sabato 29 marzo 2008

Onora il padre e la madre

Sidney Lumet

“Quando cerchi di controllare ogni cosa, va a finire che ogni cosa controlla te”. Lo dice Sidney Lumet nel suo libro “Making Movies” a proposito di alcuni suoi film - e si applica molto bene ai due fratelli protagonisti del suo nuovo film, “Onora il padre e la madre” (“Before the Devil Knows You’re Dead”: da un brindisi irlandese che augura di passare 40 anni in cielo “prima che il diavolo sappia che sei morto”).
I fratelli Andy e Hank, entrambi in una disastrosa situazione finanziaria, hanno la classica idea da dritti: rapinare la piccola gioielleria di proprietà dei genitori, senza far male a nessuno; l’anziana commessa si prenderà solo uno spavento, l’assicurazione rifonderà i due vecchi, mentre loro due avranno il bottino. Un piano così perfetto, come può andare male? E infatti finisce in un disastro, con il teppistello ingaggiato dal tremebondo Hank come proprio sostituto per la rapina che tira fuori una pistola e si fa ammazzare, ma prima di finire disteso ferisce a morte - non la commessa ma la madre dei due, che quel giorno l’aveva sostituita.
Dopo il serrato inizio, la storia è raccontata dal film in una dimensione temporale prismatica, con una serie di flashback e di ritorni che saltano avanti e indietro rispetto alla rapina, ciascuno focalizzato su uno dei personaggi principali: Andy e Hank (Philip Seymour Hoffman, grandissimo, ed Ethan Hawke) e loro padre (Albert Finney). Quindi, come in “Rapina a mano armata” di Kubrick o “Jackie Brown” di Tarantino, rivediamo a volte la stessa scena seguendo un altro personaggio. Non per nulla, come già altri ha puntualmente osservato, nella vasta produzione televisiva di Lumet c’è anche una versione tv di “Rashomon” (1960). Una quarta figura chiave, Gina (Marisa Tomei), moglie di Andy che lo tradisce con Hank, osserva in disparte la tragedia e giudica implicitamente, come un coro greco che abbia scelto il silenzio.
E’ un mondo di totale disumanizzazione - di cui è simbolo l’interminabile panoramica ascendente sulla facciata di vetro e metallo del grattacielo dove vive il pusher che procura la droga ad Andy: la contraddizione di un luogo da abitare che appare astratto e inabitato. Nessuno è immune dal peccato - ma si tratta (salvo la ferocia vendicatrice del padre) di peccatucci: “small potatoes” in termini di contabilità infernale; però portano a una serie multipla di tragedie. Alla base di tutto, stanno i soldi; “Before the Devil Knows You’re Dead” è l’“auri sacra fames” di Sidney Lumet. Nella sua natura di film sull’apocalisse etica, assomiglia a “Non è un paese per vecchi” dei fratelli Coen; ma a differenza dei Coen, Lumet non esprime un giudizio, lo lascia all’oggettività dell’evidenza. Potrebbe far propria, nel guardare i suoi vili e miseri personaggi, la battuta di Edward G. Robinson a Fred MacMurray sconfitto e morente alla fine de “La fiamma del peccato”: “Guarda come ti sei ridotto”.
Stranamente, un film a cui si può accostare “Before the Devil Knows You’re Dead” è “Intrigo a Berlino” di Steven Soderbergh: sono, in modo differente, “period pieces”. Il ben diverso film in b/n di Soderbergh riprendeva accuratamente stili e “topoi” del cinema degli anni ’40. Il film di Lumet volutamente sembra girato fra la fine dei ’60 e la prima metà dei ’70. E’ un preciso “mood” stilistico richiamato con evidenza da molti aspetti. L’aspetto narrativo: non dico la costruzione a flashbak, ma certamente il modo di introdurla con uno zoom seguito da un gioco fotografico sulla pellicola, che riporta a quello “sperimentalismo di massa” che si era introdotto nel cinema mainstream dell’epoca. L’aspetto della recitazione: che è realistico-espressiva, quasi da Metodo, non tanto in Hoffman quanto in Hawke (in effetti, a dire il vero, un po’ “hammy”) e Finney - guardate la sua espressione nella scena madre finale. Perfino la nudità: che ci richiama più all’epoca di “Un uomo da marciapiede” (1969) che al neopuritanesimo visivo della Hollywood odierna (ed è un bene, non solo perché si vive più felici dopo aver visto gli splendidi seni di Marisa Tomei ma perché il nudo rinforza il realismo del film).
Questo stile “anni ‘60”, va detto subito, non è citazionismo come nel caso di Soderbergh. E’ una rivendicazione orgogliosa, da parte dell’ottantatreenne Lumet, del cinema che si faceva, e lui faceva, a quell’epoca, in polemica implicita con quello presente.

(Il Nuovo FVG)

venerdì 21 marzo 2008

Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street

Tim Burton

Ferocemente colpito negli affetti dal giudice Turpin, Sweeney Todd canta al cielo il suo inno di vendetta nel magnifico film musicale di Tim Burton. Un mostro vendicativo che si scaglia contro tutto il mondo. Ed è interessante la somiglianza fra lui e il giudice (il grande Alan Rickman) quando entrambi sostengono in modo identico che tutti gli uomini meritano di morire… “anche me e te”.
In “Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street” Burton materializza un vecchio topos orrorifico: la casa cannibale, la casa-corpo: la stanza del barbiere che sgozza i suoi clienti è il testa/cervello (le grandi vetrate sono occhi aperti sul triste cielo londinese); attraverso un condotto il cadavere arriva alla cantina dove il processo di triturazione che espelle la materia organica in disgustosi festoni non può non richiamare la defecazione. Poi questa materia espulsa viene rimessa in circolo, dentro i pasticci di carne, e assimilata nel locale-stomaco: un’anatomia innaturale e impazzita, e proprio per questo burtoniana, nel cui mondo le parti del corpo sono interscambiabili.
Del resto, è centrale in Burton il concetto di trespassing, la violazione e il rovesciamento di spazi e confini. La dichiara già in apertura la computer graphics, che ci dice subito tutto sul film, nel viaggio di un occhio inarrestabile, avvolgendolo in una magnifica trasmutazione degli elementi, da aria a fuoco ad acqua a nebbia - e su tutto goccia il sangue.

Bisogna ricordare che l’immaginario di Burton, cresciuto guardando film in tv, si fonda in larga parte sui film del terrore. Ciò costella di reminiscenze il film. La festa mascherata in cui Lucy viene violata coram populo è un luogo comune del cinema, ma Burton ricorderà in primo luogo il Dr. Phibes del “suo” Vincent Price. L’assalto dei pazzi al direttore del manicomio fa pensare a “Bedlam” con Boris Karloff. E al di là dello “Sweeney Todd” del 1936, l’enfasi del film su sgozzamenti vittoriani non ricorda il capolavoro della Hammer “Frankenstein and the Monster from Hell”? Ora, posto che per Burton il mito base è quello di Frankenstein, potrebbe non essere ozioso avvicinare la ciocca bianca nella capigliatura di Sweeney Todd - segno permanente di dolore e di lutto - a quelle che striano i capelli di Elsa Lanchester in “Wife of Frankenstein” (1935): in fondo ambo i film parlano di due mostri uno dei quali respinge l’amore dell’altro. Sweeney Todd è una creatura perfettamente frankensteiniana. Il tableau fondante del film (in Burton il punto di partenza è sempre un’idea grafica) si ha quando Sweeney Todd alza il braccio con in mano il rasoio ritrovato e urla: “Finalmente il mio braccio è di nuovo intero!” Il rasoio non è arma, strumento, oggetto: è prolungamento del braccio stesso. Sweeney Todd come replica omicida di Edward Scissorhands.

Concretizzati da un’interpretazione smisurata e sublime di Johnny Depp e Helena Bonham Carter, Sweeney Todd e Mrs Lovett sono i classici mostri malinconici burtoniani, morti viventi, figure meccaniche, bambole di cera (l’apparizione ingiallita e rovinata della bambola che avevamo visto rosea e integra nel flashback iniziale - non senza una piccola confusione fra lei e la bambina, quasi a rimarcare l’equiparazione burtoniana fra umani e simulacri - sottolinea la somiglianza). Da bambola meccanica è il modo di muoversi di Mrs Lovett in tutto il film; e guardate la scena (immaginaria) del matrimonio, quando il prete dice a Sweeney Todd di baciare la sposa: come si baciano accostando appena le labbra in modo burattinesco: due giocattoli a molla.
Sono mostri, sono bambini. Quando salta fuori la verità sul suicidio di Lucy Mrs Lovett dichiara che non ha mentito ma ha detto solo mezza verità: un concetto di vero e falso prettamente infantile. La “stoltezza” di cui si autoaccusa Sweeney Todd ripensando al passato non è che l’incapacità del bambino di capire il mondo adulto (e difendersene): una dominante di tutta l’opera di Tim Burton, trascritta attraverso l’identificazione autobiografica col volto/corpo di Johnny Depp. Infantilismo e regressione sono le costanti del cinema di Burton. Pure la lurida bottega di pasticci di carne di Mrs Lovett, con gli scarafaggi che scorrazzano e vengono schiacciati a colpi di matterello, ha una necessità diegetica e scenografica, ma rientra anche in quel genere di umorismo gross, infantile-adolescenziale, che si trova in Burton, e di cui è re il personaggio di Beetlejuice.

Rientra in questo quadro un’altra ossessione burtoniana: la perdita della madre e il padre cattivo (anche perché rivale edipico: un aspetto qui illustrato dal piccolo Toby), ma anche il tradimento della madre che si allea col padre contro il figlio - magari piangendo, come Mrs Lovett nel film. Il che ci porta al tema dell’(anti)erotismo. In Burton la sessualità appare sempre come paura e minaccia, legata a personaggi adulti e negativi. Nel film, un quadro erotico cela il buco attraverso cui il giudice spia Johanna, come in “Psycho”; ed essendo il suo tutore, dunque padre putativo, il giudice è figura del padre come incestuoso aggressore sessuale. Quel quadro e le copie di affreschi pompeiani in salotto sono gli unici tocchi di eros visivo, sempre connessi al giudice erotomane, che colleziona volumi sulla prostituzione nel mondo. Il solo altro elemento allusivamente erotico, l’enfasi sui seni non solo di Mrs Lovett ma anche di Johanna, rappresenta una sessualità adolescenziale e fondamentalmente pre-genitale: il concetto visivo della pin-up.
I mostri burtoniani non possono sposarsi (“Sempre la damigella, mai la sposa”, la beffa il villain de “La sposa cadavere”): sia perché sono consegnati a una disperata solitudine, sia perché il passaggio alla sessualità li introdurrebbe nel campo del mutamento, al quale sono alieni. Nulla mostra questo punto meglio del sogno a occhi aperti di Mrs Lovett su una vita coniugale futura in riva al mare. In questa superba sequenza, all’interno dell’incongruità da Famiglia Addams di loro due in costume da bagno con le facce ceree e le occhiaie nere, ve n’è una di secondo grado: l’accigliato distacco catatonico e sonnambulistico di Sweeney Todd, monomaniaco dell’omicidio, perso nella propria malinconia. Per Sweeney Todd e Mrs Lovett, piaccia o no a quest’ultima, la sessualità appartiene a un tempo “umano” passato (nel caso di Mrs Lovett poi è alquanto questionabile, visto quel che racconta del grasso marito Albert). Quando il barbiere assassino uccide senza saperlo la moglie Lucy, uccide il proprio passato e la propria sessualità genitale (aveva avuto una figlia); la botola della casa cannibale è anche l’eliminazione del passato in un processo di espulsione.

Catalogo di ossessioni e vera enciclopedia burtoniana, il musical ruota su una tragica discrasia fra il valore denotativo delle canzoni e il loro contesto visivo e narrativo. Splendidi sgozzamenti iperrealisti ritmano una canzone dove non solo la banda visuale ma anche l’orchestrazione fanno a pugni con la tenerezza delle parole. Già il duetto dei rasoi denunciava un’ambiguità (Sweeney Todd canta il suo canto d’amore ai rasoi mentre con le stesse parole Mrs Lovett lo canta a lui). E v’è un cinismo disperato, quando Mrs Lovett cerca Toby nelle fogne per ucciderlo, nella sua ripresa della dolce canzone (“Niente può farti del male finché ci sono io”) che cantavano in duetto. Ma il capolavoro sono i multipli strati di significato del duetto della bellissima “Pretty Women”, cantata da Sweeney Todd e dal giudice. Il testo è, al pari della musica, languido, poetico, evocativo; lo contraddice la circostanza che lo cantino il giudice come semidelirio erotico e Sweeney Todd come gioco del gatto e del topo; ma non basta: perché lì, durante la canzone, sul volto del giudice, invecchiato, quasi indifeso, balugina imprevista una sorta di innocenza o nostalgia.

domenica 16 marzo 2008

Il petroliere

Paul Thomas Anderson

Gilles Deleuze in uno dei libri più belli mai scritti sul cinema, il dittico “L’immagine-movimento”/“L’immagine-tempo”, fa un’analisi illuminante del naturalismo, che “non si oppone al realismo, ma ne accentua invece i tratti prolungandoli in un surrealismo particolare”. Poche citazioni frammentarie non possono dar conto qui d’un discorso densissimo: nei “mondi originari” sottesi agli ambienti reali “i personaggi vi sono come altrettanti animali”, in un complesso che “fa convergere tutte le parti in un immenso campo di sporcizia o in una palude, e tutte le pulsioni in una grande pulsione di morte”. E’ implicita la dimensione mitica (“un’immagine originaria del tempo”, dice Deleuze), che sorge proprio da questa elementarità primeva e terragna.
Notazioni preziose per intendere “Il petroliere” di P.T. Anderson (“There Will Be Blood”, tratto da “Oil!” di Upton Sinclair), epica di un’avidità vitale e famelica che diventa distruzione e autodistruzione. Ai tanti riferimenti che sono stati fatti, Huston, Ford, Hawks, Stevens, Welles, Kubrick, mi sembrerebbe giusto aggiungere Coppola (per le nascoste vibrazioni melodrammatiche) ma soprattutto Erich von Stroheim. Un epos raccontato secondo il più schietto naturalismo (portato all’estremo nel grande scontro finale) crea un film di magnetica potenza, sinfonia di emozioni e di paesaggi registrata da una macchina da presa esterna e stupefatta davanti alla loro grandezza e alla loro inumanità. Basilare è l’apporto della fotografia di Robert Elswit e dell’audacissima “score” di Jonny Greenwood.
Inizio nel 1898: Daniel Plainview scava, solo come un topo, in una profonda buca. Il buio dello scavo, le scintille delle picconate: un concetto di violazione della terra nel contesto della nascita del capitalismo minerario. Si tratta di una violazione edipica; a questo penetrare violento nel grembo della madre terra corrisponde per inversione l’immagine fallica delle torri petrolifere. Ma quel ch’è sconvolgente in Anderson (e nel suo interprete in stato di grazia, quasi un gemello o un coautore, Daniel Day-Lewis) è la fisicità, è - invento qui un termine che vale per tutto il film - la “terrestrità” del lavoro e dei colpi di piccone. Nel cinema, che è messa in scena, la fatica e il dolore sono di necessità mimati: sono una riproduzione, imitativa o simbolica, uno “stare per”. Qui invece il film ne riproduce diabolicamente l’essenza. Aiuta questa concentrazione di significato l’audace scelta per cui i primi 15 minuti del film sono interamente muti. Sentiamo solo ansimare, e suoni inarticolati.
Ferocemente Daniel scava, mente, scava, costruisce. Confesserà al sedicente fratellastro Henry, mentre un alone sanguigno tinge di rossastro i visi: “Io sento la competizione in me. Io non voglio che gli altri riescano. Odio la maggior parte della gente, io”. “Voglio guadagnare così tanto da poter stare lontano da tutti”. Fino a perdere per strada il figlio adottivo e finire in una solitudine pazzoide che ricorda il Kane di “Quarto potere”.
Quando Daniel versa whisky nel latte al neonato rimasto solo dopo l’incidente, questa brutalità “western” lega il padre putativo e il figlio, ma in qualche modo evoca allusivamente lo scontro futuro. “Il petroliere” è un film pieno di anticipazioni: non solo per ragioni narrative ma perché la sua aura mitica, caricando di risonanza ogni avvenimento, lo carica di un senso di presagio.
La strada di Daniel s’intreccia con quella del reverendo Eli (Paul Dano), manipolatore dell’isterismo religioso. “Doppio” istrionico di Daniel, anche Eli costruisce un suo impero (solo che il suo rappresenta una beffarda parodia delle parole evangeliche, “Il mio regno non è di questa terra”). Tuttavia Eli mantiene sempre un che di strisciante e di perdente in confronto alla monomania rocciosa, e in un suo torvo modo eroica, di Daniel. La loro storia termina col sangue: “There Will Be Blood”; “Si vedrà il sangue” sarebbe stato un titolo italiano migliore, anche perché questo titolo entra nel racconto, come sigillo conclusivo.

(Il Nuovo FVG)

sabato 15 marzo 2008

Sogni e delitti

Woody Allen

Woody Allen, ce lo ha raccontato in veste di comico, è tutta la vita che battaglia col suo Super-Io (quello che gli appariva come Humphrey Bogart in “Provaci ancora Sam”). Ora si ha l’impressione che il Super-Io abbia riportato una vittoria sbaragliante sul piano artistico. Perché la caratteristica dell’ultimo film alleniano, “Sogni e delitti”, sembra un’ipertrofia dell’autocontrollo. Molti anni fa Woody ci diede una grande definizione del classicismo quando disse: “Io sono per il classicismo - mi piace la pizza al formaggio con niente sopra”. “Sogni e delitti” mira al classicismo assoluto: vuol essere un’aspra moralità basata su un’estrema concentrazione; è perfino commovente osservare come Allen abbia cercato di asciugare, di evitare fughe, di raggiungere una forma severa. Nondimeno, il film è da considerarsi (purtroppo!, sospirerà ogni buon alleniano) un fallimento artistico. Non è necessario invocare la “sacra dismisura” nietzschiana per concludere che Woody era più felice quand’era più libero.
Com’è noto, uno dei capolavori assoluti di Woody Allen, del 1989, è “Crimini e misfatti”. Di quel film, Allen nel 2005 realizzò, non un remake, ma certo un ideale rifacimento, “Match Point” (molto bello ma senz’altro inferiore al primo); e “Sogni e delitti” è a sua volta una variazione sul tema di “Match Point”, l’omicidio e la colpa. E’ la parabola di due fratelli, l’uno “un morto di fame che fa il pezzo grosso con le macchine degli altri” (autodefinizione di Ian/Ewan McGregor), l’altro un giocatore compulsivo indebitato con gli strozzini (Terry/Colin Farrell). Arriva il ricco e paterno zio Howard (un ottimo Tom Wilkinson) e – in un momento di rovesciamento totale delle nostre aspettative sul personaggio, non per nulla sottolineato simbolicamente da uno scroscio di pioggia – si offre di finanziarli se commetteranno un omicidio per lui.
Il film indica nel percorso dei fratelli una nera progressione: tirare sul prezzo della barca che comprano (“Cassandra’s Dream” è il suo nome di cattivo augurio) dopo essersi compiaciuti che costa poco, vivere di gioco d’azzardo o mentire sulla macchina che si guida, appropriarsi dei soldi del padre, e infine uccidere, appartengono allo stesso ordine morale. Il problema attorno al quale gira il pessimismo alleniano è sempre lo stesso: posto che l’ipotesi di Dio è fuori dal quadro, esiste una morale oggettiva o i rapporti umani sono ispirati al puro pragmatismo dell’“homo homini lupus”? Tradizionalmente in Allen un elemento di coesione è la famiglia. Ma questo film satireggia gelidamente proprio la famiglia, coi discorsi omicidi di zio Howard che riecheggiano quelli morali della madre.
Il problema è che i dialoghi sono una ben modesta copia di quelli vertiginosi di “Crimini e misfatti”, nonostante un paio di reminiscenze shakespeariane. Non mancano dei buoni momenti (com’è bello quel delitto che si compie fuori campo mentre la macchina da presa si allontana in un carrello vuoto) ma il film in generale risulta un’opera piuttosto stanca. I personaggi minori sono poco definiti. Vedi com’è una figura irrisolta l’attrice fidanzata di Ian, Angela (Hayley Atwell). Comprendiamo subito che il suo ruolo di mangiauomini sul palcoscenico (in tale ruolo Woody la filma con un pudore un po’ preoccupante per l’uomo che ha detto “Vorrei essere il collant di Ursula Andress”!) è una “mise en abyme” del suo personaggio nel film; però poi Allen, tutto concentrato sul tema del senso di colpa del fratello Terry, sembra lasciare questo sviluppo per strada.
Quanto ai genitori (John Benfield e Clare Higgins), fanno pensare alle famiglie ebree americane disegnate da Allen tra affetto e ironia in tutta la sua carriera. Solo che questa copia è asetticamente situata in Inghilterra. E qui forse riusciamo a toccare un altro dei motivi per cui “Sogni e delitti” non colpisce il segno: non bisogna essere deterministi ma forse per Allen recidere (cinematograficamente) il suo legame con l’America si è tradotto in un danno artistico.

(Il Nuovo FVG)

sabato 8 marzo 2008

Persepolis

Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud

Il mondo ha una lunga storia di profezie sbagliate ma sentite questa della madre di Marjane in “Persepolis” agli albori della rivoluzione: “In ogni modo, non potrà mai essere peggio che sotto lo Scià”. Poi vediamo in “Persepolis” (il fumetto e il film) andare al potere i bastardi khomeinisti e in queste pagine/scene vengono squadernati tutti gli orrori del regime teocratico iraniano – alcuni ben noti al mondo e altri meno (poiché è vietato giustiziare una vergine gli ayatollah la fanno deflorare prima, come Tiberio con la figlia di Seiano in Tacito).
“Persepolis” disegna un quadro dell’Iran di impressionante nettezza e potenza - sia sul piano storico di 30 anni sia sul piano sincronico della vita quotidiana - nel suo tratteggiare la vita di una ragazza combattiva, dall’infanzia in poi, attraverso la rivoluzione, l’esilio volontario in Europa per sfuggire al potere dei mullah (non mancano acide osservazioni, molto centrate, sugli europei), il ritorno in Iran, la partenza per un nuovo esilio. “Ti proibisco di tornare”, le dice per amore la madre alla partenza, poiché l’immondo regime che soffoca l’Iran non è posto per lei.
Marjane Satrapi ha trasposto in cartoon, assieme a Vincent Paronnaud, il suo fumetto autobiografico, compiendo un intelligente lavoro di asciugamento del testo per portarlo a una dimensione di film (mantenendo ma riducendo la parte immaginaria). Un paio di dettagli, come la casa degli omosessuali o il serial giapponese di Oshin, rimangono a titolo di pura autocitazione per chi ha letto il fumetto. Il cartoon presenta un tratto alquanto ingentilito rispetto a quello volutamente quasi infantile del fumetto (interessante che nel film i personaggi sorridano con la bocca a salsicciotto e grandi denti disegnati a tratti verticali proprio come i Simpson). Il testo è spiritosissimo - vedi il “controcampo emotivo” per cui il fidanzato Markus, scoperto infedele, viene ridisegnato come un mostriciattolo, o la partecipazione di Godzilla come guest star.
Il film conserva il bianco e nero che caratterizza le pagine del fumetto (breve eccezione, la Parigi di Marjane Satrapi), nonché l’aspetto bidimensionale del disegno, lavorando per ridurre l’effetto di prospettiva; vedi come appaiono “flat” le fronde degli alberi in primo piano davanti a un edificio - l’aspetto voluto non è quello dell’imitazione grafica di uno spazio tridimensionale ma di un foglio di carta ritagliato e sovrapposto a un altro. Questo si può collegare all’uso di un teatro di marionette piatte per rendere alcuni momenti di tono ironicamente semi-mitico come l’ascesa al trono del primo Scià. L’elemento di astrazione del disegno – che, come giustamente è stato osservato, a tratti richiama direttamente la grafica espressionista – confligge fecondamente con la materia realistica e bruciante del racconto.
Tre dimensioni sorreggono il sistema monocromatico del film: il nero, un inchiostro profondo, proteiforme, sempre pronto a espandersi; il bianco, che la luce del proiettore contrastando fortemente col nero rende accecante; un grigio granuloso che serve per gli sfondi. Questo nero del film è mobile, si modula in varie forme. In un’inquadratura sull’obbligo del chador i corpi femminili infagottati si fondono nel nero, i visi diventano ovali bianchi in un mare d’inchiostro. Il nero di un edificio in controluce diventa un “nero” di stacco che serve alla transizione fra il disegno dei personaggi per strada e quello degli stessi nella festa clandestina in una casa.
Tutto ciò all’interno di una più larga tendenza del disegno alla trasformazione e allo scambio (i corpi delle due megere in chador che interrogano Marjane si deformano e s’incurvano, quasi due serpenti con un’acida faccia umana). Questa dimensione mobile è un’aggiunta, ma la transizione di “Persepolis” da fumetto a film è così intrinsecamente fedele e così felice perché evidentemente esaudisce una tensione verso la trasformazione e il movimento che c’era già nella pagina disegnata.

(Il Nuovo FVG)