo a farsi i comodi suoi, in un opportunismo generalizzato. E allora, chi è il dybbuk? E' Larry, chiuso in una convinzione morale astratta che si risolve in cecità? O è circondato da tutta una folla di dybbuk? Quel ch'è certo, la risalita di Larry dal disastro comincia quando egli comincia a muoversi nella vita e a fare dei compromessi anziché restare in un guscio che ha scoperto essere un fragile guscio d'uovo. Con pura genialità coeniana, il film gli fa perfino accettare - non potendo restituire i soldi della corruzione - la sua parte nell'accordo: ci paga l'avvocato e modifica il voto.
Ma non aspettiamoci che tutto finisca in gloria. Un'ambigua telefonata del suo medico fa sospettare un cancro. Non è una unhappy end, sarebbe troppo scontato: è la riproposizione dell'ambiguità; non lo sapremo mai, come per la storia del dybbuk. E questo si lega all'ultima potente immagine, il ragazzo inquadrato di spalle che guarda il tornado in avvicinamento sul fondo. Un'immagine perfetta per il dolore della civiltà e dell'esistenza – ed è proprio dei Coen, da grandi umoristi ebraici, che il loro sogghigno sia pensoso e la loro irrisione sia umana.

sabato 19 dicembre 2009

Jennifer's Body

Karyn Kusama

“Jennifer's Body”, appunto: è il corpo di Jennifer (Megan Fox, molto divertita nella parte di high school slut) che serve ai componenti della rock band Low Shoulder per offrire un sacrificio umano a Satana impetrando fama e successo. Solo che, ancora un dettaglio esclusivamente fisico, lei non è vergine (“neanche dall'uscita di servizio”, ha confidato alla sua migliore amica Needy) come loro credevano. Di conseguenza, ritorna dalla morte come una sorta di demone, che attira gli studenti offrendo sesso e poi li dilania: se già prima era una divora-ragazzi, ora lo è fuor di metafora. Needy (Amanda Seyfried) si rende conto della verità e la combatte - ma al costo di perdere tutto ciò che ama nella vita, nonché di una personale trasformazione.
Attorno al corpo dunque ruota questa gustosa horror/comedy adolescenziale diretta da Karyn Kusama e sceneggiata da Diablo Cody (“Juno”), un cui lontano antecedente potrebbe essere “Hello Mary Lou: Prom Night II” (1987) di Bruce Pittman. Una centralità del corpo che riguarda ovviamente il “mostro”: se Jennifer non mangia ragazzi le si imbruttiscono pelle e capelli, come a una qualunque cheerleader dalla dieta sbagliata; inoltre la sua demonialità assume i tratti del gioco fisico: l'invulnerabile bellezza si diverte a bruciarsi la punta della lingua con un accendino, e quando dimostra i suoi poteri all'amica ferendosi e guarendo subito, dice col puro divertimento della scoperta “Sembrano le cazzate che fanno gli X-Men”. Ma vale, questa fisicità, anche per la controparte “buona” rappresentata da Needy. Non per nulla a un certo punto il film insiste su un doppio rapporto sessuale in montaggio parallelo, quello fra Needy e il suo fidanzato Chip e quello fra Jennifer e la sua vittima; e l'inizio presenta una Needy “muscolare” come una Sigournery Weaver fuori di testa, ben diversa dalla biondina occhialuta che vedremo poi, che dal manicomio narra in flashback la sua vicenda (c'è nella sua voce narrante un'aria di famiglia con la precedente Juno di Diablo Cody). Quanto al resto: “Nessuno ritorna, nessuno scende dalla croce”, dice la Needy spaccatutto dell'inizio, e tanti saluti alla metafisica.
Come già in “Juno” (certo superiore), Diablo Cody brilla nel discorso diretto, sempre spiritoso e vivace, e in quella che potremmo chiamare una capacità “sociologica” di cogliere e restituire l'universo giovanile. Qui in tono garbatamente satirico: deliziosa, a proposito dell'argomento molto attuale della stupidità internettiana, quella ragazza che all'incredulità di Needy sull'eroismo attribuito ai Low Shoulder risponde scandalizzata: “E' la verità, c'è anche su Wikipedia”. Se Sartre diceva "l'inferno sono gli altri", Needy/Diablo Cody dice: "l'inferno è una ragazza adolescente"; e questo mondo ribollente è disegnato in modo schematico ma interessante. Anche se il film tende sempre a sfiorare più che andare in profondità, viene delineato con precisione il legame di best friend diffuso fra le adolescenti - che viene ricondotto al suo elemento omofilo in una scena. L'elemento di scambio fra le due amiche (non a caso l'Amanda Seyfried “contagiata” del finale appare molto più sexy) rientra in questa logica.
L'elemento di humour noir ha dei momenti molto felici (superbo il sacrificio satanico eseguito leggendo non un grimoire ma un foglio A4 stampato da Internet). Quanto all'horror, se lo svolgimento è un po' prevedibile, tuttavia è narrato in modo fluido e visualmente piacevole. Va segnalato un dettaglio immaginoso: gli animali del bosco che si radunano per assistere al primo omicidio (anche un cerbiatto!, che poi vediamo lappare il sangue dalla ferita aperta). Il mondo di “Jennifer's Body” si potrebbe definire un incubo gnostico, se il film non fosse troppo (piacevolmente) superficiale per una definizione così impegnativa. In ogni modo, Megan Fox è assolutamente splendida, e da sola vale il prezzo del biglietto - così splendida da far pensare con nostalgia agli anni '80 (quelli di “Prom Night” appunto), quando gli horror si permettevano qualche barbaglio di nudità.

(Il Nuovo FVG)

mercoledì 16 dicembre 2009

New Moon

Chris Weitz

La diga crollò con Anne Rice, sebbene anticipata da quel grande innovatore di Dan Curtis (la serie tv “Dark Shadows”): con i suoi vampiri pericolosi ma affascinanti la Rice apriva definitivamente la strada a una biforcazione delle storie di vampiri, dall’horror al romance; e di lì fu il diluvio.
Della corrente romantica dei vampiri, il rigoglioso ramo adolescenziale è cresciuto con Stephenie Meyer e la saga di “Twilight”, il cui enorme successo fra i giovanissimi ha creato una generazione di twilighters. Con la storia d'amore tra la ragazza e il vampiro, tra Bella Swan (dal nome doppiamente favolistico) ed Edward Cullen, Stephanie Meyer ha saputo toccare un nervo profondo dell’eros adolescenziale: la tentazione e insieme la paura di lasciarsi andare sul piano sessuale. Il vampirismo, nella favola di “Twilight”, sta per il sesso: sotto la metafora del contagio vampirico la storia parla del desiderio e del controllo del desiderio, del contrasto fra istinto e ragionamento, della sensazione di una scelta irreparabile. “E’ come se tu fossi la mia qualità preferita di eroina”, dice Edward a Bella nel primo film, diretto dalla modesta Catherine Hardwicke. Film peraltro che spreca tutta una quantità di occasioni, anche se fornisce agli spettatori alcune divertenti annotazioni sugli usi e costumi del vampiro americano - dal gusto per l’architettura razionalista al gioco del baseball superveloce.
Si poteva sperare che il passaggio della regia a Chris Weitz portasse un po' di sangue nelle vene anemiche della serie cinematografica, ma ormai Weitz è lontano da quello spiritaccio che dava vita ad “American Pie” (di cui fu produttore, col fratello Paul per regista). “New Moon” è peggio di “Twilight”: anche perché abbandona quello sguardo “interno” sulla vita dei vampiri che forniva qualche tenue spunto d'interesse al film della Hardwicke. Qui la piattezza è totale. Al massimo ci si diverte a guardare come la sceneggiatura di Melissa Rosenberg si danna per tenere contento il pubblico facendo apparire sullo schermo Edward (Robert Pattinson) laddove il plot gira attorno alla sua assenza: sogni, flashback, allucinazioni, apparizioni telepatiche ammonitorie e quant'altro. In questo compito la sceneggiatrice esaurisce la sua fantasia, perché il resto è tanto banale quanto traballante sul piano logico. Per esempio: va bene che nessuno scommetterebbe sul QI della protagonista della serie, ma neppure il più fan dei fans può prendere sul serio il fatto che lei - quando Edward gemente l'abbandona per il suo bene - si lascia convincere sui due piedi che non l'ama più.
Del resto, se anche fosse una cosa seria, verrebbe ammazzata dalla recitazione disastrosa di Kristen Stewart. Nemmeno i suoi pretendenti Robert Pattinson e Taylor Lautner (il vampiro e il licantropo) sono un granché come attori, ma lei è inconcepibile. La sua totale inespressività non varia neppure quando è mezza annegata. Per vedere la differenza fra questa mummia e una giovane attrice vera, basta guardare la breve scena in cui è in auto con Ashley Greene (Alice).
L'introduzione di lupi mannari king size in digitale non fa molto per sollevare il film. Se già “Twilight” metteva in ombra le sue emozioni più oscure, in “New Moon” esse vengono completamente sterilizzate. Basta vedere com'è ridotta a pezzettini la pagina dell'inseguimento e uccisione del vampiro da parte dei lupi mannari. Verso la fine, se Dio vuole, si arriva in Toscana, ai Volturi, che trasmettono almeno loro un senso di grandezza e di minaccia. E per forza: il capo dei Volturi, Aro, è l'ottimo Michael Sheen, attore teatrale inglese che si appropria della parte camping it up nel modo più sfacciato, e con essa dell'intero film: il suo vampiro è l'unica figura che merita di restare nella galleria dei succhiasangue cinematografici. Ai Volturi è connessa anche l'unica idea veramente divertente del film: la vampira Heidi porta loro un carico di vittime nella sua veste di guida turistica dei palazzi di Volterra (un'ottima copertura per un vampiro! Così non ti tocca trascinarli, anzi, sgambettano per tenerti dietro).
Nella finta Volterra l'effetto scenografico (la “Festa di San Marco”), seppure non particolarmente originale, è visualmente piacevole, anche perché arriva come una liberazione in un film scenograficamente grigio; peccato che lo rovini la ridicolaggine di quell'auto sportiva gialla che attraversa le strade della cittadina medievale a velocità supersonica senza prendere nemmeno una multa. A questo punto, le speranze della saga riposano tutte sul prossimo film. Siccome “New Moon” ha segnato un'eclissi, speriamo che “Eclipse” ci porti la luna nuova.

mercoledì 2 dicembre 2009

Nemico pubblico

Michael Mann

Mise en abyme: quando un'immagine o un racconto o uno spettacolo inseriti all'interno di un'opera alludono a quell'opera stessa, replicandola e rappresentandone una versione in piccolo. In “Nemico pubblico” Michael Mann inserisce un frammento di “Manhattan Melodrama”, il film di W.S Van Dyke (1934) che John Dillinger (Johnny Depp) va a vedere con un'amica prima di essere falciato all'uscita del cinema dagli uomini del FBI. Vediamo il criminale Clark Gable rifiutare la grazia da parte del suo amico d'infanzia, ora Governatore, William Powell, e avviarsi a testa alta alla sedia elettrica. E' evidentemente una versione en abyme del finale del film di Mann (che riproduce quanto è realmente accaduto: il che fa aleggiare un'ombra inquietante di profezia).
In realtà, però, questo frammento va considerata una mise en abyme non del finale ma dell'intero film. Poiché “Nemico pubblico” è tutto intero una marcia verso la morte. A morte Dillinger è condannato fin dall'inizio, e il suo vitalismo sconsiderato (“Ce la spassiamo così tanto oggi - perché pensare al domani?”) serve solo a sottolinearlo. Lo mostra bene la sequenza in cui Dillinger si introduce nei locali della stessa “Dillinger Squad” che gli dà la caccia. C'è l'audacia, qui, c'è la spacconata; ma quando vede le foto di tutti i “pericoli pubblici”, ciascuna con stampigliata la scritta “morto” tranne la sua, la scena diventa una premonizione della sua fine.
Dillinger è condannato a morte perché al suo individualismo predatorio si oppone la trasformazione in senso industriale tanto del mondo della legge quanto del mondo del crimine, due costruzioni contrapposte che riflettono entrambe l'America a venire. Mann mostra con abili tocchi il passaggio della detection a livello moderno e tecnicamente organizzato, con gli uffici del FBI (nato proprio in reazione alle imprese di Dillinger e compagni) che conservano le intercettazioni telefoniche in forma di disco; e specularmente ad essi, gli uffici del crimine organizzato, anch'essi organizzati secondo una logica industriale, dove l'ex amico spiega a Dillinger che i suoi colpi non fanno piacere al “sindacato”. “Siamo nell'era moderna” è il pensiero tanto di Edgar J. Hoover quanto del mafioso Frank Nitti. Rispetto a questi due mondi Dillinger è un residuo del passato, una scheggia impazzita, un maverick. Non per nulla, appeso sopra il suo lettino nell'albergo vediamo il quadro di un cowboy - e Mann ci tiene a sottolinearlo zoomando su di esso durante una sequenza di sparatoria.
E' un film sulla morte, dove si muore e si uccide come nei vecchi western: non ci si sta a pensare, semplicemente si prende la mira e si preme il grilletto - come nella bellissima scena dell'inseguimento nel frutteto. E la morte passa per gli occhi. All'inizio del film Mann, col direttore della fotografia Dante Spinotti, ce la mostra negli occhi che si spengono del complice ferito aggrappato all'auto, dopo l'evasione; più in là nel film lo sentiamo teorizzare nelle discussioni oziose dei gangster: “Sono gli occhi, vero? Ti fissano, appena prima di andarsene... e poi si perdono nel nulla. Da non dormirci la notte”. E' geniale da parte di Mann aver messo quell'inquadratura degli occhi all'inizio e averla fatta ritornare come generalizzazione nel dialogo solo molto tempo dopo. Qualsiasi altro regista americano avrebbe fatto esattamente il contrario, con la sola eccezione di Clint Eastwood.
Certo, bisogna ammettere che in questo film Mann non raggiunge la stessa grandezza di “Collateral” (proprio come la sua versione di Dillinger non raggiunge il “Dillinger” di John Milius del 1973). Difficile negare in alcune scene un'ombra di accademismo. Per esempio quelle con l'amante Billie Frechette all'inizio, indebolite anche dal casting di Marion Cotillard - la recitazione artefatta, gli occhi insinceri, il viso molle che già annuncia la bruttissima vecchia che diventerà.
Ma tutto si perdona quando Mann, questo campione della narrazione matter-of-fact, passa alle scene d'azione. Puro splendore, nella fotografia di Dante Spinotti, dei lampi gialli dei mitra nell'oscurità! Anche se la scelta di girare in digitale abbassa visibilmente la qualità dell'immagine in un paio di passaggi, la foto di Spinotti esalta la bellissima costruzione dell'inquadratura. La città notturna con la sopraelevata che corre sui viadotti, i boschi bui che passano in un attimo dal torpore alla frenesia, le mura che paiono ciclopiche del penitenziario, gli atrii enormi delle banche dove i rapinatori fanno irruzione compongono visioni che non si lasciano dimenticare.

(Il Nuovo FVG)