martedì 8 gennaio 2008

Zatoichi

Kitano Takeshi

La verità è che il magnifico “Zatoichi” di Takeshi Kitano andrebbe necessariamente visto due volte - poiché la conclusione illumina il film a ritroso: non perché ne sveli il senso (già chiaro) ma perché imperiosamente lo concretizza in un unico passaggio narrativo, che si riverbera sull’insieme. Questa recensione intende fornire un servizio sociale descrivendo senza pudore la conclusione di “Zatoichi” (del resto, non è mica un giallo!) e così liberando il lettore dalla necessità di rivederlo (fatto salvo, naturalmente, il godimento della sua indiscutibile bellezza). Ma se qualcuno fosse così avido di scoperte da non volersi far togliere alcuna rivelazione, la cosa migliore è che non legga prima di aver visto il film.
Zatoichi (o Zato Ichi, Ichi il Massaggiatore), letale spadaccino cieco che compensa la mancanza della vista con un’innaturale acutezza degli altri sensi, massaggiatore di mestiere e giocatore d’azzardo, è un popolarissimo personaggio del “chambara”, il cinema di cappa e spada giapponese. Fu protagonista di 26 film (1962-74, ed uno nel 1989), interpretati da Shintaro Katsu, nonché di una serie tv di oltre 100 episodi. Nella presente versione, c’è la sorpresa che al culmine del film Zatoichi - interpretato da Kitano coi capelli biondi! - apre gli occhi (ma non sono quelli neri e scintillanti di “Beat” Takeshi, sono gli occhi chiari e morti dei ciechi): mai stato cieco, dice, ma tenere gli occhi chiusi aiuta a sentire meglio. Però alla fine vediamo che cammina nel buio - e inciampa! E commenta: “Anche con gli occhi spalancati non riesco a vedere niente”. Una chiusura geniale che è uno dei vertici di semplicità zen del cinema giapponese.
Cecità o no, il film non si basa sul vedere ma sul non vedere: la svalutazione della vista come svalutazione dell’evidenza. Il mondo è offuscato, con gli occhi chiusi si “sente” meglio. Dunque vedere meno significa vedere di più. Una morale zen che riporta a quel senso di inconsistenza delle cose che sta al fondo del cinema di Takeshi Kitano, e della cultura orientale.
Confrontandosi per la prima volta col “chambara” Kitano lo affronta con bella sicurezza. Evidentemente gli è congeniale l’eleganza estremistica ed esasperata di questo sanguinoso balletto di spade. Kitano - che stende i suoi superbi colori come un pittore - ha sempre un’alta concezione della bellezza; anche quella, meccanica e sanguinaria, di un imprevisto fendente che squarcia la carne, di una lama che emerge all’improvviso da una schiena. Bellezza grafica del sangue! Che sprizza nell’aria, arrossa l’acqua piovana in terra, lascia un segno che è quasi un ideogramma sul muro.
Allo stesso modo Kitano trova nel “chambara” un eccellente terreno per il suo bizzarro humour noir. Delizioso come sottolinei la pericolosità delle spade: un malvagio estraendo fa un taglio al complice vicino, un altro nell’inchinarsi con la spada in mano ferisce il suo capo... Se i grandi campioni maneggiano le spade con impossibile abilità, i cattivi più sfigati si fanno male come bambini. Ma “Zatoichi” padroneggia anche l’aspetto drammatico, in tocchi di splendida concentrazione narrativa. Vedi - come nascosto nelle pieghe - il romanzo d’amore bellissimo e straziante del “ronin” (Asano Tadanobu) e di sua moglie malata: un film nel film, ma un film di tre minuti. Oppure - nel tempo sconvolto e incrociato del film, dove i flashback entrano come colpi di spada - la scena dei due bambini, con la prostituzione e l’abbraccio: una breve sequenza di tale bellezza che potrebbe essere Mizoguchi.
Un senso ritmico attraversa “Zatoichi”. Volentieri Kitano - anche montatore - gioca sui movimenti coordinati trasformandoli, tramite montaggio e musica, in un “ballet mécanique” (le zappe dei contadini, la costruzione della casa). Un senso ritmico che esplode nell’impossibile astrazione anacronistica del finale: la danza dei contadini si trasforma in puro purissimo musical (ripreso con le inquadrature di rito), culminando in un tip-tap!

(Il Nuovo FVG)

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