martedì 8 gennaio 2008

Arancia meccanica

Stanley Kubrick

E' importante, al di là delle considerazioni valide per qualunque capolavoro restaurato, il ritorno di "Arancia meccanica" nei cinema: non solo per il "surplus" aggiunto al film dal passaggio sul grande schermo (constatazione desolante: quello che chiamiamo un surplus è semplicemente il ritorno del film al suo status originario). "Arancia meccanica" è uno dei film che perdono di più visti sul teleschermo e nella diversa condizione psichica propria della fruizione televisiva; "Arancia meccanica" dispiega pienamente il suo devastante dispositivo solo sul grande schermo e nella sala buia, ipnotica, del cinema.
Pensiamo all'indimenticabile apertura. L'occhio truccato di Alex, gigantesco nel dettaglio, ci aggancia, e uno dei carrelli indietro più potenti della storia del cinema si sviluppa - a scoprire i drughi e il Milk Bar - lungo la linea di questo sguardo, sulle note tristi e pompose di Henry Purcell. Così Alex - il piacere panico dell'ultraviolenza - ci ha legati a sé, instaurando quella situazione di riluttante fascino, disgustata complicità, che proveremo seguendolo.
E' cosa ben rara che all'apertura di un film, quando il nostro occhio avido di emozione e di godimento si fissa sullo schermo, lo schermo ci risponda guardandoci a sua volta. Il geniale inizio di "Arancia meccanica" realizza questo rovesciamento, avvertendoci subito con impietosa autorità che, nel film, "de te fabula narratur". Non per nulla proprio "Arancia meccanica" contiene un'immagine che è la descrizione definitiva del cinema: l'occhio di Alex tenuto fermo dalle graffe quando, sottoposto alla "cura Ludovico", viene costretto a guardare il filmato sconvolgente. Il cinema: l'ineluttabilità della visione.
E naturalmente questa viene esaltata nella scena madre del pestaggio dello scrittore (Patrick Magee) e dello stupro di sua moglie (Adrienne Corri) al canto di "Singin' in the rain", con le prese in grandangolo dal basso, che - com'è già stato osservato - entrano ed escono dallo status di soggettiva di Patrick Magee gettato a terra. "Guarda!" ghigna Alex guardando in macchina, a lui/a noi. L'occhio della macchina da presa riporta alla nostra visione (alla nostra essenza: alla nostra responsabilità) di spettatori.
Se Alex ci fa paura come nostro "doppio", non è perché, come si potrebbe pensare, sia la pura aggressività dell'inconscio, l'Es scatenato. Quello semmai sono i suoi amici, i drughi: dei barbari "yahoos" (che spernacchiano Beethoven) legati all'immediata materialità del saccheggio, e capaci - osserva Kubrick quando ce li fa reincontrare come poliziotti - di rimanere identici senza traumi di là e di qua della barriera della legge. Alex è violento e aggraziato, picchiatore e stupratore sadico e insieme fine parlatore maestro di ipocrisia. Non è l'Es liberato: in termini (paleo?) freudiani Alex è l'Io privo del Super-Io. Per questo ce lo sentiamo vicino, per questo ci spaventa (il cinema ha trovato più tardi una figura mitica vagamente analoga nel dottor Hannibal Lecter). Se pensiamo che Alex, insieme bestiale e raffinato, potrebbe essere "la bestia bionda" sognata dal nazismo, assume una sfumatura in più quel collegamento fra Beethoven e il filmato dei campi di sterminio che lo sconvolge durante la "cura Ludovico": poiché è uno specchio.
Non è difficile vedere come "Arancia meccanica" sia la versione parodisticamente rovesciata della storia del dottor Jekyll: il tentativo di tirar fuori la "parte buona" per via chimica (la tecnica è comportamentista, pavloviana). Tentativo destinato allo scacco. L'universo morale non può essere annullato in questo modo (Kubrick ci rappresenta ironicamente questo concetto trasferendolo sul piano materiale degli incontri: Alex a ogni piè sospinto va a scontrarsi col suo passato). L'apologo che il pessimismo kubrickiano ci pone davanti non ammette soluzioni facili.

(Il Nuovo FVG)

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