mercoledì 2 dicembre 2009

Nemico pubblico

Michael Mann

Mise en abyme: quando un'immagine o un racconto o uno spettacolo inseriti all'interno di un'opera alludono a quell'opera stessa, replicandola e rappresentandone una versione in piccolo. In “Nemico pubblico” Michael Mann inserisce un frammento di “Manhattan Melodrama”, il film di W.S Van Dyke (1934) che John Dillinger (Johnny Depp) va a vedere con un'amica prima di essere falciato all'uscita del cinema dagli uomini del FBI. Vediamo il criminale Clark Gable rifiutare la grazia da parte del suo amico d'infanzia, ora Governatore, William Powell, e avviarsi a testa alta alla sedia elettrica. E' evidentemente una versione en abyme del finale del film di Mann (che riproduce quanto è realmente accaduto: il che fa aleggiare un'ombra inquietante di profezia).
In realtà, però, questo frammento va considerata una mise en abyme non del finale ma dell'intero film. Poiché “Nemico pubblico” è tutto intero una marcia verso la morte. A morte Dillinger è condannato fin dall'inizio, e il suo vitalismo sconsiderato (“Ce la spassiamo così tanto oggi - perché pensare al domani?”) serve solo a sottolinearlo. Lo mostra bene la sequenza in cui Dillinger si introduce nei locali della stessa “Dillinger Squad” che gli dà la caccia. C'è l'audacia, qui, c'è la spacconata; ma quando vede le foto di tutti i “pericoli pubblici”, ciascuna con stampigliata la scritta “morto” tranne la sua, la scena diventa una premonizione della sua fine.
Dillinger è condannato a morte perché al suo individualismo predatorio si oppone la trasformazione in senso industriale tanto del mondo della legge quanto del mondo del crimine, due costruzioni contrapposte che riflettono entrambe l'America a venire. Mann mostra con abili tocchi il passaggio della detection a livello moderno e tecnicamente organizzato, con gli uffici del FBI (nato proprio in reazione alle imprese di Dillinger e compagni) che conservano le intercettazioni telefoniche in forma di disco; e specularmente ad essi, gli uffici del crimine organizzato, anch'essi organizzati secondo una logica industriale, dove l'ex amico spiega a Dillinger che i suoi colpi non fanno piacere al “sindacato”. “Siamo nell'era moderna” è il pensiero tanto di Edgar J. Hoover quanto del mafioso Frank Nitti. Rispetto a questi due mondi Dillinger è un residuo del passato, una scheggia impazzita, un maverick. Non per nulla, appeso sopra il suo lettino nell'albergo vediamo il quadro di un cowboy - e Mann ci tiene a sottolinearlo zoomando su di esso durante una sequenza di sparatoria.
E' un film sulla morte, dove si muore e si uccide come nei vecchi western: non ci si sta a pensare, semplicemente si prende la mira e si preme il grilletto - come nella bellissima scena dell'inseguimento nel frutteto. E la morte passa per gli occhi. All'inizio del film Mann, col direttore della fotografia Dante Spinotti, ce la mostra negli occhi che si spengono del complice ferito aggrappato all'auto, dopo l'evasione; più in là nel film lo sentiamo teorizzare nelle discussioni oziose dei gangster: “Sono gli occhi, vero? Ti fissano, appena prima di andarsene... e poi si perdono nel nulla. Da non dormirci la notte”. E' geniale da parte di Mann aver messo quell'inquadratura degli occhi all'inizio e averla fatta ritornare come generalizzazione nel dialogo solo molto tempo dopo. Qualsiasi altro regista americano avrebbe fatto esattamente il contrario, con la sola eccezione di Clint Eastwood.
Certo, bisogna ammettere che in questo film Mann non raggiunge la stessa grandezza di “Collateral” (proprio come la sua versione di Dillinger non raggiunge il “Dillinger” di John Milius del 1973). Difficile negare in alcune scene un'ombra di accademismo. Per esempio quelle con l'amante Billie Frechette all'inizio, indebolite anche dal casting di Marion Cotillard - la recitazione artefatta, gli occhi insinceri, il viso molle che già annuncia la bruttissima vecchia che diventerà.
Ma tutto si perdona quando Mann, questo campione della narrazione matter-of-fact, passa alle scene d'azione. Puro splendore, nella fotografia di Dante Spinotti, dei lampi gialli dei mitra nell'oscurità! Anche se la scelta di girare in digitale abbassa visibilmente la qualità dell'immagine in un paio di passaggi, la foto di Spinotti esalta la bellissima costruzione dell'inquadratura. La città notturna con la sopraelevata che corre sui viadotti, i boschi bui che passano in un attimo dal torpore alla frenesia, le mura che paiono ciclopiche del penitenziario, gli atrii enormi delle banche dove i rapinatori fanno irruzione compongono visioni che non si lasciano dimenticare.

(Il Nuovo FVG)

1 commento:

manolo ha detto...

Dante Spinotti è friulano.
Di recente ha tenuto un seminario a Gemona
more info:
http://www.webandana.com/weBlog/2010/01/17/mettete-dei-fiori/